L'America a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta
è sempre stata una delle ambientazioni predilette dei film diretti e/o scritti
da Ethan e Joel Coen: l'America
del benessere, dei manifesti pubblicitari, delle villette immacolate dei
quartieri residenziali; un'America ancora refrattaria ai mutamenti sociali del
periodo immediatamente successivo, e talmente ossessionata dalla propria,
inviolabile idea di perfezione da essere disposta a tutto pur di preservarla da
ogni potenziale fonte di 'disturbo'.
Con Suburbicon
è invece George Clooney, di nuovo in veste di regista, a riprendere in
mano un vecchio copione dei due fratelli del Minnesota, risalente addirittura
all'epoca di Blood Simple -
Sangue facile e perfettamente in linea con la poetica coeniana e
con i suoi elementi distintivi.
La fittizia cittadina di Suburbicon presentata in apertura come un microcosmo
idilliaco è il teatro a tinte pastello dell'American Dream. Ma dietro la
patinata superficie di questa "pastorale americana" fanno capolino fin
da subito ipocrisie e storture; e a farle emergere, manco a dirlo, è l'arrivo
di una nuova famiglia, i Meyers, afroamericani, nella villetta accanto a quella
dei Lodge, nel cuore di un 'paradiso' fino ad allora totalmente bianco e
ferocemente desideroso di restare tale.
Da qui in poi, dopo uno spiazzante incipit
drammatico, prosegue fra costanti colpi di scena, repentini rovesciamenti delle
sorti dei personaggi e arditi cambiamenti di registro: dal thriller alla satira
di costume, dal noir al grottesco, secondo l'inconfondibile tradizione dei
fratelli Coen. E uno degli aspetti più intriganti di Suburbicon, tra i
suoi maggiori motivi di fascino, risiede proprio in questa natura ibrida e
multiforme: Clooney e i Coen giocano infatti con alcuni archetipi del noir
classico, a partire dalla doppia figura femminile incarnata dalla Moore,
strizzano l'occhio a La fiamma del peccato di Billy Wilder e affidano ad Oscar Isaac il breve ma incisivo ruolo dell'astuto detective Roger, ennesima pedina in un complesso
gioco fra il gatto e il topo destinato - ovviamente - a una deriva fuori
controllo.
Matt Damon, nei panni di un padre e marito che pare
più volte in balia delle circostanze, presta il volto a un altro, tipico everyman
del cinema dei Coen: un individuo destinato a rivelarsi un inetto fra gli
inetti, ovvero la sorte implacabile iscritta nel codice genetico di
innumerevoli antieroi coeniani. Perché, a dispetto di tutti i nostri sforzi, è
il caos, o peggio ancora un caso beffardo e inesorabile, a disintegrare con
diabolica puntualità i progetti degli esseri umani.
Il film di Clooney disegna un affresco al vetriolo sia
della società americana nel complesso, sia della sua "colonna
portante": quell'istituzione familiare che in Suburbicon viene sottoposta alla più atroce delle dissacrazioni. Con
sequenze che evocano sinistri rimandi all'America del presente (le
manifestazioni dei suprematisti bianchi e i rigurgiti neonazisti), ma con un
epilogo da cui, nell'apoteosi di sangue e di violenza, sembra filtrare pure un
flebile raggio di speranza.
Nessun commento:
Posta un commento