mercoledì 31 ottobre 2018
Viaggio negli ultimi cinema porno
Forse ha qualcosa fra i denti. La cassiera del cinema, con la tinta ai capelli appena fatta, fa passare la lingua fra i canini. Esile, sulla sessantina, ha quasi finito il turno. Asciuga la saliva sul palato, poi guarda sopra le lenti verso la porta «Lo vedi quello? È un infermiere del Policlinico, viene qui tutti i giorni, sta una mezz’ora e poi se ne va».
Di fianco al bancone l’etichetta ingiallita di Femmina in calore svetta da una pila di vecchie pizze di pellicole porno, poco distanti un distributore automatico di merendine e un paio di divanetti neri in finta pelle. «A Milano» - pronuncia con un accento del nord - «sono più seriosi, qui a Roma sono bamboccioni. Nullafacenti, che girano per la strada in un via vai continuo. Un tempo sì che erano seri, i cinema porno».
Nell’Italia di un tempo i cinema a luci rosse, e rispettivi clienti, erano circa dieci volte di più. Oggi il censimento, che avviene grazie alla rete e agli utenti che ne aggiornano l’elenco, conta una quarantina di superstiti, spesso balzati all’onore delle cronache per giri di prostituzione e spaccio.
La programmazione non prevede interruzioni, non c’è pubblicità prima o dopo, i film vintage anni ’80 e ‘90 non hanno titoli di coda alla fine. Ruotano senza interruzione a volume basso, quasi ovattato.
Poltrone di velluto sbiadito accolgono anime affannate, voci e ginocchia, cinture che si slacciano e cerniere con la zip. Il prezzo del biglietto è sui 7,50 euro, in qualche sala ancora trovi la riduzione per militari e pensionati.
Alcuni si sono trasformati in gallerie d’arte, festival musicali, teatri, occupazioni, supermercati, luoghi di proiezioni d’essai, e qualcuno, per una strana analogia, perfino in studio oculistico.
GLI ANNI D’ORO E OGGI - Negli anni ottanta i cinema della capitale erano quattordici: l’Aniene, il President, il Moderno, il Modernissimo, l’Avorio e tutti gli altri. Ora ci sono l’Ambasciatori in zona Stazione Termini e l’Ulisse in via Tiburtina, due società diverse ma stesso proprietario. «Questi posti man mano si sgretolano. Fra sei o sette anni, qui non ci sarà più nulla, mannaggia a me» racconta il cassiere del cinema Ulisse «qui ce vengono ministri, preti, pensionati, tanto per di’ eh. Economicamente stanno bene, c’è chi ci viene anche tutti i giorni, c’era uno che veniva in treno da Latina. Hanno un rapporto di confidenza, sono affezionati. Sottinteso, non raccontano mai la loro vita privata. Ci vengono tanti rumeni e ragazzi stranieri, si fanno pagare il biglietto, entrano e poi nun so. Ci stanno anche i carabinieri che con la scusa dei controlli poi si fanno dare le tessere omaggio, e te che fai? Nun gliele dai?». A sorpresa, l’ora di punta è dalle 10 alle 14.30, dopo le 7 non c’è quasi nessuno.
A Roma le pellicole 35mm, cambiate ancora manualmente alla fine di ogni proiezione, vengono acquistate direttamente dal cinema. In questo modo rispetto alle dinamiche commerciali di altri film proiettati, l’utile che va alla casa di distribuzione anziché essere intorno al 60%, scende al 15.
«Ci vengo per trasgredire. É osceno, lo ammetto» confessano gli occhi cerulei di Antonio prima di entrare in sala «La scusa è sempre la stessa: straordinari al lavoro. Anche se mia moglie mi ha trovato il biglietto nei pantaloni prima di far la lavatrice. Ci sto poco» promette «entro, mi metto in fondo alla sala in piedi per vedere chi c’è e chi non c’è, anche se sono quasi sempre facce note. Qualcuno guarda, qualcuno fa, qualcuno esibisce. Quando l’atmosfera si scalda si va di sopra, in galleria o, ancora meglio, nei bagni».
Intanto in sala Damiano, la maschera dell’Ambasciatori, bassino e muto come una sfinge, stacca i biglietti e ogni venti minuti si fa trascinare dalla torcia nel buio. Nel fumo albuminoso di qualche sigaretta vietata, scorge masturbazioni dentro e fuori la scena fra i rumori di amplessi fasulli e schiere brune nell’ombra. «Girano come trottole, se tu li lasci fare si ammucchiano in galleria, e allora devi andare con la torcia. Appena giri l’angolo, si rimettono in mucchio. Se li becchi, a masturbarsi a vicenda, poi glielo devi dire di andarsene. Sempre per cortesia, eh... Che poi magari poi ti fanno il dispetto e sporcano».
I RICORDI - «Che nun me li ricordo? Giovani e vecchi ben vestiti, qualche donna» racconta il barista del caffè di fronte allo storico cinema Avorio nel quartiere del Pigneto, che oggi conserva solo l’insegna e forse diventerà la sede di rassegne cinematografiche d’essai. «Lì» - indica poco lontano dalla macchina del caffè - «ci stava il telefono, e li sentivi chiamare la moglie. Dicevano ‘guarda che ho bucato, sto a cerca’ il gommista’. Poi entravano dentro. Un tempo lavoravo di più, il 50% dei miei clienti veniva da lì». Poco lontano alle prese con l’abbacchio, il macellaio dell’angolo rimpiange i bei tempi andati: «Al porno ci andavo in compagnia, da regazzino, all’Ambra Jovinelli. Andavo a vede’ Sordi, Totò, poi c’era lo spogliarello e quindi il film porno. Insomma mica c’era internet, ti portavi un pezzo di pizza, metti che te veniva fame... Te mettevi in prima fila, perché nelle ultime ce stavano le checche e le marchette. La programmazione delle sale a luci rosse stava nell’ultima pagina del Messaggero, appena sotto quella delle sale parrocchiali. Ora più nulla, sono destinati a morire, o troveranno altre vie»-
giovedì 25 ottobre 2018
martedì 23 ottobre 2018
La cura del benessere
La cura del
benessere è un incubo stratificato , onirico che trasmette le inquietudini e le
angosce del Polanski più cupo, tra figure e immaginari rimessi al mondo da
Dario Argento e Mario Bava.
Il protagonista
è un giovane rampante di una società finanziaria, parte da New York e arriva
tra le montagne svizzere, convinto di persuadere in poco tempo il suo capo a
ritornare negli States dopo che
ha mollato tutto rifugiandosi in una clinica che sembra poter rigenerare il
benessere delle persone. Ma le cose vanno diversamente, e ben presto, dopo un
incidente e vari esami che manifestano valori preoccupanti, il protagonista si
ritroverà anche lui nella condizione di paziente dell'istituto .
Piscine,
bagni turchi, giardini, acqua da bere in grande quantità per purificarsi e
abituarsi all'altitudine; stanze e luoghi misteriosi e inaccessibili.
Verbinski ordisce nervature e tensioni, pieni e vuoti della trama, ne registra incastri e mancanze, le attese e i rimandi; tira i personaggi come fossero corde, trasforma il set in un universo narrativo destabilizzante, in una assurda, grande macchina del tempo, fino a un finale che straborda, mostruoso.
La cura dal benessere è una storia di grande impatto visivo (notevolissimo il lavoro alla fotografia di Bojan Bazelli) e con una narrazione tanto avvincente quanto deformante che ci
consegna una riflessione acuminata
sul nostro presente.
martedì 16 ottobre 2018
William Eugene Smith
“A cosa serve una grande profondità di campo se non
c'è un'adeguata profondità di sentimento?”
W. Eugene Smith è stato un uomo di
grande valore che ha ribaltato i canini estetici della fotografia di reportage
e rivoluzionato la storia del fotogionalismo.
Smith ambiva a rappresentare
invece la verità nella sua essenza.
Cresciuto durante gli anni della grande depressione
americana, Eugene vive un'atmosfera molto delicata. Il padre produttore di
cereali, vede perdersi tutto e non riuscendo a trovare i sostentamenti per la
famiglia, in preda alla disperazione più totale decide di togliersi la vita,
sparandosi. I medici cercano di salavarla e chiedono al giovanissimo Eugene di
collaborare con una trasfusione di sangue. Ma, ahimé, il padre muore con il
ragazzo a fianco nella ricerca disperata ed estenuante di salvargli la vita.
Aveva solo 18 anni.
Questa drammatica vicenda segnò la vita del fotografo,
una ferita che ha aperto le porte ad una sensibilità estrema. Per tutta la sua
vita cercherà la redenzione nel suo lavoro come una disperata missione.
Diventerà un fotografo geniale, acuto e presuntuoso nella sua ricerca costante
della verità.
Potremmo definirlo un eroe moderno. I suoi progetti
sono fonte di passione e scandalo allo stesso tempo. I suoi scatti annullano
l'indifferenza e si scuotono le coscienze.
La
scelta della luce e dei contrasti in ogni sua foto non sono la mera ricerca
dell'eleborazione per la riusciuta di uno scatto, ma un'indagine sulla ricerca
costante di far arrivare la verità a chi osserva il suo lavoro.
Tra i suoi progetti Minamata è
uno di quelli che ancora oggi ci lascia inorriditi.
Una tragedia incommensurabile
ha travolto e sconvolto le vite di questo vilaggio del Giappone nel 1956. Le
acque contaminate dal mercurio dell’industria chimica Chisso Corporation hanno
prodotto uno dei primi e dei peggiori disastri ambientali che la storia
ricordi. Ci furono moltissimi morti e tutti i bambini nati in quel periodo
subivano delle deformazioni e incapacità di sviluppo.
Il fotografo si fa
travolgere da tutto questo e per farsi accettare dalle persone del luogo e
capire esattamente cosa e come fotografarli si trasferisce lì per 3 anni,
vivendo esattamente come loro.
Un altro grande progetto fu Pittsburgh. Dal 1955 fotografò i lavoratori dell’industria
dell’acciaio e le persone in strada, raccontandola ai tempi in cui era un
importantissimo centro industriale: un progetto ambizioso che divenne uno dei più
rappresentativi della sua carriera.
In una rara intervista nel 1956 con il grande
fotografo ritrattista Philippe Halsman
discute il motivo per cui fotografa in questo modo:
Halsman: "Quando credi che il fotografo sia
giustificato nel rischiare la propria vita per fare una foto?"
Smith: "Non posso rispondere. Dipende dallo
scopo. La ragione, la convinzione e il fine sono gli unici fattori
determinanti. Il soggetto non è la corretta misura. Penso che il fotografo
debba avere una ragione, uno scopo. Mi dispiacerebbe rischiare la vita per
catturare un'altrafotografia sanguinosa per il Daily News, ma se questo può
cambiare la mente dell'uomo contro la guerra, allora sento che ne varrebbe la
pena rischiare la mia vita. Ma non consiglierei mai a nessun altro di prendere
questa decisione. E' una scelta molto personale. Quando ero su una
portaerei, non volevo volare il giorno di Natale perché non avrei voluto
colorare per il resto dei natali, le cartoline per i miei figli ".
William Eugene Smith nasce nel 1918 a Wichita, Kansas.
Nel 1936 è ammesso alla Notre Dame University dove viene istituito un corso di
fotografia appositamente per il promettente giovane fotografo. Abbandonata
l’università, inizia a collaborare con il settimanale Newsweek, da cui è
allontanato per aver rifiutato di lavorare con le macchine Graphic 4x5. Nel
1939 viene contattato dalla rivista Life, con cui inizia una collaborazione che
lo porta, nel corso degli anni successivi, a coprire come fotografo di guerra
il teatro bellico del Pacifico. Il 23 maggio 1945 rimane ferito al volto
dall’esplosione di una granata: nei due anni successivi è costretto a dolorosi
interventi e a una lunga riabilitazione. Una volta recuperato, Eugene Smith
riprende a lavorare per Life. Nel 1956 entra nell’agenzia Magnum e nel 1957 ne
diventa membro a pieno titolo. L’anno seguente, dopo essersi trasferito a
Tucson per insegnare presso l’Università dell’Arizona, Smith muore per un
ictus a Tucson, Arizona, il 15 ottobre 1978.
domenica 14 ottobre 2018
Canto della pianura - Kent Haruf
Diceva
tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy,
si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi
piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco,
nel Canto
della pianura c’è
la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf
come una ballata country & western, diciamo Alone
And Forsaken di
Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è
una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di
momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva
proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede
a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno
di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle.
La fuga
apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto
della pianura è
fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza
particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più,
nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno
di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una
pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso
il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie
divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono
definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni
atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è
limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del
linguaggio.
L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent
Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma
elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale
(perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza
esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per
non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto
della pianura sta
proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent
Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata
della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra,
nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli
sei accanto.
Lo senti, il Canto
della pianura.
Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si
abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili
psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in
camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di
spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le
bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I
profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno
a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti,
complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è
poi così grande.
C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno
te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda.
Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore
degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano
pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel
tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa,
inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota
di brio nei loro passaggi in Canto
della pianura, ma l’effetto
benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti
spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori,
mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un
giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla
domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi
la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle
alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.
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