Diceva
tempo fa Jim Harrison, l’unico scrittore che, con Cormac McCarthy,
si può accostare a Kent Haruf: “A me piace il coraggio, mi
piacciono l’amore e la morte, sono stanco dell’ironia”. Ecco,
nel Canto
della pianura c’è
la vita che va e che viene e si dipana nel racconti di Kent Haruf
come una ballata country & western, diciamo Alone
And Forsaken di
Hank Williams, per non sbagliare. L’essenza è quella, anche se c’è
una forza nei protagonisti che riesce a superare la tristezza di
momenti imprevisti, duri e infelici. L’aiuto inaspettato arriva
proprio da Kent Haruf che rimane vicino ai suoi personaggi e concede
a tutti una seconda chance. Chi resta escluso è perché ha bisogno
di un avvocato o si lascia l’ipotetica Holt alle spalle.
La fuga
apre altri scenari, non previsti, mentre il Canto
della pianura è
fatto di piccoli incastri, che si rivelano di volta in volta, senza
particolari colpi di scena. Comincia con un germoglio vitale più,
nella gravidanza di Victoria Roubideaux, poi si snoda all’interno
di un perimetro ben delineato, una mappa che potrebbe stare su una
pagina del libro, con una mezza dozzina di punti strategici, compreso
il domicilio del protagonisti. Si incontrano per traiettorie
divergenti e inafferrabili: i legami sono molto fragili e vengono
definiti dallo stesso ambiente, dalle stagioni, dalle condizioni
atmosferiche. Sembrerà paradossale, ma la vita nelle smalltown è
limitata dagli spazi, e dai difetti congeniti delle parole e del
linguaggio.
L’espressione del paesaggio attraverso il senso di Kent
Haruf per la frase, asciutta, eppure densa, forte e ruvida, ma
elegante nella sua essenzialità, è la forma lineare, orizzontale
(perché così è il territorio) di una narrazione limpida, senza
esitazioni, “plain spoken”, come direbbe John Mellencamp, e per
non andare troppo lontani dal titolo. La bellezza del Canto
della pianura sta
proprio in quel parlare piano, chiaro, che la scrittura di Kent
Haruf, appuntita e artigianale nella composizione, e così accurata
della definizione, riesce a rendere come se fossimo lì, sulla terra,
nella polvere e nella neve. Non leggi, non immagini: sei dentro, gli
sei accanto.
Lo senti, il Canto
della pianura.
Li senti, uomini (e bambini) e donne che si inseguono, si
abbracciano, si abbandonano, si perdono e si trovano.I profili
psicologici dei personaggi di Ike e Bobby, della madre chiusa in
camera, di Tom Guthrie e Maggie Jones emergono senza bisogno di
spiegazioni. Incontri che si compongono e si consumano seguendo le
bizze di un destino che è impalpabile come il vento sulla pianura. I
profili si stagliano nitidi, alcuni convessi, altri concavi, si vanno
a incastrare e si specchiano uno nell’altro. Divergenti,
complementari, perché Holt, che è difficile chiamare città, non è
poi così grande.
C’è una tenerezza, all’improvviso, dove meno
te l’aspetti, un po’ di compassione sulla pianura dura e fredda.
Una nota di speranza battuta dalle raffiche di gelo e dall’odore
degli animali che spunta dai burberi fratelli McPheron. Parlano
pochissimo, anche meno degli altri, ma si rivelano generosi quel
tanto che basta da rendere meno arido il tempo che passa,
inesorabile. Forse sono anche naïf, perché c’è una bizzarra nota
di brio nei loro passaggi in Canto
della pianura, ma l’effetto
benefico dei McPheron sull’intera storia è la conseguenza di gesti
spontanei (o quasi) che si propagano incontrollati, dentro e fuori,
mitigando piccoli e grandi contrasti da una casa all’altra, un
giorno più, un giorno meno. Holt è solo il punto in fondo alla
domanda, non c’è via d’uscita. L’astio, la solitudine, e poi
la tristezza. Avere una possibilità, non restare soli. Fine delle
alternative. L’ironia della vita può aspettare, ancora un po’.
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