giovedì 28 dicembre 2017

La ruota delle meraviglie







Woody Allen torna sul grande schermo, riversandovi un “concentrato” di fragili speranze e nuovi sogni quasi irrealizzabili; quattro personaggi si intrecciano nel frenetico mondo del parco divertimenti. Ginny (Kate Winslet), ex attrice malinconica ed emotivamente instabile, che lavora come cameriera; Humpty (Jim Belushi), il rozzo marito di Ginny, semplice manovratore di giostre; Mickey (Justin Timberlake), un bagnino di bell’aspetto con l’imprevedibile sogno di diventare scrittore, e infine Carolina (Juno Temple), la figlia che Humpty non ha visto per molto tempo e che ora è costretta a nascondersi nell’appartamento del padre per sfuggire ad alcuni gangster. Allen con La ruota delle meraviglie racconta una passionale storia di tradimenti, di prese di coscienza, con sullo sfondo, la pittoresca Coney Island anni ’50.

Woody Allen accantona la sua più che riconoscibile verve comica per raccontare un profondo dramma che coinvolge lo spettatore. Il film è un “vortice” emozionale che seduce e appaga, che sciorina passione, tradimento ma, soprattutto, riflessione coscienziale di quella che è la mera esistenza di un singolo.
L’inibizione della risata e l’accentuazione del dramma sono gli elementi pregnanti del film; l’estensione delle frustrazioni lo caratterizza dall’inizio alla fine, presentando il tutto in una maniera drasticamente asciutta. 


La Ruota delle meraviglie è una metafora chiara e concisa, un particolareggiato “messaggio” dello stesso regista, che vuole esorcizzare l’ineluttabile epilogo per ognuno di noi. Nonostante le risate del passato, il destino di tutti è quello di fare i conti con i propri fallimenti e con i propri disincanti.
Una convinzione rude ma giusta calata in un lavoro decisamente valido di un crepuscolare Allen.







martedì 19 dicembre 2017

The Squirrel Machine





"È un tentativo di raccontare la condizione umana dal mio punto di vista. Sono cosciente che probabilmente non sia una visione che la maggior parte delle persone condivida ma penso che sia un libro che parla di empatia verso i tipi strani e disadattati come il sottoscritto, persone che vivono ai margini della società."


The Squirrel Machine, è una graphic novel pubblicata negli Stati Uniti nel 2008 da Fantagraphics Books. L’autore Hans Rickheit è un fumettista americano del Massachusetts e questa è la prima volta che viene pubblicato in Italia.

 


La trama è ambientata in un paesino del New England e narra le vicende di due piccoli fratelli, William e Edmund Torpor. I due sono macabri e creativi costruttori di spaventose e raccapriccianti macchine composte da carne e materiali solidi.

Il risultato raggiunto dalla creatività dell’autore è qualcosa di unico. In The Squirrel Machine c’è un grosso richiamo alle opere di David Cronenberg, che hanno spesso come tema narrativo la trasformazione. Questo processo artistico dona al fumetto la capacità illusoria di far credere che tutto possa succedere, pagina dopo pagina il lettore verrà stupito e ammaliato.

 


The Squirrel Machine è un incubo, una visione ultra-logica del processo artistico che trasforma il concetto in materia. Rickheit è un giostraio e decide lui quando finisce la corsa. Nelle pagine del fumetto tutto è concesso, il lettore viene denudato e privato dei preconcetti e dalle convinzioni personali, l’autore è il giocoliere di questa serata e non potrete staccare gli occhi dalle sue attrazioni per quanto possano essere sbagliate.

  
"L’arte è pericolosa. O dovrebbe esserlo. Il suo scopo non è quello di tranquillizzare.
Quando ero più giovane con degli amici mi intrufolavo in palazzi abbandonati. Non per rubare ma per dare un’occhiata. In realtà quei palazzi non erano così interessanti e nei miei fumetti metto le cose che mi sarebbe piaciuto trovare all’epoca. C’è sempre del pericolo quando si va in un posto da intrusi."


giovedì 7 dicembre 2017

Suburbicon (2017)





L'America a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta è sempre stata una delle ambientazioni predilette dei film diretti e/o scritti da Ethan e Joel Coen: l'America del benessere, dei manifesti pubblicitari, delle villette immacolate dei quartieri residenziali; un'America ancora refrattaria ai mutamenti sociali del periodo immediatamente successivo, e talmente ossessionata dalla propria, inviolabile idea di perfezione da essere disposta a tutto pur di preservarla da ogni potenziale fonte di 'disturbo'.

Con Suburbicon è invece George Clooney, di nuovo in veste di regista, a riprendere in mano un vecchio copione dei due fratelli del Minnesota, risalente addirittura all'epoca di Blood Simple - Sangue facile e perfettamente in linea con la poetica coeniana e con i suoi elementi distintivi.
La fittizia cittadina di Suburbicon  presentata in apertura come un microcosmo idilliaco è il teatro a tinte pastello dell'American Dream. Ma dietro la patinata superficie di questa "pastorale americana" fanno capolino fin da subito ipocrisie e storture; e a farle emergere, manco a dirlo, è l'arrivo di una nuova famiglia, i Meyers, afroamericani, nella villetta accanto a quella dei Lodge, nel cuore di un 'paradiso' fino ad allora totalmente bianco e ferocemente desideroso di restare tale.

Da qui in poi, dopo uno spiazzante incipit drammatico, prosegue fra costanti colpi di scena, repentini rovesciamenti delle sorti dei personaggi e arditi cambiamenti di registro: dal thriller alla satira di costume, dal noir al grottesco, secondo l'inconfondibile tradizione dei fratelli Coen. E uno degli aspetti più intriganti di Suburbicon, tra i suoi maggiori motivi di fascino, risiede proprio in questa natura ibrida e multiforme: Clooney e i Coen giocano infatti con alcuni archetipi del noir classico, a partire dalla doppia figura femminile incarnata dalla Moore, strizzano l'occhio a La fiamma del peccato di Billy Wilder e affidano ad Oscar Isaac il breve ma incisivo ruolo dell'astuto detective Roger, ennesima pedina in un complesso gioco fra il gatto e il topo destinato - ovviamente - a una deriva fuori controllo. 


Matt Damon, nei panni di un padre e marito che pare più volte in balia delle circostanze, presta il volto a un altro, tipico everyman del cinema dei Coen: un individuo destinato a rivelarsi un inetto fra gli inetti, ovvero la sorte implacabile iscritta nel codice genetico di innumerevoli antieroi coeniani. Perché, a dispetto di tutti i nostri sforzi, è il caos, o peggio ancora un caso beffardo e inesorabile, a disintegrare con diabolica puntualità i progetti degli esseri umani.
Il film di Clooney disegna un affresco al vetriolo sia della società americana nel complesso, sia della sua "colonna portante": quell'istituzione familiare che in Suburbicon viene sottoposta alla più atroce delle dissacrazioni. Con sequenze che evocano sinistri rimandi all'America del presente (le manifestazioni dei suprematisti bianchi e i rigurgiti neonazisti), ma con un epilogo da cui, nell'apoteosi di sangue e di violenza, sembra filtrare pure un flebile raggio di speranza. 



lunedì 27 novembre 2017

The Pogues - Rum, Sodomy And The Lash





I Pogues nascono all'inizio degli anni '80 (come Pogue Ma Hone che in lingua gaelica suona più o meno come "baciami il culo" e che sarà accorciato quando i nostri firmeranno con la Stiff) su iniziativa di Shane MacGowan, personaggio scorbutico, ribelle, che dopo diverse esperienze in band punk nei Seventies, decide di mettere su un gruppo in grado di suonare quantomeno nei pub.

Dopo un periodo di rodaggio nei sobborghi di Londra e in veste di busker per le strade del Regno Unito, il gruppo (Jem Finer al banjo e Spider Stacey al tin whistle, cui poi si aggiungeranno il batterista Andrew Ranken e il polistrumentista James Fearnley), confortati dalla risposta del pubblico alla propria ricetta che mostra country, rockabilly, tradizione e folk, decidono di ritentare la strada del professionismo musicale, reclutando la bassista Cait O' Riordan. 

"Rum, Sodomy And The Lash" è il loro secondo disco, quello della maturità artistica. Dopo aver dimostrato con il primo "Red Roses For Me" (1984) di essere in grado di manipolare la materia folk ben al di là della rivitalizzazione dei classici infondendogli con l'attitudine punk che li guida nuova linfa vitale, con questo secondo lavoro i Pogues trovano con il proprio suono, abile mix di strumentazione acustica e ritmi forsennati e alcolici (pilotato da un Elvis Costello in stato di grazia) e con la penna di MacGowan la ricetta per la definitiva consacrazione tra i grandi della folk music dando voce a quella massa di "beautiful losers".

"Sally MacLennane", "A Pair Of Brown Eyes" riaggiornano quell'epica quotidiana di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, se non altro per esorcizzare i nostri demoni, ma meglio per celebrare la nostra sfida quotidiana con la vita (proprio come con i biglietti d'auguri natalizi delle puttane di Minneapolis del signor Waits), che la dimensione elettrica ed elettronica del sound wave allora imperante aveva di fatto oscurato. 
Se agli originali scritti da MacGowan aggiungete una serie di traditional o cover perfettamente in tema quali "Dirty Old Town" di Ewan McColl (da alcuni giudicata una delle più belle folk song della seconda metà del secolo scorso) o la "Waltzing Mathilda" di Eric Bogle riproposta in una versione meravigliosa con un'interpretazione di MacGowan superba che sa far rivivere tutta la desolazione e l'angoscia di quei ragazzi australiani mandati al massacro durante la prima guerra mondiale, aggiungete la gioia danzereccia degli strumentali che punteggiano il disco ("Wild Cats Of Kilkenny") o "A Pistol For Paddy Garcia", che dimostra come i nostri sappiano metabolizzare anche elementi "spuri" come il country o il folk americano nella loro ricetta, otterrete un disco quasi perfetto nel suo tenersi in equilibrio tra passato e presente, nel suo tener ben salde le radici della propria storia e nel saper spiegare le proprie ali al di sopra delle contingenze stilistiche per arrivare a essere un classico.