giovedì 28 aprile 2022

Dischi nella tomba: Morphine - Good (1992)

 



Good, uscito nel 1992, è una meteora fiammeggiante nel panorama rock mondiale. La sua originalità consiste in un attingere poliedrico alle tonalità più sensuali del blues, alle frenesie del rockabilly, ai bollori della musica jazz e alle ombrosità della new wave.

Il trio dei Morphine è unico nella sua formazione: dal 1993 Billy Conway sostituisce Jerome Deupree alla batteria, Dana Colley accende con un lirismo pieno di condanne il suo sax baritono mentre Mark Sandman impugna un basso fretless (senza tasti o a due corde) e canta. La sua voce ha toni sexy e audaci, oscuri come il sangue amaro.

Il sound dei Morphine si basa su una micidiale assenza: la chitarra. Prendiamo l’emotività del blues, il suo dolore, quello struggimento così profondo da scuotere silenziosamente le cavità dei nostri tessuti più rossi, pulsanti e irrorati. Limiamone gli artigli. Svuotiamolo della sua carica emotiva, lasciando solamente quell’insieme potente di provocazione ed energia.

Mark Sandman è un antidivo: muore sul palco di Palestrina nel 1999, stroncato da un infarto. Personaggio criptico e sognatore, sfugge alle luci del jet set che avrebbero reso iconoclastiche le figure di Jeff Buckley e Kurt Cobain. Ne condivide la malinconia e il dolore, il profetico senso di devastazione. Ne differisce per inaffidabilità, volubilità e disinteresse rispetto alle promesse del sistema. Un artista consacrato alla sua musica, introverso e consumato da una rabbia incolore, dall’ansia di realizzare cose grandi.

Good è erotico e fisico, come tutta la trilogia di album (Good, 1992 – Cure for Pain, 1993 – Yes, 1995) partorita dalla band di Boston. E' il sonno che si perde, i compromessi sputati insieme alle cose andate storte.

L’originalità della produzione dei Morphine ha il retrogusto dolceamaro dei patti stretti con il diavolo: il costo dell’ambizione, il prezzo della cura al dettaglio, la spasmodica indagine delle pieghe nere del nostro cuore. Taciute, edulcorate, imborghesite e minimizzate.


The Northman - Robert Eggers (2022)

 

 






The Northman è la terza pellicola di Robert Eggers, uno dei registi più importanti e riconoscibili del panorama del cinema indie nordamericano. La prima lontano dalla A24 e con dietro un budget di circa 100 milioni di dollari, sinonimo di premesse commerciali e produttive assolutamente inedite per un autore che ha fatto dell'esaltazione della libertà autoriale il suo cavallo di battaglia, nonché la chiave del successo della sua carriera. 

Suo il compito di concepire un film in grado di trovare un'armonia a tratti molto delicata, perciò la decisione di affidarsi ancora una volta agli archetipici del racconto mitologico e folkloristico, su cui ha trovato sempre una base forte su cui costruire le sue impalcature colte, primordiali e filologicamente curatissime. 

Ne esce una pellicola epica e mozzafiato in cui il regista si pone come un direttore d'orchestra in grado di far suonare una melodia coerente a tutti gli elementi della sua complessa quanto potente visione cinematografica che abbozza solamente davanti all'incontro con la sua parte popolare e accusa una visione americanocentrica durante il suo sviluppo, specialmente nelle parte risolutiva del discorso uomo e destino. 

Una violenta, primordiale e sanguinosa marcia funebre di un'intera era, che ha l'ambizione di mettere in discussione il passato per provare ad ipotizzare un futuro che può nascere, se nascerà, solo con la sua morte.

 

 

 

 

mercoledì 6 aprile 2022

Va' e vedi - Ėlem Germanovič Klimov (1985)

 


Il titolo originale del film doveva essere "Uccidi Hitler". Ma per una serie di motivi, anche politici, Klimov non poté usare quel titolo, allora trovò ispirazione dall'Apocalisse di Giovanni: "Poi vidi, quando l'Agnello ebbe aperto l'uno de' sette suggelli; ed io udii uno de' quattro animali, che diceva, a guisa che fosse stata la voce d'un tuono: Vieni, e vedi. E quando egli ebbe aperto il secondo suggello, io udii il secondo animale, che diceva: Vieni, e vedi. E quando egli ebbe aperto il terzo suggello, io udii il terzo animale, che diceva: Vieni, e vedi. Ed io vidi, ed ecco un caval morello; e colui che lo cavalcava avea una bilancia in mano. E quando egli ebbe aperto il quarto suggello, io udii la voce del quarto animale che diceva: Vieni, e vedi".

Siamo in Bielorussia ed è il 1943. La guerra è in corso e i nazisti stanno facendo razzie (distrussero, devastarono e bruciarono più di 600 villaggi in quella zona). I partigiani resistono, a modo loro. "Va' e vedi" racconta il viaggio allucinato negli orrori della guerra di Flyora (Florian) Gaishun, un inferno senza speranza alcuna, nella tipica struttura dell’anabasi. Florian vive in povertà con la madre e le due sorelle, unico uomo di casa decide comunque di abbandonare la propria famiglia per unirsi ai partigiani.

È Klimov stesso a dire in più interviste quanto di personale ci sia negli episodi raccontati: "Sono stato all'inferno quando ero bambino; la città era avvolta in fiamme che arrivavano fino al cielo. Bruciava anche il fiume, perché i bombardamenti tedeschi avevano bruciato qualcosa che trasportava petrolio. Era notte, le bombe esplodevano e le madri coprivano i figli con le lenzuola che avevano e poi si sdraiavano sopra di loro". E ancora "[…] Era un qualche tipo di riflesso di come sentivo le mie emozioni durante la guerra. O, si potrebbe dire, della mia infanzia in tempo di guerra. Perché quando la guerra iniziò avevo solo otto anni. Sono nato e cresciuto a Stalingrado, perciò molti dei miei amici e conoscenti, come me, hanno vissuto tempi davvero duri. Dovevamo lavorare molto, sentivamo la sofferenza umana. Questi erano i miei ricordi di guerra, ricordi che resteranno sempre con me e sono sicuro che, in un modo o nell'altro, sono riflessi nel film ’Va' e Vedi’".

Tutt'attorno alla piccola recluta, avanza un trionfo della morte di proporzioni bruegeliane, convulso e solenne ad un tempo. Si tratta di giorni, forse settimane, ma il suo volto di bambino fa in tempo a invecchiare in maschera statuaria, il terrore ne sfregia la pelle, già decrepita, ne paralizza lo sguardo, d'orbite vuote, ne pietrifica i lineamenti, a nervi spezzati, e lo lascia folle, quasi esanime, a urlare muto, laocoontiano. La sospirata avventura militare, abbracciata con tanto entusiasmo nell'incipit, lo disintegra in tutto e per tutto, congelando l'idiozia suicida del sorriso iniziale in rictus nervoso, come un'ultima, beffarda ferita su un volto divenuto esso stesso cicatrice.


In Va' e vedi si fa terra bruciata di molta retorica da war drama, non esistono eroismi ammissibili, né s'intuiscono vie di scampo, consistendo l'azione d'inutili fughe e d'effimeri rifugi. Come in Apocalypse Now, la guerra è uno stato disturbato della mente, l'orrore umano il suo distillato; come ne La sottile linea rossa, alla distruzione generalizzata risponde il canto straziato di una natura edenica e remota; ma nel suo realismo viscerale, nel vivido soundscape e nell'allucinato espressionismo dei suoi attori (tutti non professionisti), il furioso requiem di Klimov non ha pari. La folta aneddotica sul film racconta di scene girate con uniformi originali e armi autentiche, con proiettili veri che passavano dieci centimetri sopra le teste degli attori, e sedute d'ipnosi per il piccolo protagonista, (in)utili a fargli dimenticare le scene più efferate affrontate sul set. 

Il tentativo spasmodico di giungere al massimo grado di realismo possibile, esso stesso a prova di morte, apporta al film una potenza drammatica inusitata, che trova il suo culmine nell'intensissimo uso del sonoro - si guardi quando calano le prime bombe, di come dal boato avanzi un fischio persistente, assordante, appena screziato dalla voce del ragazzo, inudibile persino a se stesso, e di come segua, nella scena dell'impantanamento dantesco, l'inestricabile selva sonora: un mostruoso frastuono di ronzii, latrati, brandelli di classica, litanie, drones e strépiti d'uccelli, come acufeni incurabili di un mondo ferito a morte. Così il traumatico realismo delle sparatorie, vere e proprie allucinazioni da guerra fredda con quell'artiglieria da incubo, o l'agghiacciante istrionismo del costrutto emotivo, squassato da pianti improvvisi e risate isteriche. Il formalismo visivo non è da meno, con la fotografia a illividirsi insieme al crescendo drammatico e i poderosi pianisequenza a richiamare i sublimi tempi di Tarkovskij. Come il rogo finale che chiudeva Sacrificio, l'ultimo capolavoro di Tarkovskij, così, in quest'altissimo esempio di cinema antimilitarista (e antifascista), un incendio inestinguibile suggella il momento terminale di tutta una filmografia, marchiando a fuoco l'ultima opera realizzata da Klimov, ritiratosi poco dopo. Benché l'edizione italiana sia mutila di una ventina di minuti, Va' e vedi merita ad ogni modo di esser (ri)visto: a tutt'oggi, le braci di questo film dilaniante e inesorabile non smettono di bruciare.


Istantanee di un declino

 

 



George Grosz nacque nel luglio del 1893 a Berlino e si avvicinò alla pittura in modo significativo a seguito degli eventi bellici della prima guerra mondiale. Il particolare clima creato dalla guerra andò sviluppando in Grosz una  nuova ed originale espressività. Egli coglie tutto l'orrore della carneficina che si sta consumando sui campi di battaglia in Europa e ne dà un'implicita rappresentazione nei suoi quadri. Milioni di soldati proletari vanno arricchendo con il loro sacrificio latifondisti, fornitori di grano e grandi produttori d'armi, come i Krupp in Germania,  muoiono in silenzio nel fango delle trincee, o tra i compagni poco prima caduti in un assalto.

Grosz aderisce al movimento dadaista, che era stato introdotto a Berlino nel 1918. Egli utilizzò il Dada berlinese come arma cruda e inquietante di denuncia del militarismo e della borghesia della Germania prenazista. Sul piano etico ed estetico il Dadaismo era infatti un movimento rivoluzionario, che  si proponeva come la dissacrazione dei valori ricca borghesia, con il suo piacere per un'arte accademica e conformistica. Dopo aver costituito con Otto Dix il gruppo Nuova oggettività e aver illuminato, con un'analisi spietata, l'avidità di potere dei ceti dirigenti, nascosta sotto la maschera della rispettabilità, all'avvento del nazismo vide le sue opere sequestrate ed esposte alla mostra dell'arte degenerata.


Grosz nella prima mostra Dada organizzata a Berlino - dove figurano anche opere di Marx Ernst e Otto Dix  - espone la raffigurazione satirica di un pupazzo con sembianze di soldato tedesco con la testa di maiale. Il fatto causerà la reazione indignata delle istituzioni, che giudicano tale gesto come oltraggio all'onore del Reich, condannando l'artista a pagare un' ammenda. Grosz  fonda nel frattempo alcune riviste politico satiriche "Die Pleite " e "Der blutige Ernst " tutte in ambito dadaista e ne cura personalmente le illustrazioni.

La sconfitta della guerra nel 1918 e il crollo del sistema autoritario dell' impero in Germania fanno precipitare la borghesia in una crisi profonda, essendo ancora essa legata ai valori del nazionalismo pangermanico, Questo falso idealismo viene attaccato dagli artisti tedeschi negli anni '20; essi rifiutano in blocco la cultura autoritaria e classista che, con la guerra, aveva fatto sprofondare le classi meno abbienti nel baratro della miseria. L'impegno bellico, mentre ha arricchito i ceti più abbienti, ha distrutto le classi medie. L'inflazione in Germania nel dopoguerra sale a dismisura e i salari non tengono il passo dei rincari: fino alla crisi del marco che culminerà con la disastrosa svalutazione del 1923.

Oltre a Grosz operano nel filone del "verismo sociale" anche artisti come Max Beckmann,  Otto DixOtto Griebel, che formano l'associazione degli artisti rivoluzionari tedeschi  legata al partito comunista. Essa, nata nel 1928, cerca di spingere il verismo sociale ancor più in una direzione politica e rivoluzionaria, ma, nonostante il successo iniziale, nel 1933 l'insediamento di Hitler al potere pone il gruppo fuori legge, e molti dei suoi membri sono costretti a fuggire o finiscono perseguitati.

Otto Dix è allontanato dall’Accademia di Dresdae  nel ’37 alcune sue opere, confiscate, sono esposte assieme ai dipinti dell’amico Grosz alla mostra nazista di Monaco di Baviera sulla cosiddetta Entartete Kunst, arte degenerata, quell’arte che non si ispira agli ideali del Führer e che quindi viene violentemente disprezzata. Nel 1939 Dix viene arrestato dalla Gestapo e sarà liberato solo con la caduta di Hitler e la fine della guerra; non andrà meglio a Grosz che, dopo essere fuggito in America nel 1933 ed essere rientrato in Germania solo nel 1958, muore a Berlino, ubriaco, per una caduta dalle scale.