mercoledì 17 dicembre 2014



Hurray  For The Riff Raff - Small Town Heroes


Alynda Lee Segarra portoricana e cresciuta nel Bronx, adolescente frequenta
i giri punk del Lower east side entrando nel collettivo femminista delle Bikini Kill.
Poi a diciassette anni se ne va di casa e parte alla scoperta dell’America, da sola, saltando sui treni, come detta la vecchia tradizione.
Si unisce ad un gruppo di musicisti itineranti, la Dead Man Street Orchestra, con cui canta, suona il banjo e con loro viaggia e suona nelle strade delle città che incontra.


Finisce a New Orleans e lì si adopera per un nuovo progetto stringendo alleanza con il violinista transessuale Yosi Pearlstein (“Siamo una band omosessuale. Anzi, è ancora più complicato di così”) e con altri musicisti si mette a suonare dal vivo scegliendo come nome della band Hurray for The Riff Raff che tradotto suona come ”Viva la feccia, gli emarginati, la ciurmaglia”.


Dal 2007 allineano una consistente discografia, fino ad arrivare a Small Town Heroes dedica a New Orleans, una grande città con le caratteristiche di un piccolo paese.
Il nuovo album costituisce una re-immaginazione femminista della canzone di protesta folk e della musica da strada americana perché l’idea di Alynda e dei suoi è di utilizzare i diversi linguaggi del country, non per riproporre, in modo più o meno fedele all’originale ma come punto da cui partire per una profonda revisione dell’attualità.


Il titolo fa capire quale sia l'universo di Alynda che racconta di un'America marginale e periferica con l'occhio di una ragazza che canta con la persuasione di una vecchia folk-singer un mondo che non è mai come lo si vorrebbe.
Pregiudizi, barriere, razzismi, vengono combattuti con la musica, impegnata in  difesa dei diritti degli omosessuali, attingendo da una parte alle teorie femministe e a dall'altra ad un patrimonio di musica tradizionale che vede cantanti come Billie Holiday, Bessie Smith, Nina Simone accasarsi con Bob Dylan, Townes Van Zandt, Woody Guthrie. 



sabato 13 dicembre 2014




 Cairo, la città morta di razzismo


Non è lungo il tratto di strada che, sulla riva sinistra del Mississippi, da Ferguson, nella contea di St. Louis, porta a Cairo (Illinois): una è la cittadina del Missouri dove è infiammata la protesta dopo l’uccisione di Michael Brown, il giovane nero disarmato colpito con sei colpi dalla polizia; Cairo è la città morta di razzismo, diventata nei decenni una una “città zombie” dopo gli scontri alla fine degli anni Sessanta, causati da un episodio molto simile a quello accaduto nel sobborgo di St. Louis. Ma Cairo per tutto il Novecento, mentre era uno degli snodi commerciali più importanti del Midwest, è stato l’epicentro del conflitto razziale negli Stati Uniti. Quando arriviamo verso mezzogiorno all’imbocco di Washington Street, ancora chiamata Millionaire’s Row, un vecchio orologio di ghisa segna fisso le 7.30. Forse è l’ora in cui in un anno imprecisato Cairo è morta.


Il fiume è tenuto lontano da un sistema di argini che trasforma Cairo in una cittadella assediata: dentro poche case ancora in piedi, miseria cupa, cartacce e sporte che svolazzano nel vento caldo d’agosto, odore di fogna misto a quello del deposito e riciclo della spazzatura, alloggiato nell’ex liceo pubblico. Un film dell’orrore, con le insegne arrugginite che cigolano, ombre di disperati che s’intravvedono nelle abitazioni divorate dagli sterpi e dai tarli, un pickup nero che sgomma nella polvere e reclamizza un negozio di revolver. L’ospedale è chiuso, la piscina è chiusa, la stazione dei bus è chiusa, l’ultimo treno della City of New Orleans si è fermato a Cairo nel 1988, mentre c’è ancora la Central Station ma i treni tirano via veloci, non degnano Cairo neanche di uno sguardo sdegnato, neanche di un fischio di scherno. Gli attuali tremila e rotti abitanti, 75 per cento neri non hanno un alimentari perché non si trova personale in grado di superare gli elementari test d’assunzione - il 60 per cento dei residenti non ha nemmeno il diploma delle scuole medie - inoltre stare alla cassa significa giocare alla roulette russa: il sergente di polizia Jody Benbrook, 35 anni, racconta che 50 chiamate di intervento al giorno per tremila persone sono il record nazionale assoluto. «Cairo è diventata il centro di smistamento dell’eroina della regione, soprattutto del cristalmeth, il nuovo crack” dice. “Quando ti trovi contro uno che è fatto di questa roba devi sparargli, è come Superman». Il sergente non vuole parlare dei fatti di Ferguson, alza le mani in segno di resa verso il destino. Racconta poi tranquillamente che i pochi bianchi vanno al Nu Diner, “il ristorante dei bianchi”. Mangiano il pescegatto fritto, tre dollari. Qui troviamo Rudy, ex capo dei pompieri che ora accumula case alle aste giudiziarie, ne ha una trentina, costo medio 600 dollari.



In ventimila se ne sono andati. Oggi Cairo è un cumulo di ruggine. «Rust never sleeps», canta Neil Young. Dopo le otto di sera chiudono i distributori di benzina, il primo cinema si trova a sessanta chilometri, in Kentucky. L’unica attività gestita da un nero è una barberia ricavata da un vecchio night club. Come Scipione sparse il sale sulle rovine di Cartagine che non doveva mai più rinascere, così Cairo, per aver esibito il lato osceno della Storia, è stata punita privandola di Internet, che funziona sul telefonino appena fuori i confini urbani, quando cominciano i campi di mais.


Fu un’estate di fuoco quella del 1967, quando Robert Hunt, 18 anni, soldato nero in licenza venne trovato impiccato nella locale stazione di polizia. Suicidio decretò lo sceriffo. L’avete ucciso urlò la folla davanti al palazzo della vecchia dogana adibito a Corte distrettuale quando arrivarono gli inquirenti da Washington. La tensione cresce, i bianchi organizzano una milizia chiamata White Hats, perché indossano un elmetto bianco da cantiere. I neri fondano il Cairo United Front. Arriva la Guardia nazionale, un altro soldato nero in licenza, Wily Anderson, viene ammazzato da un cecchino. Per ritorsione muore sparato il giovane bianco Lloyd Bosecker. Vengono arrestati quattro neri, il presidente Lyndon Johnson ordina il coprifuoco. Ma quell’estate fu solo il culmine della guerra per i diritti civili che per tutto il Novecento trasformò Cairo, Illinois, nella Beirut d’America. Dopo la Guerra Civile, sempre per la sua posizione strategica, Cairo fu piazza di sosta e smistamento di migliaia di neri ex schiavi o combattenti nordisti verso le metropoli del Nord Est, ma molti si fermarono, formando una pericolosa percentuale del 5 per cento della popolazione in una città che nonostante fosse stata avamposto delle armate nordiste, non aveva mai celato il proprio appoggio alla causa del Sud, tanto da diventare il centro strategico del Ku Klux Klan. Molti tra i più feroci linciaggi si ebbero qui agli inizi del Novecento. Nel 1946 gli insegnanti neri fecero qui il primo sciopero per la parità di salario con i bianchi. A Cairo le scuole separate vennero abolite nel 1968, dieci anni dopo che nel resto dell’Illinois. “I bianchi a Cairo non hanno mai assunto un nero, mai” dice la signorina Louise Ogg, 75 anni, custode con la sua cagnolina all’ex Post office ora museo della Guerra civile (circa sei visitatori la settimana): «Era una città colta, elegante. Poi sono arrivati l’odio e il sangue”. Negli anni Sessanta la segregazione era totale, negli uffici, nei parchi, nell’assegnazione delle case popolari. La piscina pubblica venne trasformata in club privato (“members only”), la pista di pattinaggio (pubblica) era la sede delle riunioni del KKK.


Dopo i fatti dell’estate del 1967, cominciò l’esodo. I neri boicottarono i negozi dei bianchi perché si ostinavano a non assumere afroamericani. E i bianchi pur di non mollare questa loro Maginot della superiorità razziale, chiusero i battenti e se ne andarono. I campionati di baseball giovanili vennero aboliti per non dover cedere alle leggi antisegregazioniste di Washington. Negli anni Settanta ci furono oltre quattrocento notti di sparatorie, negozi fatti saltare, incendi. Centinaia di attività andarono in bancarotta. Quando negli anni Ottanta furono ammesse le Riverboats Gambling, le navi-Casino per agevolare la ripresa delle città depresse lungo il MIssissippi, nessuno volle attraccare a Cairo. Eppure la sua posizione è formidabile: Cairo è stata fondata alla confluenza tra l’Ohio River e il Mississippi, una fortuna geografica che non è coincisa con quella storica. Terra fertile, abbondanza di raccolti, il limo che si deposita dopo ogni esondazione, ecco perché i primi coloni chiamarono questa regione Little Egypt: oltre a Cairo fondarono Thebes e naturalmente Memphis. Ai primi del Novecento Cairo se la giocava con Chicago e St. Louis. Negli anni Trenta le star di Broadway in tournée dopo aver lasciato Chicago e prima di dirigersi a San Francisco facevano tappa al Gem Theatre di Cairo in Commercial Street. A Sud di Washington Street ci sono ancora, bianche, malinconiche e spettrali, le magioni coloniali in “italianate style”. Era la capitale commerciale del Midwest, quattro linee ferroviarie, 500 mila vagoni merci l’anno; fino agli anni Settanta è stata il primo snodo portuale del Mississippi, shipping terminal dell’acciaio di Cleveland e Pittsburgh attraverso l’Ohio River. La sua collocazione strategica - il generale Ulisse Grant si era acquartierato qui per l’ultimo assalto al fronte sudista durante la Guerra civile - l’avrebbe senz’altro salvata dal destino toccato alle altre città della cosiddetta Rust Belt a causa della crisi dell’industria pesante e della grande manifattura. Avrebbe superato la crisi dell’acciaio e sarebbe stata perfettamente attrezzata per accogliere il nuovo boom del traffico fluviale sul Mississippi, oggi la più trafficata via d’acqua del pianeta, con circa un miliardo di tonnellate di grano, carbone, sabbia, sale, petrolio, containers trasportati su e giù ogni anno. Ma Cairo, dopo l’estate del 1967, divenne maledetta, una città da cancellare dalla coscienza americana. Meglio partire prima che cali la sera, alla radio Keb’Mo’ canta: «It’s time for us to be movin’ on»

Marzio G. Mian 






mercoledì 10 dicembre 2014



Alabama Monroe
“The Broken Circle Breakdown”
 

Alabama Monroe si apre con le immagini di una band che  esegue una versione bluegrass di “Will the Circle be unbroken”, classico del country americano.
Il brano scritto agli inizi del ‘900, interroga sulla relazione circolare tra vita e morte, un riferimento esplicito non solo al titolo originale del film ma anche al dissidio tra fede e ragione che attraversa questo piccolo racconto di sofferenza famigliare.
Quando lo scenario si allarga, il paesaggio non è certo il Kentucky di Bill Monroe, ma il capoluogo delle Fiandre Orientali.
Una sovrapposizione solo apparentemente bizzarra che in realtà da una parte recupera, quasi idealmente, le radici europee di un genere apolide e dall’altra documenta la notevole esplosione di formazioni bluegrass Europee che ha visto il Belgio come importante centro produttivo degli ultimi anni.


Adattamento teatrale scritto dallo stesso Johan Heidenbergh insieme a Mieke Dobbels, “The Broken Circle Breakdown” mette al centro la passione di Didier per la musica e la mitologia country, il suo eroe è Bill Monroe, figura seminale nello sviluppo del Bluegrass, dal quale cerca di desumere tono, impostazione e in parte anche stile di vita.


Quando il solitario musicista conoscerà la tatuatrice Elise, tra i due nascerà un’istantanea storia d’amore tenuta insieme dalla relazione con la musica, ragione di vita per Didier ed espressione del tutto istintiva per Elise. 


Dal loro matrimonio nascerà Maybelle, in onore di Maybelle Carter, nota interprete country e voce di una delle versioni più conosciute di “Will the Circle be unbroken”. Durante la prima infanzia a Maybelle sarà diagnosticato un tumore, un evento che costringerà la coppia ad affrontare una  lunga battaglia dove il cerchio perfetto della famiglia rischierà di spezzarsi.




giovedì 4 dicembre 2014



Andrew Wyeth

Il pittore del silenzio

 


L'artista Andrew Wyeth (Chadd ford 1917 – 2009) è vissuto in America durante gli anni in cui infuriava l’espressionismo astratto e la pop art e per questo è stato snobbato per molto tempo dalla critica ufficiale come un eccentrico e solitario pittore retrò.
E’ stato bollato come un esponente del gusto americano più popolare e nostalgico, ma in realtà i suoi dipinti sono rappresentazioni d’un ambiente e d’una esistenza asciutte e severe, in cui si annida un silenzio profondo, un silenzio che è nell’aria, nella vita solitaria d’ogni giorno.
 Nei suoi quadri l’atmosfera è austera, essenziale, ma è veramente magistrale la sua capacità di restituire, tra i campi vuoti le colline brulle e  le case isolate, la solitudine delle figure, quasi schiacciate dall’asprezza dell’ambiente.


Il suo è un sincero e sentimentale attaccamento al mondo rurale della Pennsylvania e del Maine, regioni dove ha trascorso gran parte della sua esistenza, riproducendone con meticoloso realismo i paesaggi, le case, gli interni e i suoi abitanti, gli uomini e le donne che incontrava.


 I suoi nudi femminili, quelli ch’egli dedicò solo a Helga Testorf, sua modella e probabile amante per oltre quindici anni (dal 1971 al 1985, la dipinse 240 volte senza che la moglie di Wyeth né il marito della donna ne fossero a conoscenza) denotano più un piacere estetico nell’accarezzare con lo sguardo la bellezza del corpo ritratto, che un coinvolgimento romantico o erotico.


Al di là dei riconoscimenti ufficiali, possiamo affermare che Andrew Wyeth è stato un eccellente pittore, da inserire nella tradizione realista di altri artisti come Edward Hopper o Winslow Homer.