Cairo, la città morta di razzismo
Non è lungo il tratto di strada che, sulla riva sinistra del Mississippi, da
Ferguson, nella contea di St. Louis, porta a Cairo (Illinois): una è la cittadina
del Missouri dove è infiammata la protesta dopo l’uccisione di Michael Brown,
il giovane nero disarmato colpito con sei colpi dalla polizia; Cairo è la città
morta di razzismo, diventata nei decenni una una “città zombie” dopo gli
scontri alla fine degli anni Sessanta, causati da un episodio molto simile a
quello accaduto nel sobborgo di St. Louis. Ma Cairo per tutto il Novecento,
mentre era uno degli snodi commerciali più importanti del Midwest, è stato
l’epicentro del conflitto razziale negli Stati Uniti. Quando arriviamo verso
mezzogiorno all’imbocco di Washington Street, ancora chiamata Millionaire’s
Row, un vecchio orologio di ghisa segna fisso le 7.30. Forse è l’ora in cui in
un anno imprecisato Cairo è morta.
Il fiume è tenuto lontano da un sistema di argini che trasforma Cairo in una
cittadella assediata: dentro poche case ancora in piedi, miseria cupa, cartacce
e sporte che svolazzano nel vento caldo d’agosto, odore di fogna misto a quello
del deposito e riciclo della spazzatura, alloggiato nell’ex liceo pubblico. Un
film dell’orrore, con le insegne arrugginite che cigolano, ombre di disperati
che s’intravvedono nelle abitazioni divorate dagli sterpi e dai tarli, un
pickup nero che sgomma nella polvere e reclamizza un negozio di revolver.
L’ospedale è chiuso, la piscina è chiusa, la stazione dei bus è chiusa,
l’ultimo treno della City of New Orleans si è fermato a Cairo nel 1988, mentre
c’è ancora la Central Station ma i treni tirano via veloci, non degnano Cairo
neanche di uno sguardo sdegnato, neanche di un fischio di scherno. Gli attuali
tremila e rotti abitanti, 75 per cento neri non hanno un alimentari perché non si trova personale in
grado di superare gli elementari test d’assunzione - il 60 per cento dei
residenti non ha nemmeno il diploma delle scuole medie - inoltre stare alla
cassa significa giocare alla roulette russa: il sergente di polizia Jody
Benbrook, 35 anni, racconta che 50 chiamate di intervento al giorno per tremila
persone sono il record nazionale assoluto. «Cairo è diventata il centro di
smistamento dell’eroina della regione, soprattutto del cristalmeth, il nuovo
crack” dice. “Quando ti trovi contro uno che è fatto di questa roba devi
sparargli, è come Superman». Il sergente non vuole parlare dei fatti di
Ferguson, alza le mani in segno di resa verso il destino. Racconta poi
tranquillamente che i pochi bianchi vanno al Nu Diner, “il ristorante dei
bianchi”. Mangiano il pescegatto fritto, tre dollari. Qui troviamo Rudy, ex
capo dei pompieri che ora accumula case alle aste giudiziarie, ne ha una
trentina, costo medio 600 dollari.
In ventimila se ne sono andati. Oggi Cairo è un cumulo di ruggine. «Rust
never sleeps», canta Neil Young. Dopo le otto di sera chiudono i distributori
di benzina, il primo cinema si trova a sessanta chilometri, in Kentucky.
L’unica attività gestita da un nero è una barberia ricavata da un vecchio night
club. Come Scipione sparse il sale sulle rovine di Cartagine che non doveva mai
più rinascere, così Cairo, per aver esibito il lato osceno della Storia, è
stata punita privandola di Internet, che funziona sul telefonino appena fuori i
confini urbani, quando cominciano i campi di mais.
Fu un’estate di fuoco quella del 1967, quando Robert Hunt, 18 anni, soldato
nero in licenza venne trovato impiccato nella locale stazione di polizia.
Suicidio decretò lo sceriffo. L’avete ucciso urlò la folla davanti al palazzo
della vecchia dogana adibito a Corte distrettuale quando arrivarono gli
inquirenti da Washington. La tensione cresce, i bianchi organizzano una milizia
chiamata White Hats, perché indossano un elmetto bianco da cantiere. I neri
fondano il Cairo United Front. Arriva la Guardia nazionale, un altro soldato
nero in licenza, Wily Anderson, viene ammazzato da un cecchino. Per ritorsione
muore sparato il giovane bianco Lloyd Bosecker. Vengono arrestati quattro neri,
il presidente Lyndon Johnson ordina il coprifuoco. Ma quell’estate fu solo il
culmine della guerra per i diritti civili che per tutto il Novecento trasformò
Cairo, Illinois, nella Beirut d’America. Dopo la Guerra Civile, sempre per la
sua posizione strategica, Cairo fu piazza di sosta e smistamento di migliaia di
neri ex schiavi o combattenti nordisti verso le metropoli del Nord Est, ma
molti si fermarono, formando una pericolosa percentuale del 5 per cento della
popolazione in una città che nonostante fosse stata avamposto delle armate
nordiste, non aveva mai celato il proprio appoggio alla causa del Sud, tanto da
diventare il centro strategico del Ku Klux Klan. Molti tra i più feroci
linciaggi si ebbero qui agli inizi del Novecento. Nel 1946 gli insegnanti neri
fecero qui il primo sciopero per la parità di salario con i bianchi. A Cairo le
scuole separate vennero abolite nel 1968, dieci anni dopo che nel resto
dell’Illinois. “I bianchi a Cairo non hanno mai assunto un nero, mai” dice la
signorina Louise Ogg, 75 anni, custode con la sua cagnolina all’ex Post office
ora museo della Guerra civile (circa sei visitatori la settimana): «Era una
città colta, elegante. Poi sono arrivati l’odio e il sangue”. Negli anni
Sessanta la segregazione era totale, negli uffici, nei parchi,
nell’assegnazione delle case popolari. La piscina pubblica venne trasformata in
club privato (“members only”), la pista di pattinaggio (pubblica) era la sede
delle riunioni del KKK.
Dopo i fatti dell’estate del 1967, cominciò l’esodo. I neri boicottarono i
negozi dei bianchi perché si ostinavano a non assumere afroamericani. E i
bianchi pur di non mollare questa loro Maginot della superiorità razziale,
chiusero i battenti e se ne andarono. I campionati di baseball giovanili
vennero aboliti per non dover cedere alle leggi antisegregazioniste di
Washington. Negli anni Settanta ci furono oltre quattrocento notti di
sparatorie, negozi fatti saltare, incendi. Centinaia di attività andarono in
bancarotta. Quando negli anni Ottanta furono ammesse le Riverboats Gambling, le
navi-Casino per agevolare la ripresa delle città depresse lungo il MIssissippi,
nessuno volle attraccare a Cairo. Eppure la sua posizione è formidabile: Cairo
è stata fondata alla confluenza tra l’Ohio River e il Mississippi, una fortuna
geografica che non è coincisa con quella storica. Terra fertile, abbondanza di
raccolti, il limo che si deposita dopo ogni esondazione, ecco perché i primi
coloni chiamarono questa regione Little Egypt: oltre a Cairo fondarono Thebes e
naturalmente Memphis. Ai primi del Novecento Cairo se la giocava con Chicago e
St. Louis. Negli anni Trenta le star di Broadway in tournée dopo aver lasciato
Chicago e prima di dirigersi a San Francisco facevano tappa al Gem Theatre di
Cairo in Commercial Street. A Sud di Washington Street ci sono ancora, bianche,
malinconiche e spettrali, le magioni coloniali in “italianate style”. Era la
capitale commerciale del Midwest, quattro linee ferroviarie, 500 mila vagoni
merci l’anno; fino agli anni Settanta è stata il primo snodo portuale del
Mississippi, shipping terminal dell’acciaio di Cleveland e Pittsburgh
attraverso l’Ohio River. La sua collocazione strategica - il generale Ulisse
Grant si era acquartierato qui per l’ultimo assalto al fronte sudista durante
la Guerra civile - l’avrebbe senz’altro salvata dal destino toccato alle altre
città della cosiddetta Rust Belt a causa della crisi dell’industria pesante e
della grande manifattura. Avrebbe superato la crisi dell’acciaio e sarebbe
stata perfettamente attrezzata per accogliere il nuovo boom del traffico
fluviale sul Mississippi, oggi la più trafficata via d’acqua del pianeta, con
circa un miliardo di tonnellate di grano, carbone, sabbia, sale, petrolio,
containers trasportati su e giù ogni anno. Ma Cairo, dopo l’estate del 1967,
divenne maledetta, una città da cancellare dalla coscienza americana. Meglio
partire prima che cali la sera, alla radio Keb’Mo’ canta: «It’s time for us to
be movin’ on»
Marzio G. Mian