giovedì 25 gennaio 2018

Tre manifesti a Ebbing, Missouri




Tre manifesti a Ebbing, Missouri è la miglior commedia nera da molti anni a questa parte. Ed è anche il miglior dramma. Com’è possibile? Chiedetelo a quello scatenato di Martin McDonagh (In Bruges, Sette psicopatici) che riesce a ipnotizzarci usando semplicemente quegli elementi che poi sono alla base del cinema: emozioni forti, personaggi complessi, sceneggiatura audace e cast da Oscar.

Se Frances McDormand non ne porta a casa un secondo, dopo quello conquistato nel 1997 per Fargo, l’Academy è da denuncia: è ora di fare una statua a questa donna. O almeno di darle un’altra statuetta, perché è assurdamente brava e non se l’è mai tirata: «Quando morirò, sulla mia tomba ci sarà scritto “Qui giace Marge” (il suo personaggio nel film dei Coen, ndr) e va bene così perché è un personaggio meraviglioso, ma posso dirvi che Mildred è una Marge cresciuta».

Mildred Hayes è la protagonista di Tre manifesti, una madre ferita e incavolata che decide di affiggere i cartelloni del titolo per richiamare l’autorità locale alle sue responsabilità: a sette mesi dallo stupro e dall’uccisione della figlia adolescente, infatti, non c’è traccia di un colpevole né di un sospettato. Nel film l’attrice è dolente ma incontenibile.

Nella piccola cittadina di Ebbing la legge porta il nome di Chief Bill Willoughby e del suo vice Jason Dixon, interpretati da altri due fuoriclasse: senza nulla togliere allo sceriffo di Woody Harrelson, autore di una serie di lettere che nel loro mix di comico e tragico riassumono alla perfezione lo spirito della pellicola, l’altro a meritarsi l’Oscar è Sam Rockwell, uno per cui McDonagh ha già scritto ruoli divertentissimi nei suoi film precedenti, ma che non ci ha mai regalato una performance tanto ricca di sfumature come questa. Non riuscirete a odiare il suo poliziotto cocco di mamma, violento e razzista, che però scongiura l’effetto caricatura: rude e spudorato sì, ma anche molto empatico.

I personaggi sono tutti straordinari perché lontani dai cliché, dal dualismo buoni e cattivi, unicamente e dolorosamente umani.
Questa è un’opera arrabbiata, non rabbiosa, un western contemporaneo politicamente ed eticamente scorrettissimo. Non a caso Frances fa camminare la sua protagonista come fosse John Wayne.
 
 
 
 

mercoledì 24 gennaio 2018

Colter Wall - Kate Mccannon


I sabotatori - Edward Abbey




Sembra vederlo, Edward Abbey mentre scrive a proposito dei suoi Sabotatori che “dovrebbero averlo tutti, un hobby”. Un piccolo ghigno, visto che il passatempo in questione comprende dighe fatte saltare per aria, bulldozer resi inutili, ponti disintegrati e altre amenità più o meno esplosive. L'argomento non è sicuramente una novità per chi ha una certa frequentazione con quegli scrittori vicini all'immaginario rock'n'roll. Già l'imperdibile Jim Harrison in Un buon giorno per morire, aveva colto quelle tensioni, un po' più in là del normale ecologismo, che le grandi dighe, l'industria dell'energia e, più in generale, lo sfruttamento delle risorse terrestre hanno sviluppato. Certo, I sabotatori sono molto più organizzata dello sghembo e paranoico triangolo di Jim Harrison, ma l'obiettivo e l'orizzonte sono gli stessi: sbatterci contro è un sogno, che porta subito a diventare dei fuorilegge, pur con la certezza di essere nel giusto. 

E' la scelta della Monkey Wrench Gang di Edward Abbey: se come scriveva Jean Baudrillard nel necessario America “la cultura americana è l'erede dei deserti” è anche logico che qualcuno si premuri di conservarla, di tutelarla, senza badare tanto ai mezzi e al tipo di soluzioni. Così per quanto la squadra dei Sabotatori sia composita e sempre a rischio di combustione interna (una donna e tre uomini), tutti sanno che il gioco funziona meglio, insieme. “Lavoro di squadra, è questo che ha fatto grande l'America: lavoro di squadra e iniziativa, sono queste le cose che hanno permesso all'America di essere quello che è oggi” scrive Edward Abbey con una congrua dose di ironia, visto che il work in progress dei Sabotatori è diametralmente opposto all'american dream delle grandi corporazioni e della cosiddetta maggioranza silenziosa.

 Pur arrivando da punti di partenza lontani e diversi si ritrovano concordi nel giudicare lo scempio di dighe, miniere e cantieri assortiti. Passare all'azione è questione di un attimo appena, giusto il tempo di cogliere il senso della follia al volo.
La gang parte a testa bassa: all'inizio i loro danni sono poco più che vandalismi e il lavoro comincia come se fosse una versione un po' meno legale di landscape art. Protagonista assoluto, il paesaggio ha una funzione prioritaria nell'ambito di tutto il romanzo: fiumi e gole, pareti di arenaria, formazioni geologiche di milioni e milioni d'anni, il cielo aperto a tutte le stelle dell'universo, strade e sentieri che s'inerpicano tra roccia e deserto.


 “Le stelle guardavano giù. Premonizioni preliminari della luna vecchia avevano già cominciato a modificare le propaggini orientali. Non c'era vento, né alcun suono, ma il vasto respiro, assottigliato in un sussurro dalla distanza, della foresta sontuosa, di salvia, ginepri e pini che si stendevano per centinaia di chilometri lungo il tavolato quasi arido. il mondo esitava, era in attesa di qualcosa. Quando la luna sarebbe entrata nella fase crescente”: è lo stesso scenario dei romanzi di Cormac McCarthy o, anche a costo di ripetersi, di Leggende del deserto americano di Alex Shoumatoff.
La vera differenza non sta nell'uso della dinamite o del tritolo.
Quello che fa più paura è la loro capacità di sognare e di sognarsi liberi.