sabato 30 marzo 2013



Johnny Cash - At Folsom Prison

 


E’ il 13 gennaio del 1968. Al penitenziario di massima sicurezza di Folsom (California) sono tutti un po’ euforici, non è una giornata come un’altra. A pranzo in mensa parlottano e sorridono un po’ tutti. Anche se è difficile paragonare quel buco dimenticato da dio a qualcosa di umano. I secondini stanno distesi, tranquilli. Si aspetta la sera. 
Si aspetta l’arrivo di un amico, di un fratello.
Arriva il buio e stanno tutti nel salone principale. Aspettano Johnny Cash.
Quello che è cresciuto nei campi di cotone come un nero, ma che fa country come un bianco e dice di avere nelle vene sangue indiano. Quello che parla di storie dannate e dell’America di tutti i giorni: quella dei poveri cristi.
Entra e  si presenta: “Hello, I’m Johnny Cash”.
 Il salone con circa 2000 persone esplode e subito inizia la loro canzone, scritta per loro e dedicata a loro: “At Folsom prison”.
Le canzoni in scaletta non sono pezzi forti di Cash, non ci sono "Walk The Line", "Hey Porter" o "Ring Of Fire". Porge ballate di solitudine ("I Still Miss Someone") e di morte ("The Long Black Veil"), storie di tentativi suicidi di evasione ("The Wall"), toccanti testamenti amorosi ("Give My Love To Rose") e struggenti lettere dal carcere ("Send a Picture Of Mother").
Ma Johnny non vuole solo toccare il cuore dei detenuti con la malinconia, smorza i toni e diverte.
Scherza sulla miseria beffarda nel valzer di "Busted", sbeffeggia il patibolo in "25 Minutes To Go", esibisce un esilarante cinismo in "Joe Bean" e strappa risate in quantità industriale con "Dirty Old Egg-Sucking Dog", storia di uno scalcinato bastardino mangia-galline, e "Flushed From The Bathroom Of Your Heart".L'adrenalinica "Cocaine Blues", il country semplicemente perfetto di "Orange Blossom Special" e "Jackson".
E’ un tripudio: c'è chi piange, chi ride, chi ascolta e forse dimentica per una sera.
Qualcuno in quel buco timorato da dio non avrà regalo più bello.
La canzone di chiusura (Greystone Chapel) l’ha scritta per lui uno dei detenuti di Folsom, il suo amico Glen Sherley. Johnny è un po’ emozionato: non ha mai cantato o provato quel pezzo fino alla sera prima del concerto. Il nastro con il demo di Sherley glielo aveva fatto avere il giorno prima il prete del carcere e lui decise di inserirla assolutamente.
Johnny il bandito e il drogato, il religioso e il trasgressore, il romantico e il compassionevole, si trova tutto qui.
Tra le mura della prigione di Folsom.







venerdì 29 marzo 2013




John Fante



“Rimasi fermo per un attimo a leggere, poi mi portai il libro al tavolo con l’aria di uno che ha trovato l’oro nell’immondezzaio cittadino.
Le parole scorrevano con facilità, in un flusso ininterrotto. Ognuna aveva la sua energia ed era seguita da un’altra simile che ti impedivano di smettere; dovevi andare avanti per forza, sapere come andavano a finire le cose raccontate. Ecco finalmente uno scrittore che non aveva paura delle emozioni: ironia e dolore erano intrecciate tra loro con una straordinaria semplicità. Lessi altri suoi romanzi ed erano tutti dello stesso tipo, scritti con le viscere e per le viscere, con il cuore e per il cuore”.( Charles Bukowski)


John Fante nasce a Denver, nel Colorado, l’8 aprile 1909 da un’umile famiglia d’origine italiana.
 Il padre, Nick, un muratore di Torricella Peligna (Abruzzo meridionale), emigra negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento, dove sposa Mary Capolungo, una cattolicissima italoamericana, nata a Chicago, figlia di un sarto lucano. John Fante, primo di quattro figli, trascorre la sua infanzia a Boulder (Colorado).
Negli anni Trenta, poco più che ventenne, John Fante si trasferisce in California, a Wilmington, nei pressi del porto di Los Angeles. Segue per un breve periodo alcuni corsi di scrittura all’Università di Long Beach: vuole diventare scrittore.
A Los Angeles, Fante è costretto ad alternare la sua attività di scrittore a lavori come il  lavapiatti, il fattorino d’albergo, l’operaio nelle fabbriche di scatolame di pesce. 
L’esperienza fatta in questo periodo a Los Angeles, così come i ricordi legati alla sua infanzia trascorsa nel Colorado, alla figura della madre e soprattutto del padre diventano “materia” letteraria da cui Fante attinge per la stesura di buona parte della sua opera.
Dopo la stesura del suo primo romanzo, La strada per Los Angeles, più volte rifiutato dagli editori e uscito postumo, Fante pubblica nel 1938  Aspetta primavera, Bandini considerato dalla critica americana tra i migliori libri dell’anno. Il romanzo è tradotto in Italia da Elio Vittorini.
Nel 1939, viene pubblicato Chiedi alla polvere, il suo capolavoro. L’anno dopo, la casa editrice Viking di New York dà alla stampa la sua prima raccolta di racconti, Dago Red.
Parallelamente a quella di scrittore, Fante esercita in questi anni la professione di sceneggiatore. Ciò gli consente di vivere con una certa agiatezza economica. 
Lavora a Hollywood per più di quarant’anni, scrivendo sceneggiature di film di serie B e collaborando con registi del calibro di Edward Dmytryk e Orson Welles.
Alla fine degli anni Trenta, Fante dopo il rifiuto della pubblicazione di un romanzo sugli emigrati filippini della California (The Little Brown Brothers), amareggiato, rimane circa dieci anni senza più scrivere un solo rigo di narrativa e, con grande frustrazione, si concentra quasi esclusivamente sul suo lavoro di sceneggiatore, che però non ama particolarmente.
Questi sono gli anni in cui Fante conduce una vita di eccessi, dedita al gioco d’azzardo, al golf e all’alcool. Bisogna aspettare gli anni Cinquanta per un nuovo romanzo.
Full of Life esce nel ’52 e diventa subito un best-seller.
In questi anni Fante ritrova la sua verve creativa e scrive alcuni dei suoi romanzi e racconti più intensi, che però saranno a lungo ignorati dalle case editrici: La confraternita dell’uva, romanzo sulla figura del padre tra i più belli della letteratura mondiale secondo Francesco Durante, è pubblicato solo nel 1977, mentre 1933 Un anno terribile e Il mio cane stupido usciranno postumi.
Fante fu un precursore dello stile disincantato e realista di sfida ai concetti dell’”American Dream” da parte del movimento della Beat Generation.
Ma a differenza degli autori “Beat”, non prese mai posizione di critica ma gli bastò descrivere, attingendo dai propri ricordi d’infanzia e dalle sue stesse esperienze di vita, l’esistenza vera e l’emarginazione sociale degli immigrati (vissuta in prima persona) rispetto ai poteri egemoni dell’America che conosceva.

Sebbene afflitto da un dilagante diabete che lo ha reso cieco e disabile, nel 1979 John Fante decide di scrivere un nuovo romanzo e inizia a dettare alla moglie quello che sarà il suo ultimo romanzo, Sogni di Bunker Hill, pubblicato nel ’82.
John Fante muore l’8 maggio del 1983, qualche mese dopo la ristampa di Aspetta Primavera, Bandini.


Fante era il mio dio e io sapevo che gli déi vanno lasciati in pace, non si andava a bussare alla loro porta. E tuttavia mi piaceva immaginare la casa dove era vissuto, in “Angel’s Flight”, e illudermi che ci abitasse ancora. Ci passavo davanti quasi ogni giorno e mi chiedevo : è questa la finestra da cui è uscita Camilla? E’ quella la porta dell’albergo ? Quella la hall? Non l’ ho mai saputo. Ho riletto “Chiedi alla polvere” quest’anno, trentanove anni dopo la prima volta, e ho dovuto riconoscere che ha resistito al tempo, come tutte le altre opere di Fante”. ( Charles Bukowski)

domenica 24 marzo 2013



Charlie Parr



Charlie Parr arriva da una cittadina che è una sorta di punto cardinale nella storia recente della canzone americana: Duluth, stato del Minnesota. Da lì, qualche decennio or sono sbucò il volto imberbe del neanche ventenne Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan, che si lasciò alle spalle la provincia per mettere le tende nel Greenwich Village di New York diventando, di lì a poco, l’icona folk che sappiamo. Duluth è un vero e proprio certificato di idoneità per chi, come Charlie Parr, mastica la musica delle radici, si coniughi questa sulle scale del blues o negli intricati arpeggi di finger picking. La sua figura rappresenta quella del cantautore di provincia americana che evoca la sua storia di figlio di operai sindacalisti del Midwest, con la passione per la musica delle roots, quella veramente popolare. Abbiamo a che fare con l'old time music americana più intransigente, canzoni come fantasmi che celebrano gli spiriti della Carter Family o di Dock Boggs, insomma di quelle affascinanti, misteriose sonorità che hanno avuto come progenitrice di tutte l'Anthology of American Folk Music di Harry Smith.









giovedì 21 marzo 2013



Fuoco sulla montagna
  
 
“No, la natura selvaggia non è un lusso, ma una necessità dello spirito umano, vitale per le nostre esistenze quanto l’acqua e il buon pane. Una civiltà che distrugge quel poco che rimane di essa, di quello che si è conservato nel tempo, delle cose che erano in origine, si separa volutamente dalle sue radici e tradisce il principio stesso su cui essa si basa”

1960, New Mexico: nel pieno della guerra fredda, il governo degli Stati Uniti d'America requisisce terreni per ampliare le basi missilistiche.
Nel ranch di John Vogelin sopravvive ancora il vecchio West.
Ma le lunghe cavalcate, i cowboys che seguono le tracce degli animali, il sogno di autosufficienza e di un'esistenza in comunicazione diretta con la natura, sono incompatibili con il ventesimo secolo. 
Sul ranch incombe la certezza di un esproprio.
Ma John è nato lì e al di là di quella terra arida e dura per lui c'è solo la minaccia di una vita ormai indecifrabile.
 John Vogelin si prepara alla guerra contro gli Stati Uniti d'America.
 Al suo fianco, si schiera soltanto il nipotino dodicenne Billy ed è attraverso i suoi occhi che seguiamo lo svolgersi di un lungo duello, in cui l'individualismo, si scontra con il patriottismo e la natura con la tecnologia.
 Con scenari  cinematografici degni di Cormac McCarthy Fuoco sulla montagna rappresenta un gran romanzo sul crepuscolo del West e delle sue libertà.
Edward Abbey (1927-1989), è una delle figure mitiche dell’ecologismo americano: autore di saggi e romanzi, con gli anni si è fatto interprete di un radicale anarchismo naturalistico intriso di valori pioneristici. Esordì come scrittore negli anni Sessanta, dopo avere lavorato a lungo come guardia forestale nei parchi nazionali di mezza America. Arrivò al successo con “The Brave Cowboy”, che divenne un meraviglioso film (“Solo sotto le stelle”) interpretato da Kirk Douglas. Nel 1975 con “I sabotatori” (The Monkey Wrench Gang)  fu consacrato eroe della nuova ondata ecologista americana, diventando al contempo autore di primissimo piano nel panorama americano. 



«Un patriota deve sempre essere pronto a difendere il suo paese dal suo governo.»

«Resistere molto, obbedire poco»





martedì 19 marzo 2013



La musica dei monti Appalachi

 



Dopo i nativi americani, i primi ad insediarsi nella zona est degli U.S.A. furono coloni e pionieri emigrati dall’Europa, provenienti prevalentemente dalle Isole Britanniche.

Questi pionieri si stanziarono nell’area dei monti Appalachi meridionali, situati nell’entroterra della costa atlantica, dove diedero vita a piccole comunità rurali che rimasero sostanzialmente isolate ed indipendenti rispetto ai grandi centri industriali ed urbani almeno sino al XIX secolo inoltrato.

La musica dei Monti Appalachi si sviluppò, come già era avvenuto in Europa, principalmente come musica per la danza, essendo usata essenzialmente nelle feste contadine, per festeggiare gli avvenimenti tipici del lavoro della terra come la mietitura e la sgranatura.

La musica era una delle fondamentali risorse espressive e ricreative condivise e disponibili a tutti i componenti della comunità. Ogni individuo era in grado di suonare almeno uno strumento e i vecchi canti costituivano un patrimonio comune. L’espressione musicale era quindi intesa come una attività creativa e ri-creativa sia livello comunitario che individuale.

All'inizio si riproduceva e si rielaboravano antiche ballate e canzoni inglesi – inizialmente eseguite da voce sola e successivamente arricchite dall’accompagnamento di uno o più strumenti – e della musica popolare per violino (fiddle), che erano melodie e danze originarie delle isole britanniche.

Per un lungo periodo questa regione rimase isolata dal resto dell’America progredita ed industrializzata.

Questo isolamento contribuì a preservare fino agli anni ‘20 il patrimonio musicale dei primi pionieri europei tramandando di generazione in generazione, attraverso la tradizione orale, i diversi brani nella loro forma originaria.

Dopo, dalla seconda metà del XIX secolo le tradizioni musicali delle comunità rurali sud-appalachiane cominciarono ad incontrare, rielaborare ed assimilare influenze musicali diverse, provenienti da quell’enorme crogiolo di culture e di razze conosciuto con il termine melting pot. Dopo l’abolizione della schiavitù e la conseguente emancipazione degli neri, il contatto con la cultura musicale afro-americana determinò un processo di osmosi culturale con la musica tradizionale nera, soprattutto nella zona del Piedmont (zona che abbraccia la parte meridionale del West Virginia, la parte occidentale del West Virginia, delle Caroline e il nord della Georgia).

 Il Piedmont blues (o East Coast blues) grazie all'influenza del folklore bianco, si è sempre distinto e caratterizzato per la sua dolcezza e raffinatezza, ben lontano dall'asprezza e dal furore drammatico del Mississippi blues.

Nel Mississippi questo scambio reciproco di culture musicali non fu così forte e marcato (era la tradizione nera che influenzava maggiormente la musica rurale bianca), anche se non mancarono le eccezioni . 

Inoltre ci fu l’assunzione di nuovi strumenti a corda come il banjo e la chitarra, il dulcimer, (derivato dalla cetra europea) l'autoharp (derivata dall'arpa), il mandolino e come percussioni, i cucchiai e la washboard (asse per lavare) che, affiancati al violino popolare, diedero vita alle cosidette string bands, nonché l’introduzione di elementi ritmici, melodici e sonori innovativi.

A seguito delle registrazioni effettuate dalla fine dell'800, dapprima da ricercatori etnico-musicali poi dai primi talent-scout delle case discografiche, questa musica si diffuse nel resto degli Stati Uniti grazie alle radio prendendo il nome di Old Time Music. Nei primi decenni del '900, l’Old Time Music inizio una evoluzione che diede vita a nuovi generi musicali come il Bluegrass negli anni '30, la canzone sindacale negli anni '30 e '40, la Country Music a partire dagli anni '50, fino ad arrivare al Folk Revival, che negli anni '60 mise in luce un giovane autore che da lì inizio la strada che rivoluzionò la musica moderna: Bob Dylan.











domenica 17 marzo 2013



Jack Rose


Jack Rose è stato un chitarrista statunitense scomparso a solo 38 anni per infarto, il 5 dicembre del 2009. Aveva fatto parte della band sperimentale Pelt  per poi incidere come solista album meravigliosi come Red Horse,White Mule(2002), Opium Musick”(2003), “Raag Manifestos”(2004) e l’omonimo “Jack Rose”(2006).
Il suo è un lungo viaggio nelle radici più profonde, nei suoni primitivi dell’America rurale.
Un flusso di coscienza che trova nel fingerpicking un mezzo per esplorare e mischiare blues, country , hillbilly, ragtime e raga indiano.
Nel 2007, in una inter­vista, definì la musica amer­i­cana antecedente alla sec­onda guerra mon­di­ale, unica fonte di ispi­razione dei suoi ultimi lavori.

 “Ebbi modo d’incontrarlo Jack Rose. Uno squallido organizzatore, durante quel tour, l’aveva abbandonato sugli appennini tosco-emiliani a piedi, e con la chitarra sulle spalle. Jack se l’era fatte tutte quelle vallate per suonare la sera stessa. Nonostante le gambe gli duolessero, le mani scivolavano sullo strumento con la stessa sorprendente lentezza di un treno dell’Alabama degli anni trenta visto dagli occhi di un bambino di colore. 
Era inconfondibile quello stile blues pieno di tecnica mai così discretamente nascosta.
Morire a 38 anni improvvisamente è qualcosa a cui non ci si abitua. Lasciare un’eredità nell’olimpo dei chitarristi visionari è un dono che solo pochi illuminati possiedono. 
Il Jack Rose che conobbi si muoveva come un guerriero solitario nella notte, impugnava la chitarra come un’arma segreta.
Sapeva di essere al centro di una trappola: le distese infinite dei campi di grano di John Fahey, e le combinazioni misticheggianti di Robbie Basho.
Jack Rose si trovava nel loro mezzo come in una bufera: li mescolava, utilizzava le ritmiche del primo sulle scale raga del secondo, ma la sua musica si privava del misticismo dei suoi padri spirituali.”
(Salvatore Borrelli)




sabato 16 marzo 2013



                          Suttree - Cormac McCarthy


Suttree è un romanzo di Cormac McCarthy, pubblicato nel 1979.
Ambientato nel 1951 a Knoxville, Tennessee.
Il protagonista vive isolato in una casa galleggiante, in riva al fiume, ai margini della società.
Per mantenersi ha una piccola barca con cui  pesca pesci gatto, che poi rivende al mercato della città. Suttree era sposato, ha un figlio e una moglie che ha abbandonato, rifiutando una vita agiata che gli veniva garantita dalla ricca famiglia borghese da cui proviene.
 Intorno a lui si muovono i personaggi più disparati: nei meandri del fiume troviamo ladri, assassini, derelitti, fattucchiere, puttane, negri e poliziotti dell'America brutale dei primi anni cinquanta.
Un mondo segnato dalla miseria, dal carcere e dalle risse, dall'alcool e dalla violenza.
Suttree mette in scena la solitudine di un uomo che ha passato il confine, per arrivare “in queste lande straniere che i giusti vedono passando dalle auto e dai treni, dove un'altra vita sogna".
Un vagare incessante nei margini di una città, nelle sue miserie e mostruosità che poi sono il cuore stesso dell’umano. 
Macerie, relitti, baracche, acque nere e mortifere ingombre di rifiuti, carcasse d’auto, tracce di petrolio, liquami e preservativi sugli alberi: un fatiscente mondo incantato.
Nel mondo di Suttree “non si è mai al sicuro”, come gli dice il cenciaiolo, l’uomo degli stracci.
Ed è nell’assenza assoluta di sicurezza che sta la piena universalità di questo mondo incantato dei margini: nella vulnerabilità dell’umano esposta al limite.


  “Una memorabile commedia americana” (Nelson Algren)

venerdì 15 marzo 2013



  Dorothea Lange 


"Giù le mani! Non voglio infastidire quello che fotografo..."


E’ stata una fotografa documentaria statunitense.
Nel 1902, a soli 7 anni, fu colpita da una grave forma di poliomielite, che le causò un difetto alla gamba destra. Dorothea reagì con estrema motivazione, studiando fotografia a New York con Clarence White e collaborando con diversi studi, come quello, celebre, di Arnold Genthe.
Nel 1918 si spostò a San Francisco, aprendo un suo studio personale e diventando parte integrante della vita della città. Si sposò il pittore Maynard Dixon ed ebbe due figli. 
Nel frattempo, complice il clima sociale di assoluto interesse documentaristico, andò per le strade a immortalare la misera realtà dei quartieri disagiati, aderendo formalmente al movimento della straight photography.
La sua capillare opera di ricognizione tra disoccupati e senzatetto della California suscitò le immediate attenzioni dell’organismo federale di monitoraggio della crisi destinata, in seguito, a diventare l'FSA (Farm Security Administration).
 Tra il 1935 e il 1939, le venne commissionato un gran numero di reportage, soprattutto sulla condizione degli immigrati, dei braccianti e degli operai.
Uno degli scatti divenuti un’icona della storia della fotografia è Migrant mother. Il soggetto è Florence Owens Thompson, una donna di 32 anni, madre di sette figli, immortalata nei pressi di un campo di piselli in California. 
Nel 1935 ottenuto il divorzio sposa l'economista e docente universitario Paul Schuster Taylor. Taylor divenne l'uomo-chiave della sua attività professionale: ai reportage fotografici della moglie, Taylor contribuì con interviste, raccolte di dati e analisi statistiche. 
Muore nel 1965 a 70 anni, a San Francisco, per le conseguenze della poliomielite.



"Coraggio, coraggio vero. Coraggio innegabile...l'ho incontrato, molte volte, in luoghi inaspettati. E ho imparato a riconoscerlo quando lo vedo."





"Non ho perso l'abitudine che tutto debba ancora venire".


 



Roscoe Holcomb 



Ex minatore di carbone,carpentiere e contadino nativo di Daisy, Kentucky (area appalachiana), il banjoista, chitarrista, armonicista e cantante Roscoe Holcomb (1912-1981) è una pietra miliare della old time music.
Scoperto e registrato per la prima volta nel 1958 da John Cohen, che coniò per le sue interpretazioni altamente ispirate e sofferte il termine di ‘high lonesome sound’(performance particolarmente sentita.
Diventò una figura di spicco ed uno dei protagonisti assoluti del folk revival degli anni Sessanta grazie anche alle costanti e prolifiche incisioni per l'etichetta Folkways.
La sua voce in falsetto rimane in netto contrasto col suono vigoroso e solido del cinque corde. 
La versione di I Wish I Was A Single Girl Again (l’originale è di Kelly Harrell, risalente al 1925) trovò posto nella colonna sonora del film Zabriskie Point(1970) di Michelangelo Antonioni.








 

giovedì 14 marzo 2013


 Luna di Carta

 

Paper Moon è un film statunitense del 1973 del regista Peter Bogdanovic. 

Girato in bianco e nero e ambientato in Kansas e Missouri durante il periodo della grande depressione. 

La pellicola racconta la storia di un venditore ambulante di bibbie che si mette in società con una orfanella di 9 anni.

Insieme iniziano a girare il paese compiendo piccole truffe per sopravvivere finchè in poco tempo la piccola diventa più abile del maestro. 

Il film vanta nel proprio cast Ryan e Tatum O'Neal: nella vita, padre e figlia mentre la sceneggiatura è tratta dal romanzo "Addie Pray" di Joe David Brown.