Sembra vederlo, Edward
Abbey mentre scrive a proposito dei suoi Sabotatori che “dovrebbero averlo tutti, un hobby”. Un piccolo
ghigno, visto che il passatempo in questione comprende dighe fatte saltare per
aria, bulldozer resi inutili, ponti disintegrati e altre amenità più o meno
esplosive. L'argomento non è sicuramente una novità per chi ha una certa
frequentazione con quegli scrittori vicini all'immaginario rock'n'roll. Già
l'imperdibile Jim Harrison in Un buon
giorno per morire, aveva colto quelle tensioni, un po' più in là del
normale ecologismo, che le grandi dighe, l'industria dell'energia e, più in
generale, lo sfruttamento delle risorse terrestre hanno sviluppato. Certo, I
sabotatori sono molto più organizzata dello sghembo e paranoico triangolo di Jim Harrison, ma l'obiettivo e
l'orizzonte sono gli stessi: sbatterci contro è un sogno, che porta subito a
diventare dei fuorilegge, pur con la certezza di essere nel giusto.
E' la scelta della Monkey
Wrench Gang di Edward Abbey:
se come scriveva Jean Baudrillard nel
necessario America “la cultura
americana è l'erede dei deserti” è anche logico che qualcuno si premuri di
conservarla, di tutelarla, senza badare tanto ai mezzi e al tipo di soluzioni.
Così per quanto la squadra dei Sabotatori sia composita e sempre a rischio di
combustione interna (una donna e tre uomini), tutti sanno che il gioco funziona
meglio, insieme. “Lavoro di squadra, è questo che ha fatto grande l'America:
lavoro di squadra e iniziativa, sono queste le cose che hanno permesso
all'America di essere quello che è oggi” scrive Edward Abbey con una congrua dose di ironia, visto che il work in
progress dei Sabotatori è
diametralmente opposto all'american dream delle grandi corporazioni e della
cosiddetta maggioranza silenziosa.
Pur arrivando da punti
di partenza lontani e diversi si ritrovano concordi nel giudicare lo scempio di
dighe, miniere e cantieri assortiti. Passare all'azione è questione di un
attimo appena, giusto il tempo di cogliere il senso della follia al volo.
La gang parte a testa bassa: all'inizio i loro danni sono poco più che vandalismi
e il lavoro comincia come se fosse una versione un po' meno legale di landscape
art. Protagonista assoluto, il paesaggio ha una funzione prioritaria
nell'ambito di tutto il romanzo: fiumi e gole, pareti di arenaria, formazioni
geologiche di milioni e milioni d'anni, il cielo aperto a tutte le stelle
dell'universo, strade e sentieri che s'inerpicano tra roccia e deserto.
“Le stelle
guardavano giù. Premonizioni preliminari della luna vecchia avevano già
cominciato a modificare le propaggini orientali. Non c'era vento, né alcun
suono, ma il vasto respiro, assottigliato in un sussurro dalla distanza, della
foresta sontuosa, di salvia, ginepri e pini che si stendevano per centinaia di
chilometri lungo il tavolato quasi arido. il mondo esitava, era in attesa di
qualcosa. Quando la luna sarebbe entrata nella fase crescente”: è lo stesso
scenario dei romanzi di Cormac McCarthy o, anche a costo di ripetersi, di Leggende
del deserto americano di Alex Shoumatoff.
La
vera differenza non sta nell'uso della dinamite o del tritolo.
Quello
che fa più paura è la loro capacità di sognare e di sognarsi liberi.
Nessun commento:
Posta un commento