martedì 27 marzo 2018

Joel Meyerowitz







Joel Meyerowitz, nato nel 1938, è stato uno dei primi fotografi a utilizzare pellicole a colori. Cominciò a fotografare negli anni Sessanta, dopo un’esperienza come art director e ispirato dalle fotografie di Robert Frank. Nonostante il colore nelle fotografie fosse comparso già nella seconda metà dell’Ottocento, circolava ancora molta diffidenza sul tema: le difficoltà tecniche e gli anni trascorsi a scattare in bianco e nero avevano abituato la visione alla scala di grigi, sia da parte delle persone comuni che tra gli addetti ai lavori. Meyerowitz comprese però la potenza comunicativa dei colori e trasformò il colore in linguaggio. 



La macchina fotografica di piccolo formato (35 mm) permise a Meyerowitz di attraversare New York e comportarsi come un vero e proprio street photographer, registrando piccoli eventi casuali, dettagli minimi e rivelatori, volti e paesaggi urbani. 


L'uso pionieristico del colore rende Meyerowitz uno dei più rappresentativi esponenti della New Color Photography degli anni ’60 e ‘70, insieme a William Eggleston e Stephen Shore che lo avvicinarono al grande formato fino ad arrivare all’importante lavoro che realizzò dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. 

Ha collaborato  con diversi importanti autori – come Garry Winogrand, Tony Ray-Jones, Lee Friedlander, Tod Papageorge e Diane Arbus – e tenne diversi corsi di fotografia.


"Presi in prestito una macchina fotografica, uscii fuori per le strade di New York, e da allora non mi sono mai più guardato indietro" 





mercoledì 21 marzo 2018

1922




Stephen King sta recentemente vivendo la stupefacente fortuna di critica e pubblico grazie a un vero e proprio revival audiovisivo (22.11.63, Under the Dome, Mr. Mercedes, it, la torre nera). Ed è proprio all’interno di tutto cioè che si colloca 1922, una torbida fiaba rurale nella quale non è tuttavia difficile ravvisare l’influenza atmosferica degli inquietati immaginari che da E.A. Poe conducono dritti a Ambrose Bierce e William Faulkner.


 Fedelissimo adattamento di un racconto lungo contenuto nell’antologia Notte buia, niente stelle e diretto con mano saldissima e ispirata da Zak Hilditch, 1922 narra l’oscura vicenda di Wilfred James (Thomas Jane), tipico agricoltore americano impegnato nel disperato tentativo di convincere la moglie Ariette (Molly Parker) a non vendere la fattoria e l’ampio appezzamento di terra ereditati dal padre per trasferirsi in città a vivere una monotona esistenza. Fallito ogni tentativo di mediazione e con lo spettro del divorzio che incombe minaccioso, Wilfred, con la complicità del figlio Henry, architetta l’uccisione della donna e il conseguente occultamento di cadavere nel pozzo situato nel giardino della magione.

Da quando, però, il terribile atto viene compiuto, la vita intera dell’uomo sembra precipitare in un incubo senza fine, tra l’improvvisa fuga del primogenito assieme alla giovane puerpera Shannon e la comparsa di una miriade di ratti che infestano ogni anfratto dell’abitazione, mentre la presenza fantasmatica della moglie sembra tutt’altro che un lontano ricordo. Cavalcando appieno l’onda lunga del buon successo ottenuto dall’attesa trasposizione di Il gioco di Gerald, 1922 si delinea come un’opera intensa e ipnotica dalla natura fortemente ibrida, unendo le coordinate di uno straniante thriller psicologico alla struttura di un horror, impiegando la figura diabolica – e a tratti quasi sovrannaturale – degli onnipresenti ratti quale metafora di un senso di colpa che striscia, rosicchia e s’infiltra malevolo in ogni anfratto della mente distorta del protagonista, richiamando inoltre suggestioni che occhieggiano a Il gatto nero di Poe e all’immancabile La casa della strega di lovecraftiana memoria.

Impiegando una messa in scena esteticamente impeccabile e visivamente suggestiva – grazie a fluidi movimenti di macchina e a un ottimo montaggio dai ritmi alquanto rarefatti –, Hilditch apparecchia un universo incubotico nel quale persino l’immagine apparentemente insignificante di un pozzo acquisisce una forza narrativa inimmaginabile, divenendo luogo maledetto deputato alla volontà di celare un terribile segreto di sangue destinato a perpetrare la propria terribile maledizione attraverso la suggestiva allegoria dell’infestazione.  Salutato con preventive manifestazioni di entusiasmo già nella fase di produzione dallo stesso King, 1922 appare a tutti gli effetti come uno degli omaggi filmici più onesti e sicuramente più riusciti al lavoro del re del brivido, un piccolo gioiello di elegante inquietudine destinato a far passare qualche sana notte insonne anche allo spettatore più coraggioso.


venerdì 9 marzo 2018

Mudbound



Tratto dal romanzo omonimo di Hillary Jordan del 2008 e adattato per il grande schermo dalla stessa regista Dee Rees e dal produttore e sceneggiatore televisivo Virgil Williams, Mudbound è la storia di due famiglie unite da un pezzo di terra e da destini comuni, ma divise dal razzismo tipico del Mississipi rurale degli anni '40. L'ottimo scrittura fa largo uso di bellissimi e intensi voice-over con cui ci presenta un po' alla volta i tanti protagonisti di questo melodramma corale dal crescendo drammatico particolarmente potente ed efficace: se fin dall'inizio colpisce la cura e la realizzazione di ogni singola scena è solo con il dipanarsi della storia e degli intrecci che emerge l'importanza e la forza della pellicola.



Un dramma fluviale e corale ambientato negli States degli anni '30 e '40 che offre una raffinata e credibile ricostruzione d'epoca e finisce per trattare diverse tematiche sociali, dalla segregazione razziale ai tempi ancora ben più che discriminante alle condizioni dei reduci di guerra dopo il ritorno a casa. Il tutto costruito su una messa in scena precisa e raffinata in cui le dinamiche tra i numerosi personaggi principali si agitano con i giusti tempi e modi. La vicenda assume via via toni sempre più intensi e controversi e la forza dei legami, sia positivi che negativi, tocca via via sempre più sfumature fino all'escalation finale, già intuibile dal prologo che non fa presagire nulla di buono. 


Tutti in Mudbound sono vittime di un crudele destino e di un aspro contesto, geografico e sociale, che non perdona. E tutti gli attori sono perfetti nel mostrarci le ferite di questi personaggi, ma anche la loro fierezza: sarà probabilmente la sorprendente performance di Mary J. Blige a farsi notare di più, ma tutti i colleghi - a partire da Carey Mulligan, Jason Clarke e Garrett Hedlund per finire con Jonathan Banks, Jason Mitchell e Rob Morgan - non sono assolutamente da meno.
Perché sebbene la tragedia si nasconda dietro ad ogni angolo, sebbene non si possa che condannare e guardare con orrore alcune sequenze davvero forti, è chiaro fin dall'inizio che qui il vero nemico, il vero cattivo, è solo uno: l'America stessa


Non c'è retorica in Mudbound, non c'è neanche davvero una critica vera e propria, c'è solo la volontà di rappresentare una situazione purtroppo vera che può vedere coinvolte persone comuni, persone che si trovano loro malgrado ad affontare una vita diversa da quello che si aspettavano. Ed accettare che i sogni e le speranze non sempre si avverano, a volte finiscono coperte dal fango