Cairo, la città morta di razzismo
Il fiume è tenuto lontano da un sistema di argini che trasforma Cairo in una cittadella assediata: dentro poche case ancora in piedi, miseria cupa, cartacce e sporte che svolazzano nel vento caldo d’agosto, odore di fogna misto a quello del deposito e riciclo della spazzatura, alloggiato nell’ex liceo pubblico. Un film dell’orrore, con le insegne arrugginite che cigolano, ombre di disperati che s’intravvedono nelle abitazioni divorate dagli sterpi e dai tarli, un pickup nero che sgomma nella polvere e reclamizza un negozio di revolver. L’ospedale è chiuso, la piscina è chiusa, la stazione dei bus è chiusa, l’ultimo treno della City of New Orleans si è fermato a Cairo nel 1988, mentre c’è ancora la Central Station ma i treni tirano via veloci, non degnano Cairo neanche di uno sguardo sdegnato, neanche di un fischio di scherno. Gli attuali tremila e rotti abitanti, 75 per cento neri non hanno un alimentari perché non si trova personale in grado di superare gli elementari test d’assunzione - il 60 per cento dei residenti non ha nemmeno il diploma delle scuole medie - inoltre stare alla cassa significa giocare alla roulette russa: il sergente di polizia Jody Benbrook, 35 anni, racconta che 50 chiamate di intervento al giorno per tremila persone sono il record nazionale assoluto. «Cairo è diventata il centro di smistamento dell’eroina della regione, soprattutto del cristalmeth, il nuovo crack” dice. “Quando ti trovi contro uno che è fatto di questa roba devi sparargli, è come Superman». Il sergente non vuole parlare dei fatti di Ferguson, alza le mani in segno di resa verso il destino. Racconta poi tranquillamente che i pochi bianchi vanno al Nu Diner, “il ristorante dei bianchi”. Mangiano il pescegatto fritto, tre dollari. Qui troviamo Rudy, ex capo dei pompieri che ora accumula case alle aste giudiziarie, ne ha una trentina, costo medio 600 dollari.
In ventimila se ne sono andati. Oggi Cairo è un cumulo di ruggine. «Rust never sleeps», canta Neil Young. Dopo le otto di sera chiudono i distributori di benzina, il primo cinema si trova a sessanta chilometri, in Kentucky. L’unica attività gestita da un nero è una barberia ricavata da un vecchio night club. Come Scipione sparse il sale sulle rovine di Cartagine che non doveva mai più rinascere, così Cairo, per aver esibito il lato osceno della Storia, è stata punita privandola di Internet, che funziona sul telefonino appena fuori i confini urbani, quando cominciano i campi di mais.
Fu un’estate di fuoco quella del 1967, quando Robert Hunt, 18 anni, soldato nero in licenza venne trovato impiccato nella locale stazione di polizia. Suicidio decretò lo sceriffo. L’avete ucciso urlò la folla davanti al palazzo della vecchia dogana adibito a Corte distrettuale quando arrivarono gli inquirenti da Washington. La tensione cresce, i bianchi organizzano una milizia chiamata White Hats, perché indossano un elmetto bianco da cantiere. I neri fondano il Cairo United Front. Arriva la Guardia nazionale, un altro soldato nero in licenza, Wily Anderson, viene ammazzato da un cecchino. Per ritorsione muore sparato il giovane bianco Lloyd Bosecker. Vengono arrestati quattro neri, il presidente Lyndon Johnson ordina il coprifuoco. Ma quell’estate fu solo il culmine della guerra per i diritti civili che per tutto il Novecento trasformò Cairo, Illinois, nella Beirut d’America. Dopo la Guerra Civile, sempre per la sua posizione strategica, Cairo fu piazza di sosta e smistamento di migliaia di neri ex schiavi o combattenti nordisti verso le metropoli del Nord Est, ma molti si fermarono, formando una pericolosa percentuale del 5 per cento della popolazione in una città che nonostante fosse stata avamposto delle armate nordiste, non aveva mai celato il proprio appoggio alla causa del Sud, tanto da diventare il centro strategico del Ku Klux Klan. Molti tra i più feroci linciaggi si ebbero qui agli inizi del Novecento. Nel 1946 gli insegnanti neri fecero qui il primo sciopero per la parità di salario con i bianchi. A Cairo le scuole separate vennero abolite nel 1968, dieci anni dopo che nel resto dell’Illinois. “I bianchi a Cairo non hanno mai assunto un nero, mai” dice la signorina Louise Ogg, 75 anni, custode con la sua cagnolina all’ex Post office ora museo della Guerra civile (circa sei visitatori la settimana): «Era una città colta, elegante. Poi sono arrivati l’odio e il sangue”. Negli anni Sessanta la segregazione era totale, negli uffici, nei parchi, nell’assegnazione delle case popolari. La piscina pubblica venne trasformata in club privato (“members only”), la pista di pattinaggio (pubblica) era la sede delle riunioni del KKK.
Dopo i fatti dell’estate del 1967, cominciò l’esodo. I neri boicottarono i negozi dei bianchi perché si ostinavano a non assumere afroamericani. E i bianchi pur di non mollare questa loro Maginot della superiorità razziale, chiusero i battenti e se ne andarono. I campionati di baseball giovanili vennero aboliti per non dover cedere alle leggi antisegregazioniste di Washington. Negli anni Settanta ci furono oltre quattrocento notti di sparatorie, negozi fatti saltare, incendi. Centinaia di attività andarono in bancarotta. Quando negli anni Ottanta furono ammesse le Riverboats Gambling, le navi-Casino per agevolare la ripresa delle città depresse lungo il MIssissippi, nessuno volle attraccare a Cairo. Eppure la sua posizione è formidabile: Cairo è stata fondata alla confluenza tra l’Ohio River e il Mississippi, una fortuna geografica che non è coincisa con quella storica. Terra fertile, abbondanza di raccolti, il limo che si deposita dopo ogni esondazione, ecco perché i primi coloni chiamarono questa regione Little Egypt: oltre a Cairo fondarono Thebes e naturalmente Memphis. Ai primi del Novecento Cairo se la giocava con Chicago e St. Louis. Negli anni Trenta le star di Broadway in tournée dopo aver lasciato Chicago e prima di dirigersi a San Francisco facevano tappa al Gem Theatre di Cairo in Commercial Street. A Sud di Washington Street ci sono ancora, bianche, malinconiche e spettrali, le magioni coloniali in “italianate style”. Era la capitale commerciale del Midwest, quattro linee ferroviarie, 500 mila vagoni merci l’anno; fino agli anni Settanta è stata il primo snodo portuale del Mississippi, shipping terminal dell’acciaio di Cleveland e Pittsburgh attraverso l’Ohio River. La sua collocazione strategica - il generale Ulisse Grant si era acquartierato qui per l’ultimo assalto al fronte sudista durante la Guerra civile - l’avrebbe senz’altro salvata dal destino toccato alle altre città della cosiddetta Rust Belt a causa della crisi dell’industria pesante e della grande manifattura. Avrebbe superato la crisi dell’acciaio e sarebbe stata perfettamente attrezzata per accogliere il nuovo boom del traffico fluviale sul Mississippi, oggi la più trafficata via d’acqua del pianeta, con circa un miliardo di tonnellate di grano, carbone, sabbia, sale, petrolio, containers trasportati su e giù ogni anno. Ma Cairo, dopo l’estate del 1967, divenne maledetta, una città da cancellare dalla coscienza americana. Meglio partire prima che cali la sera, alla radio Keb’Mo’ canta: «It’s time for us to be movin’ on»
Marzio G. Mian
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