mercoledì 17 dicembre 2014



Hurray  For The Riff Raff - Small Town Heroes


Alynda Lee Segarra portoricana e cresciuta nel Bronx, adolescente frequenta
i giri punk del Lower east side entrando nel collettivo femminista delle Bikini Kill.
Poi a diciassette anni se ne va di casa e parte alla scoperta dell’America, da sola, saltando sui treni, come detta la vecchia tradizione.
Si unisce ad un gruppo di musicisti itineranti, la Dead Man Street Orchestra, con cui canta, suona il banjo e con loro viaggia e suona nelle strade delle città che incontra.


Finisce a New Orleans e lì si adopera per un nuovo progetto stringendo alleanza con il violinista transessuale Yosi Pearlstein (“Siamo una band omosessuale. Anzi, è ancora più complicato di così”) e con altri musicisti si mette a suonare dal vivo scegliendo come nome della band Hurray for The Riff Raff che tradotto suona come ”Viva la feccia, gli emarginati, la ciurmaglia”.


Dal 2007 allineano una consistente discografia, fino ad arrivare a Small Town Heroes dedica a New Orleans, una grande città con le caratteristiche di un piccolo paese.
Il nuovo album costituisce una re-immaginazione femminista della canzone di protesta folk e della musica da strada americana perché l’idea di Alynda e dei suoi è di utilizzare i diversi linguaggi del country, non per riproporre, in modo più o meno fedele all’originale ma come punto da cui partire per una profonda revisione dell’attualità.


Il titolo fa capire quale sia l'universo di Alynda che racconta di un'America marginale e periferica con l'occhio di una ragazza che canta con la persuasione di una vecchia folk-singer un mondo che non è mai come lo si vorrebbe.
Pregiudizi, barriere, razzismi, vengono combattuti con la musica, impegnata in  difesa dei diritti degli omosessuali, attingendo da una parte alle teorie femministe e a dall'altra ad un patrimonio di musica tradizionale che vede cantanti come Billie Holiday, Bessie Smith, Nina Simone accasarsi con Bob Dylan, Townes Van Zandt, Woody Guthrie. 



sabato 13 dicembre 2014




 Cairo, la città morta di razzismo


Non è lungo il tratto di strada che, sulla riva sinistra del Mississippi, da Ferguson, nella contea di St. Louis, porta a Cairo (Illinois): una è la cittadina del Missouri dove è infiammata la protesta dopo l’uccisione di Michael Brown, il giovane nero disarmato colpito con sei colpi dalla polizia; Cairo è la città morta di razzismo, diventata nei decenni una una “città zombie” dopo gli scontri alla fine degli anni Sessanta, causati da un episodio molto simile a quello accaduto nel sobborgo di St. Louis. Ma Cairo per tutto il Novecento, mentre era uno degli snodi commerciali più importanti del Midwest, è stato l’epicentro del conflitto razziale negli Stati Uniti. Quando arriviamo verso mezzogiorno all’imbocco di Washington Street, ancora chiamata Millionaire’s Row, un vecchio orologio di ghisa segna fisso le 7.30. Forse è l’ora in cui in un anno imprecisato Cairo è morta.


Il fiume è tenuto lontano da un sistema di argini che trasforma Cairo in una cittadella assediata: dentro poche case ancora in piedi, miseria cupa, cartacce e sporte che svolazzano nel vento caldo d’agosto, odore di fogna misto a quello del deposito e riciclo della spazzatura, alloggiato nell’ex liceo pubblico. Un film dell’orrore, con le insegne arrugginite che cigolano, ombre di disperati che s’intravvedono nelle abitazioni divorate dagli sterpi e dai tarli, un pickup nero che sgomma nella polvere e reclamizza un negozio di revolver. L’ospedale è chiuso, la piscina è chiusa, la stazione dei bus è chiusa, l’ultimo treno della City of New Orleans si è fermato a Cairo nel 1988, mentre c’è ancora la Central Station ma i treni tirano via veloci, non degnano Cairo neanche di uno sguardo sdegnato, neanche di un fischio di scherno. Gli attuali tremila e rotti abitanti, 75 per cento neri non hanno un alimentari perché non si trova personale in grado di superare gli elementari test d’assunzione - il 60 per cento dei residenti non ha nemmeno il diploma delle scuole medie - inoltre stare alla cassa significa giocare alla roulette russa: il sergente di polizia Jody Benbrook, 35 anni, racconta che 50 chiamate di intervento al giorno per tremila persone sono il record nazionale assoluto. «Cairo è diventata il centro di smistamento dell’eroina della regione, soprattutto del cristalmeth, il nuovo crack” dice. “Quando ti trovi contro uno che è fatto di questa roba devi sparargli, è come Superman». Il sergente non vuole parlare dei fatti di Ferguson, alza le mani in segno di resa verso il destino. Racconta poi tranquillamente che i pochi bianchi vanno al Nu Diner, “il ristorante dei bianchi”. Mangiano il pescegatto fritto, tre dollari. Qui troviamo Rudy, ex capo dei pompieri che ora accumula case alle aste giudiziarie, ne ha una trentina, costo medio 600 dollari.



In ventimila se ne sono andati. Oggi Cairo è un cumulo di ruggine. «Rust never sleeps», canta Neil Young. Dopo le otto di sera chiudono i distributori di benzina, il primo cinema si trova a sessanta chilometri, in Kentucky. L’unica attività gestita da un nero è una barberia ricavata da un vecchio night club. Come Scipione sparse il sale sulle rovine di Cartagine che non doveva mai più rinascere, così Cairo, per aver esibito il lato osceno della Storia, è stata punita privandola di Internet, che funziona sul telefonino appena fuori i confini urbani, quando cominciano i campi di mais.


Fu un’estate di fuoco quella del 1967, quando Robert Hunt, 18 anni, soldato nero in licenza venne trovato impiccato nella locale stazione di polizia. Suicidio decretò lo sceriffo. L’avete ucciso urlò la folla davanti al palazzo della vecchia dogana adibito a Corte distrettuale quando arrivarono gli inquirenti da Washington. La tensione cresce, i bianchi organizzano una milizia chiamata White Hats, perché indossano un elmetto bianco da cantiere. I neri fondano il Cairo United Front. Arriva la Guardia nazionale, un altro soldato nero in licenza, Wily Anderson, viene ammazzato da un cecchino. Per ritorsione muore sparato il giovane bianco Lloyd Bosecker. Vengono arrestati quattro neri, il presidente Lyndon Johnson ordina il coprifuoco. Ma quell’estate fu solo il culmine della guerra per i diritti civili che per tutto il Novecento trasformò Cairo, Illinois, nella Beirut d’America. Dopo la Guerra Civile, sempre per la sua posizione strategica, Cairo fu piazza di sosta e smistamento di migliaia di neri ex schiavi o combattenti nordisti verso le metropoli del Nord Est, ma molti si fermarono, formando una pericolosa percentuale del 5 per cento della popolazione in una città che nonostante fosse stata avamposto delle armate nordiste, non aveva mai celato il proprio appoggio alla causa del Sud, tanto da diventare il centro strategico del Ku Klux Klan. Molti tra i più feroci linciaggi si ebbero qui agli inizi del Novecento. Nel 1946 gli insegnanti neri fecero qui il primo sciopero per la parità di salario con i bianchi. A Cairo le scuole separate vennero abolite nel 1968, dieci anni dopo che nel resto dell’Illinois. “I bianchi a Cairo non hanno mai assunto un nero, mai” dice la signorina Louise Ogg, 75 anni, custode con la sua cagnolina all’ex Post office ora museo della Guerra civile (circa sei visitatori la settimana): «Era una città colta, elegante. Poi sono arrivati l’odio e il sangue”. Negli anni Sessanta la segregazione era totale, negli uffici, nei parchi, nell’assegnazione delle case popolari. La piscina pubblica venne trasformata in club privato (“members only”), la pista di pattinaggio (pubblica) era la sede delle riunioni del KKK.


Dopo i fatti dell’estate del 1967, cominciò l’esodo. I neri boicottarono i negozi dei bianchi perché si ostinavano a non assumere afroamericani. E i bianchi pur di non mollare questa loro Maginot della superiorità razziale, chiusero i battenti e se ne andarono. I campionati di baseball giovanili vennero aboliti per non dover cedere alle leggi antisegregazioniste di Washington. Negli anni Settanta ci furono oltre quattrocento notti di sparatorie, negozi fatti saltare, incendi. Centinaia di attività andarono in bancarotta. Quando negli anni Ottanta furono ammesse le Riverboats Gambling, le navi-Casino per agevolare la ripresa delle città depresse lungo il MIssissippi, nessuno volle attraccare a Cairo. Eppure la sua posizione è formidabile: Cairo è stata fondata alla confluenza tra l’Ohio River e il Mississippi, una fortuna geografica che non è coincisa con quella storica. Terra fertile, abbondanza di raccolti, il limo che si deposita dopo ogni esondazione, ecco perché i primi coloni chiamarono questa regione Little Egypt: oltre a Cairo fondarono Thebes e naturalmente Memphis. Ai primi del Novecento Cairo se la giocava con Chicago e St. Louis. Negli anni Trenta le star di Broadway in tournée dopo aver lasciato Chicago e prima di dirigersi a San Francisco facevano tappa al Gem Theatre di Cairo in Commercial Street. A Sud di Washington Street ci sono ancora, bianche, malinconiche e spettrali, le magioni coloniali in “italianate style”. Era la capitale commerciale del Midwest, quattro linee ferroviarie, 500 mila vagoni merci l’anno; fino agli anni Settanta è stata il primo snodo portuale del Mississippi, shipping terminal dell’acciaio di Cleveland e Pittsburgh attraverso l’Ohio River. La sua collocazione strategica - il generale Ulisse Grant si era acquartierato qui per l’ultimo assalto al fronte sudista durante la Guerra civile - l’avrebbe senz’altro salvata dal destino toccato alle altre città della cosiddetta Rust Belt a causa della crisi dell’industria pesante e della grande manifattura. Avrebbe superato la crisi dell’acciaio e sarebbe stata perfettamente attrezzata per accogliere il nuovo boom del traffico fluviale sul Mississippi, oggi la più trafficata via d’acqua del pianeta, con circa un miliardo di tonnellate di grano, carbone, sabbia, sale, petrolio, containers trasportati su e giù ogni anno. Ma Cairo, dopo l’estate del 1967, divenne maledetta, una città da cancellare dalla coscienza americana. Meglio partire prima che cali la sera, alla radio Keb’Mo’ canta: «It’s time for us to be movin’ on»

Marzio G. Mian 






mercoledì 10 dicembre 2014



Alabama Monroe
“The Broken Circle Breakdown”
 

Alabama Monroe si apre con le immagini di una band che  esegue una versione bluegrass di “Will the Circle be unbroken”, classico del country americano.
Il brano scritto agli inizi del ‘900, interroga sulla relazione circolare tra vita e morte, un riferimento esplicito non solo al titolo originale del film ma anche al dissidio tra fede e ragione che attraversa questo piccolo racconto di sofferenza famigliare.
Quando lo scenario si allarga, il paesaggio non è certo il Kentucky di Bill Monroe, ma il capoluogo delle Fiandre Orientali.
Una sovrapposizione solo apparentemente bizzarra che in realtà da una parte recupera, quasi idealmente, le radici europee di un genere apolide e dall’altra documenta la notevole esplosione di formazioni bluegrass Europee che ha visto il Belgio come importante centro produttivo degli ultimi anni.


Adattamento teatrale scritto dallo stesso Johan Heidenbergh insieme a Mieke Dobbels, “The Broken Circle Breakdown” mette al centro la passione di Didier per la musica e la mitologia country, il suo eroe è Bill Monroe, figura seminale nello sviluppo del Bluegrass, dal quale cerca di desumere tono, impostazione e in parte anche stile di vita.


Quando il solitario musicista conoscerà la tatuatrice Elise, tra i due nascerà un’istantanea storia d’amore tenuta insieme dalla relazione con la musica, ragione di vita per Didier ed espressione del tutto istintiva per Elise. 


Dal loro matrimonio nascerà Maybelle, in onore di Maybelle Carter, nota interprete country e voce di una delle versioni più conosciute di “Will the Circle be unbroken”. Durante la prima infanzia a Maybelle sarà diagnosticato un tumore, un evento che costringerà la coppia ad affrontare una  lunga battaglia dove il cerchio perfetto della famiglia rischierà di spezzarsi.




giovedì 4 dicembre 2014



Andrew Wyeth

Il pittore del silenzio

 


L'artista Andrew Wyeth (Chadd ford 1917 – 2009) è vissuto in America durante gli anni in cui infuriava l’espressionismo astratto e la pop art e per questo è stato snobbato per molto tempo dalla critica ufficiale come un eccentrico e solitario pittore retrò.
E’ stato bollato come un esponente del gusto americano più popolare e nostalgico, ma in realtà i suoi dipinti sono rappresentazioni d’un ambiente e d’una esistenza asciutte e severe, in cui si annida un silenzio profondo, un silenzio che è nell’aria, nella vita solitaria d’ogni giorno.
 Nei suoi quadri l’atmosfera è austera, essenziale, ma è veramente magistrale la sua capacità di restituire, tra i campi vuoti le colline brulle e  le case isolate, la solitudine delle figure, quasi schiacciate dall’asprezza dell’ambiente.


Il suo è un sincero e sentimentale attaccamento al mondo rurale della Pennsylvania e del Maine, regioni dove ha trascorso gran parte della sua esistenza, riproducendone con meticoloso realismo i paesaggi, le case, gli interni e i suoi abitanti, gli uomini e le donne che incontrava.


 I suoi nudi femminili, quelli ch’egli dedicò solo a Helga Testorf, sua modella e probabile amante per oltre quindici anni (dal 1971 al 1985, la dipinse 240 volte senza che la moglie di Wyeth né il marito della donna ne fossero a conoscenza) denotano più un piacere estetico nell’accarezzare con lo sguardo la bellezza del corpo ritratto, che un coinvolgimento romantico o erotico.


Al di là dei riconoscimenti ufficiali, possiamo affermare che Andrew Wyeth è stato un eccellente pittore, da inserire nella tradizione realista di altri artisti come Edward Hopper o Winslow Homer.



mercoledì 26 novembre 2014



Frederic Remington


Nato nel 1861 nei dintorni di Canton, New York, è stato uno dei più grandi pittori del west.
Figlio di un eroe della Guerra Civile americana e di una giovane borghese di ricca famiglia, Remington mostrò fin da piccolo la sua innata passione per i cavalli e per le cose militari al punto che per i genitori fu assolutamente naturale mandarlo ad un'accademia militare per proseguire con gli studi secondari.


Pervaso da una irrefrenabile passione per l'arte e dotato di una non comune capacità di rappresentare qualunque soggetto e ambientazione, provò a dotarsi degli strumenti teorici disponibili a quel tempo frequentando alcuni selezionati college, ma alla fine preferì mollare tutto e partire per l'avventura verso il west. 


Non dobbiamo dimenticare che si parla di tempi eroici in cui ancora la frontiera non era stata completamente esplorata e le principali guerre indiane non erano state combattute. 
Vide un'infinità di posti memorizzandone i dettagli, si procurò fotografie di ogni dove, si fece raccontare tutto sulla frontiera e sugli uomini che li rischiavano la vita. 


E disegnò, pitturò e incise il bronzo. Centinaia di tele hanno descritto, attraverso i decenni della sua piena attività, ogni angolo di vita dell'old west americano: indiani, cow-boys, rancheros, agguati, battaglie, cariche, silenzi, paesaggi, bestiame.



La gran parte delle opere è esposta presso Ogdensburg nella casa della famiglia Remington, trasformata nel "Frederic Remington Art Museum", ma decine e decine di capolavori impreziosiscono le case di molti collezionisti privati che ne sono entrati in possesso pagando a caro prezzo. La sua opera The Outlier del 1909, conservata al Brooklyn Museum, è stata utilizzata da Fabrizio De André per la copertina del suo album del 1981, ufficialmente senza titolo e conosciuto come l'indiano.





mercoledì 19 novembre 2014



La bibbia al Neon - John Kennedy Toole

“ …E così adesso sono su questo treno. E’ appena spuntata l’alba….Qui siamo in pianura. Adesso che è chiaro vedo che da queste parti non c’è neanche una collina. Non ho mai visto una pianura e mi chiedo che effetto faccia viverci. Io sono abituato a vedermi intorno le colline e i pini, ma qui non ci sono né pini né altri alberi alti, soltanto degli alberi bassi e come appiattiti, che di certo non ondeggiano al vento”


C’è un ragazzino sensibile e sognatore che cresce in un piccolo villaggio sonnolento, bigotto e crudele, nella profonda provincia rurale americana. Ha un occhio osservatore e una particolare propensione ad accettare in maniera quasi impassibile ogni evento, comprese le tante difficoltà che si abbattono sulla sua famiglia.
Il padre che perde il lavoro e diventa violento, l’arrivo in famiglia dell’eccentrica zia Mae che, accompagnata dalla fama di cantante, riesce a dare scandalo nel piccolo paese in mano ad un pastore bacchettone e retrogrado. Una comunità di moralisti che fa ricadere automaticamente il biasimo per la zia sulle spalle di David, vittima persino delle angherie della maestra, moglie del pastore. Eppure il ragazzo continua la sua vita, consapevole dell’ipocrisia imperante, ma scegliendo di attraversare le difficoltà in silenzio od almeno così appare…


Opera giovanile di John Kennedy Toole, che scrisse questo libro a soli 16 anni, si avete letto bene, a  sedici anni La Bibbia al neon ha dovuto aspettare più di quarant'anni per uscire dal cassetto in cui era stato confinato.
Dopo dieci anni infatti Toole scrive il suo secondo romanzo Una banda di Idioti cercando a lungo di far lo pubblicare, ma senza successo. Ben otto editori rifiuteranno il testo, nessuno o quasi sembra accorgersi della sua genialità. Ignorato e snobbato dalle case editrici, imprigionato nel tragico ruolo di genio incompreso, cadde in depressione.
Fu probabilmente quella situazione di isolamento che lo spinse al suicidio a soli trentadue anni nel 1969.
Se non fosse stato per la testardaggine della madre dell'autore che cominciò a far leggere il manoscritto del romanzo ad editori  e a professori universitari, probabilmente tutto sarebbe caduto nel dimenticatoio.
A scoprire la grandezza di Una banda di idioti fu il grande scrittore Walker Percy (L’uomo che andava al cinema), che contattato telefonicamente dalla signora Thelma Kennedy Toole nel 1976, accettò di leggerlo, non senza perplessità.
Si rese conto di avere tra le mani un grande romanzo, che ribaltava i valori della letteratura americana degli anni '50 attraverso l'ironia e il gusto del grottesco. Una volta dato alle stampe, il successo di questo libro non conobbe fine, tanto che nel 1981 vinse il Premio Pulitzer alla memoria.


Poco prima di morire la madre, frugando tra le carte del figlio, trova il manoscritto che l’autore non considerò mai abbastanza valido da chiederne la pubblicazione, La bibbia al Neon. 
E’ convinta di avere tra le mani un nuovo capolavoro. Ormai vicina alla fine, affida il destino del libro ad un amico, ma il testo resterà bloccato fino al 1989 a causa di una disputa legale con gli eredi di Thelma.
John Kennedy Toole ci ha lasciato in eredità queste pagine straordinarie, che per la loro potenza e lucidità costituiscono la testimonianza di un autentico, fottuto genio della letteratura americana.
 

“ Quando nel mondo appare un vero genio, lo si riconosce dal fatto che tutti gli idioti fanno banda contro di lui”.


lunedì 17 novembre 2014



The Dark Valley

 


Adattando un romanzo scritto da Thomas Willman, il regista Andreas Prochaska ha cercato di unire nel suo nuovo film The Dark Valley più elementi e tematiche, riuscendo a confezionare un'opera originale dall'aspetto visivo affascinante.


Fine del diciannovesimo secolo. In un tranquillo villaggio adagiato ai piedi delle Alpi fa il suo arrivo uno straniero di nome Greider (Sam Riley). Per sfuggire al freddo inverno, l'uomo chiede alla gente del luogo un posto dove pernottare. E dal momento che può offrire solo alcune monete d'oro, lo indirizzano dalla vedova Gader e dalla figlia Luzi, che è in procinto di sposarsi. Dopo una lunga nevicata notturna, uno dei figli del capo del villaggio viene trovato morto. Sorgono dei dubbi sul fatto che si tratti di un incidente ad essere sospettato è subito Greider. Tuttavia, si comincia a credere anche che dietro l'incidente possa esserci un vecchio e oscuro segreto.

Trasformando i brulli e desertici canyon della tradizione con le innevate vette delle alpi al confine tra Austria e Alto Adige, il regista riesce a costruire bene l'atmosfera claustrofobica ed emotivamente opprimente che anima la cittadina al centro degli eventi, e l'espediente dello straniero arrivato da lontano che spezza l'equilibrio viene sviluppato con cura e attenzione. 
Un lungometraggio dall'atmosfera tesa e una suggestiva fotografia che enfatizza la bellezza dei luoghi.


mercoledì 12 novembre 2014



 Townes Van Zandt


L'impronta lasciata da Townes Van Zandt sul terreno del songwriting, texano in particolare e nord americano in generale, è davvero importante. Van Zandt incarna un archetipo di folksinger dove radici country e blues s'innestano nella figura del 'loner'. Legato a Lightnin' Hopkins, innamorato del talkin' blues, narra le sue storie fatte di immagini quotidiane, con una strumentazione essenziale, arrangiamenti lievi, a volte asciutti, scarni,  ma i risvolti emotivi e lirici della sua musica e della sua poetica, pure attraverso elementi così rigorosi, colpiscono profondamente.

   
Townes Van Zandt nasce a Fort Worth, Texas, nel 1944. Il padre, uomo d'affari nel settore degli oli lubrificanti, gira l'America per lavoro e la famiglia lo segue: Colorado, Montana, Minnesota, Illinois prima di tornare in Texas. Van Zandt si divide fra Houston e Austin.
Le prime apparizioni in pubblico risalgono alla metà degli anni '60, i clubs si chiamano Sand Mountain, Jester Lounge e Old Quarter dove spesso suona insieme al suo amico Guy Clark. La scrittura folk, influenzata da Hank Williams, Lefty Frizzell (la più bella voce della storia della musica country) e dal bluesman texano Lightnin' Hopkins (del quale conserverà parecchi classici in repertorio) rispecchia il suo carattere schivo e riservato ma lascia spazio anche a visioni solari e positive. Dal 1968 -anno di pubblicazione di For The Sake Of The Song-  al 1973  registra sei dischi, tutti per la Poppy Records. Sarà l'unico periodo in cui inciderà regolarmente album di studio, certamente il  più importante dal punto di vista musicale insieme al biennio 1977/1978. Il suo talento si è orientato definitivamente verso una poetica malinconica e disillusa tratteggiata delicatamente su un tessuto sonoro che tinge di blues il country texano, talvolta arricchito da atmosfere 'border' (esemplificate ad esempio in Poncho & Lefty) e da sobri arrangiamenti che attribuiscono alla sua musica un lirismo ed un pathos indiscutibili. Illuminanti in questo senso High, Low And Between (1972) e The Late Great Townes Van Zandt (1973).


Townes Van Zandt è ormai considerato in Texas come il punto di riferimento di quella corrente  di cantautori che comprende fra gli altri i vecchi amici Guy Clark e Jerry Jeff Walker, Willis Alan Ramsey e Ray Willie Hubbard. Abita in mezzo ai boschi in una casa di legno da lui stesso ristrutturata ma la sua esistenza è segnata da continue crisi depressive che lo portano a tentativi di suicidio, dall'alcolismo e dall'uso di droghe. Nel 1976 Emmylou Harris include Poncho & Lefty nell'album Luxury  Liner (la stessa canzone nel 1983 sarà n. 1 delle classifiche country nell'interpretazione di Willie Nelson e Merle Haggard) ed il  nome di Van Zandt inizia a girare con una certa insistenza anche fuori dai confini degli States senza tuttavia mai conoscere il successo commerciale.
Tre anni di inattività prima di tornare al lavoro per merito di John M. Lomax III, suo manager dal giugno del 1976, che gli restituisce fiducia e stimoli. Townes Van Zandt si sposta a Nashville, firma per la Tomato Music Company, etichetta indipendente di NewYork,  e nel luglio del 1977 realizza Live At The Old Quarter, Houston, Texas doppio album completamente acustico registrato nell'estate del 1973. Il disco è  la summa delle sue esperienze artistiche che lo consacrerà definitivamente come uno dei più grandi e rispettati folksinger della sua generazione. Sogni, visioni, dolci ballate, talking blues si alternano legati da un sottile sense of  humor in un coinvolgente dialogo con il pubblico.


L'anno successivo Van Zandt rientra in sala per registrare il suo più bel disco di studio Flyin' Shoes. L'album, inciso a Nashville, è splendidamente prodotto da Chips Moman. L'ineccepibile lavoro degli strumentisti, scelti personalmente da Van Zandt, gli arrangiamenti delicati e fluidi, la voce evocativa e ispirata regalano un suono carico di dolcezza e sensibilità che si distende in canzoni indimenticabili.
Durante gli anni '90 la sua discografia si arricchirà soprattutto di album live (non tutti imperdibili) segno inequivocabile del sopravvento dei demoni che lo hanno continuamente perseguitato, sulla sua vita interiore. Del resto gli spettacoli dal vivo saranno in questi tempi la sua principale fonte di sostentamento economico.
Van Zandt muore tragicamente d'infarto il primo giorno del 1997 nella sua casa di Mt. Juliet nel Tennessee (per uno strano caso lo stesso giorno, nel 1953, era scomparso uno dei suoi idoli, Hank Williams).
Un suo degno discepolo può cessere considerato Steve Earle che a proposito di Townes si è espresso in questi termini:"Townes Van Zandt is the best songwriter in the whole world and I'll stand on Bob Dylan's coffee table in my cowboy boots and say that".



lunedì 10 novembre 2014

mercoledì 29 ottobre 2014




Cabbagetown e gli Smoke



Al 198 di Carroll Street l'insegna è ancora quella che il padre di Leon attaccò nel 1929, quando aprì The Little Store. La porta è aperta. È ora di pranzo e gli sgabelli in alluminio e cuoio rosso di fronte al bancone di legno sono quasi tutti occupati. Leon sta alla cassa e prende le ordinazioni. Sua sorella Betty si occupa della cucina. Il menu è da sempre lo stesso: hamburger (il migliore della Georgia, dicono i clienti), hot dog, uova strapazzate con bacon e caffè. Sugli scaffali vecchi barattoli di biscotti e insegne rese illeggibili dal tempo, vicino ai fornelli un vecchio frigorifero rosso della Coca-cola. Entra Kenneth, garzone del locale da quando aveva 14 anni (quarant'anni fa), poi arrivano Lewis il postino, Mike, l'uomo che fornisce le bibite, e Joyce la cantante. Il locale ha un odore di Vecchia America Anni '50. Siamo ai margini del centro di Atlanta, a Cabbagetown. Fino a due anni fa questo quartiere, di poco più di duemila abitanti, fatto di villette di legno immerse nel verde, era un'isola di povertà e violenza nel cuore di una delle città più ricche del Sud degli Stati Uniti. Oggi sta diventando un simbolo dell'America piena di cambiamenti, di un'America che, stanca della cultura dell'automobile, si è messa alla ricerca di vecchi quartieri e città per camminare, in cui poter riscoprire antichi valori. 


Tutte le storie di Cabbagetown iniziano intorno a un enorme edificio di mattoni rossi, il Fulton Bag and Cotton Mill. Le sue ciminiere, che da più di un secolo vegliano sugli abitanti del quartiere, hanno rappresentato, un tempo, speranze e vita per migliaia di lavoratori. "Oggi rimangono comunque il simbolo di Cabbagetown", dice un vecchio reverendo nato e cresciuto ai margini di Atlanta. L'atmosfera, all'interno del Little Store, che si trova proprio di fronte all'entrata del Fulton Bag and Cotton Mill, cuore pulsante del passaggio tra vecchia e nuova Cabbagetown, è molto tranquilla. La gente chiacchiera, commenta le notizie del giorno, e osserva con un pizzico di diffidenza i nuovi abitanti del quartiere, che entrano a comprare il latte o a mangiare un hamburger. Seduto in un angolo c'è Todd, 31 anni, proprietario, insieme a due ragazze, di Eureka, un ristorante dal menù esotico che ha appena aperto a pochi metri dal Little Store. "È stato un ottimo investimento", dice. Todd è uno dei nuovi abitanti di Cabbagetown, uno dei tanti che, negli ultimi due anni, ha deciso di trasferirsi qui, perché "il resto della città non ha carattere e questo diventerà un quartiere alla moda". Nessuno sa spiegare con precisione il nome Cabbagetown. Una leggenda dice che tanto tempo fa un camion che trasportava cavoli si rovesciò di fronte al Mill, e così per mesi dai camini delle case uscì odore di cavoli bolliti. In realtà è una lunga storia, che inizia alla fine dell'Ottocento, quando un industriale ebreo decide di aprire in Georgia quella che diventerà la più grande fabbrica del paese. Per trovare lavoratori a basso costo va sulle vicine montagne Appalachie, e trasferisce un'intera comunità di indiani a produrre sacchi di iuta e stracci di cotone tra i mattoni rossi. Il villaggio cresce, la produzione aumenta e i vecchi raccontano che negli Anni '50 Cabbagetown era, nella sua povertà, un'isola di benessere. Poi gli affari del Mill iniziano ad andare male, la miseria aumenta e con essa la violenza. Gli abitanti della città hanno paura ad avvicinarsi al quartiere, dove iniziano a prosperare droga e prostituzione. Quando, nel 1977, il Mill chiude, metà della popolazione di Cabbagetown precipita al di sotto della soglia di povertà, e la criminalità raggiunge un livello due volte superiore alla media nazionale. Molte famiglie lasciano le case e si trasferiscono a lavorare a poche miglia di distanza. Oggi il Fulton Bag and Cotton Mill è rinato, e così Cabbagetown. Le storiche sale di tessitura e cucitura sono state trasformate in eleganti loft, i vecchi negozi in ristoranti per i nuovi abitanti. Il crimine è quasi scomparso, la prostituzione e i trafficanti di droga hanno cambiato zona. Al loro posto è arrivato un esercito di artisti, giovani famiglie e imprenditori, alla ricerca di uno spirito e di una morale antichi, stanchi di viaggiare sulle loro Jeep Cherokee in anonime città-mall, quelle che Tom Wolf nel suo ultimo libro, A man in the Full (che, guarda caso, è ambientato proprio nei sobborghi di Atlanta), descrive così: "L'unico modo in cui ti potevi accorgere di aver attraversato una comunità e di essere in procinto di entrare in un'altra era quando i cartelli dei franchising iniziavano a ripetersi, e allora vedevi un altro 7-Eleven, un altro Wendy e un altro Home Depot". "Quando mi trasferii qui, due anni fa", racconta Lynn Splinter, una pioniera della nuova migrazione, "nella casa accanto alla mia abitava una coppia che allevava galline, e ogni mattina trovavo davanti alla mia porta di casa un cesto di uova fresche. Qui è sopravvissuto un senso di comunità, dove tutti si prendono cura di tutti".
 
 



 La vecchia signora delle uova oggi non abita più lì, e a Cabbagetown si è trasferita la figlia di Lynn, che viene a piedi a portare il pranzo alla madre. L'arrivo dei nuovi abitanti, più ricchi e più esigenti dei "nativi", ha fatto salire i prezzi delle case e il costo della vita. Molti dei vecchi inquilini sono stati costretti a lasciare il quartiere, diventato troppo caro, altri non sono riusciti a resistere alle offerte allettanti, e hanno venduto le loro case. Così le strade, fino a ieri invase da bambini selvaggi che scorazzavano sui go-kart o da maliziose ragazzine che giocavano a far le prostitute, oggi sono occupate da coppie che spingono passeggini e giovani che portano a spasso il cane. I vecchi dicono che i nuovi inquilini di Cabbagetown hanno buoni propositi "non sono come gli speculatori edilizi che negli Anni '80 hanno tentato di scacciarci". In fondo sono yuppies anche loro, ma dopo aver inseguito per anni il sogno del successo, ora cercano la Vecchia America fatta di giardini, portici in legno e torte di mele, che quest'anno ha deciso di votare solo per protesta; contro la costruzione di nuove città artificiali, o per difendere gli spazi verdi e i quartieri a misura d'uomo. Per sopravvivere a Cabbagetown è necessario rispettare le leggi dell'antica comunità venuta dalle montagne. Con queste intenzioni John Dirga è arrivato qui due anni e mezzo fa, a soli 23 anni, per aprire un centro per bambini. Il Cabbagetown Children Center: organizza corsi di pittura, musica, danza. I bambini possono creare opere che poi vengono messe in vendita. "Il mio scopo", spiega John, "è convincerli che si può restare per la strada senza essere delinquenti. All'inizio mi guardavano con sospetto, poi hanno capito che ero qui per diventare parte della loro comunità, e mi hanno accettato. Permettendo ai loro figli di frequentare il centro".


 Alle porte di Cabbagetown vive Benjamin, leader della band underground Smoke. Insieme a lui, camminando per le strade di questa microcomunità, si scopre la città degli Anni '80, segnata dalla droga, dalla violenza, dalla prostituzione. "Stanno uccidendo la bellezza di questo quartiere, che nasceva dalla sua fragilità e disperazione". Benjamin è arrivato qui alla metà degli Anni '80, quando, vestito da "drag queen", cantava per un gruppo chiamato Opal Oval Foxx Quartet. "Sono venuto a vivere qui con uno dei miei musicisti, in quella casa di fianco al Cotton Mill". Da allora la comunità di quelli che lui chiama i "cabbage edges" diventò come una grande famiglia, "in cui bisognava far finta di non vedere quello che succedeva. E loro facevano finta di non vedere che tu eri distrutto dall'alcool e dalla droga. Se non ci fosse stato però il calore di questa gente, gli Smoke, non sarebbero mai nati e io sarei già morto". La madre di Greg, "l'uomo silenzioso e scorbutico che ama costruire go-kart per I bambini", lo riconosce e lo saluta. Benjamin è felice come un bambino in un negozio di giocattoli. Fuori dalla squallida stanza in cui è costretto a vivere per potersi curare l'Aids, si aggira per le strade di Cabbagetown alla ricerca di volti conosciuti, di odori familiari: ma del vecchio mondo disperato e violento, "fragile e vulnerabile come me", che gli ha ispirato canzoni come Another Reason to Fast e gli ha dato la forza di salire sul palco insieme a Patty Smith, è rimasto poco. Greg ha smesso di costruire go-kart perché lo spazio in cui correvano i bambini è occupato dal parcheggio del ristorante Eureka, e nessuno dei nuovi abitanti ha mai sentito parlare degli Smoke.


 Non resta che andare a sedersi tra le tombe del cimitero di Oakland (dove sono sepolti Margaret Mitchell e Jacob Elsas, il fondatore del Mill) da dove si può osservare Cabbagetown con le sue ciminiere di mattoni rossi e le sue case di legno. E far finta che il tempo non sia mai trascorso.