martedì 29 novembre 2022

Dischi nella tomba: The Fall - Perverted by Language (1983)

 

Passeggiare a ridosso dei docks, nella Manchester di fine anni 70, poteva essere, secondo i punti di vista, esperienza mortificante ma, al contempo, stimolo critico nei confronti di un sistema polveroso, dove il prisma dei colori riusciva a esser colto solo nelle tonalità del grigio.
Un sistema socio-economico paradossale, ridotto all'osso, nei suoi bisogni secondari. Una griglia miseramente piatta, in cui le generazioni del mezzo, se dotate di un occhio un pochino più lungo, dilatato da qualche stupefacente, riuscivano a osservare dall'esterno il tessuto lugubre, annientato dall'abnegazione alla fabbrica e da un'esistenza scialba, lontana anni luce dalla frivolezza strabordante della vicina Londra e del mondo.
In quella terra dove il processo di alienazione poteva essere, per i più, motivo di malessere sotterraneo, inconsapevole e messo a tacere da una scansione monotona, ma confortevole, dei ritmi quotidiani, lo stesso, per altri, diveniva materia prima di osservazione e ispirazione.
La pletora dell'underground poteva scegliere la via del tragico, perfettamente incarnata, nella sua espressione più pregevole, da Ian Curtis, o la metamorfosi androgina di Howard Devoto oppure una forma di grottesco, scorbutico cinismo perfettamente incarnato da Mark E. Smith.

Nel 1976 Mark E. Smith, smunto e apparentemente innocuo ragazzetto di 19 anni, addetto alle spedizioni in una ditta di import-export dei docks, trovando in Doors, Velvet Underground, Stooges e Can una superiore ragion d'essere rispetto a un'esistenza che avrebbe toccato l'apice in una appena più ragguardevole forma di alto-proletariato, e superando la linea di demarcazione tra l'estasi dell'ascolto e la volontà attiva della creazione, ingaggiò Martin Bramah alla chitarra, Tony Friel al basso e un tale Dave/Steve, dall'identità ignota, alla batteria. Con questa line-up, ribattezzata "The Fall", dalla novella di Albert Camus, la band diede vita alla prima esibizione live al North West Arts Basement di Manchester, nel maggio del 1977.
La seconda esibizione dal vivo, allo Squat Club di Manchester sancì l'entrata di Una Baines, fidanzata di Smith, alle tastiere e del nuovo batterista Karl Burns.

I primi due anni di vita della band, segnati dall'avvicendamento continuo di nuovi musicisti al basso e alla tastiera, riuscirono, comunque, a produrre i singoli "Bingo-Master's Break-Out!" e "It's The New Thing", seminali di una produzione nata da una forma di caos nervoso e accelerato, destinato a una platea di disadattati persi a spendere le proprie esistenze nei meandri di una cultura fortemente di nicchia, accesa dalle anfetamine, dalla coscienza di classe, da una forma di nichilismo vigile e attivo. Si potrebbe parlare di garage e di post-punk nelle loro forme più ruvide, ma la tastiera lasciava salva da un abusato disordine sonico la melodia sui generis di quella che si andava profilando come una band di culto, antagonista da subito dell'altra faccia della medaglia, nella Manchester di fine 70. Laddove il metallo traeva il proprio carisma dalla sua stessa freddezza, flettendosi ma perdendo la contesa, e abbandonandovisi con fatalismo nei Joy Division, al contrario, quel delirio di nervi che componeva il tessuto umano e sonoro dei Fall completava l'opera, definendo nuove forme, in una lotta sfiancante ma positiva.
Ciò che accade alla fine del 1983, in seguito alla pubblicazione dei singoli "The Man Whose Head Expanded", "Kicker Conspiracy/Wings" e "Marquis Cha-Cha", oltre a segnare un ritorno di fiamma della Rough Trade verso la band, è forse la consacrazione della band all'attenzione di una critica non soltanto costituita da misconosciuti addetti al settore. Quando John Peel ascolta "Eat Y'self Fitter", traccia d'apertura di Perverted by Language, non esita a definirlo uno dei dischi da portar con sé su di un'isola deserta.


La capacità dei Fall di evolversi senza perdere di identità è testimoniata dalla costruzione di impalcature sonore poderose, rette da una sezione ritmica sempre spessa ed elettrificata, da un intreccio di nervi e melodia ai limiti dello scuotimento psichico ("Garden"), dalla sorprendente capacità di anticipare certo shoegaze attraverso un uso più gentile della chitarra e l'inserimento di una voce femminile, quella di Brix Smith, moglie di Mark, in quella che potremmo definire una strana, affascinante ballata post-punk ("Hotel Bloedel"), dal ritorno alle origini di ciò che non si è mai potuto inscatolare come semplice formato-canzone, ma reale ars oratoria, cinica, alterata, a tratti feroce, demenziale, ubriaca, irata, tipica di uno spirito anzitutto inquieto, ma anche libero, nella sua perenne, acuta invettiva ("Tempo House"), invettiva lievemente effettata nella più distesa chiosa ("Hexen Definitive/Strife Knot"), malgrado una certa tensione di fondo, marchio di fabbrica della band.



An Elephant Sitting Still - Hu Bo (2018)

In un circo di Manzhouli, cittadina della Manciuria, c’è un elefante che sta sempre seduto. Non mangia, non beve, non si alza. Un elefante che tutti vogliono andare a guardare. Compresi i personaggi che abitano questa straordinaria opera prima. Come lo studente Bu. Ha litigato con un compagno di classe lanciandolo accidentalmente per le scale e cerca i soldi per partire e andare proprio a Manzhouli. Anche Cheng, il fratello malvivente del ragazzo ferito da Bu, vorrebbe andarci. Ama una donna senza essere corrisposto e ha appena perso un amico che ha tradito andando a letto con la compagna. Ling è una compagna di classe di Bu, che ha un rapporto conflittuale con la madre e una relazione clandestina con il vicepreside. Fugge anche lei. E poi c’è l’anziano Wang, che vede l’ospizio ad attenderlo e vuol provare a fare un ultimo viaggio con la nipotina.

Le traiettorie si intersecano e procedono lente, ineluttabili nell’arco di una giornata, che inizia con il tragico presagio di un giovane che si toglie la vita. Dal mattino alla notte. Quattro ore di durata. Quattro protagonisti. Lunghi piani sequenza. Dolori e desolazioni in fuori campo costruiscono un tessuto esistenziale che diventa estetico, percettivo, spirituale. L’alienazione dei personaggi e degli spazi urbani ti entra nelle ossa, come una perturbazione climatica. Si fugge da un mondo immobile, pesante, insensibile a tutto ciò che lo circonda, proprio come l’elefante del titolo, ma non è detto che altrove sia diverso.

  La sofferenza è permanente, onnipresente. E l’unica alternativa possibile per il pessimismo di An Elephant Sitting Still è quella di “andare a dare un’occhiata”. Mettersi in viaggio verso un’ultima fermata, forse una meta vuota, uno spiazzo in cui ascoltare un barrito assordante, definitivo.
Scrive e dirige il cinese Hu Bo, che si è suicidato a 29 anni il 12 ottobre 2017, subito dopo aver terminato da solo anche il montaggio. An Elephant Sitting Still è così destinato a rimanere il suo primo e ultimo lungometraggio, anche se dentro ce ne sono almeno cinque o sei di film. È infatti un’opera incommensurabile per le dimensioni, per la perizia tecnica, per la disperazione generazionale. Ci sono echi del primo Jia Zhangke, quello di Unknown Pleasures in modo particolare, forse anche di Bèla Tarr e di altri cineasti ancora, ma con una densità narrativa e “filosofica” decisamente sorprendenti. Hu Bo prima di realizzare An Elephant Sitting Still aveva del resto firmato anche alcuni romanzi, a riprova di una maturità poetica già ampiamente definita. 

Il film di Hu Bo si mangia in un colpo solo  qualsiasi oncia di manierismo cinematografico e di narcisismo autoriale del XXI secolo. An Elephant Sitting Still non è solo il disperato poema d’addio di un talento impressionante, ma è la materia di cui la critica cinematografica, gli aspiranti registi e il mondo che sa ascoltare e vedere avevano bisogno per credere ancora nella forza dell’espressione e per conservare quel poco di verità che ci è ancora concessa.
 



martedì 5 luglio 2022

Dischi nella tomba: Nico - Desertshore (1970)

 

 

 



Capolavoro estremo del "gotico", nonché uno dei più straordinari viaggi che la musica del ‘900 abbia intrapreso tra le pieghe dell'anima umana, "Desertshore" vive di una austerità assoluta, di una insopportabile angoscia esistenziale. Il suo incedere è quello di una umanità incapace di porre rimedio al suo destino; la sua solennità è quella di un urlo che giunge dal fondo dei secoli. 

Come in un quadro di Munch, lo sfondo è prossimo a liquefarsi, per lasciare spazio a un indecifrabile ammasso di colori, a una mutevolezza diafana. Seguire le evoluzioni vocali di Nico, adagiate sulle traiettorie musicali di John Cale (che qui lambisce una forma essenziale di "folklore totale e universale"), seguire quel suo perenne lamento è un'esperienza traumatica, eccessiva, ma, ad ogni modo, inevitabile, autentica.

Fin dall'iniziale "Janitor Of Lunacy", l'impressione è quella di un vortice malsano, che rapisce e non perdona: l'harmonium di Nico e l'organo di Cale si rincorrono e si perdono, in una mirabile sintesi nera. La voce si situa in uno spazio angusto, nel punto più buio della mente: e da quel punto, giunge un linguaggio primordiale, profetico.


Venuto meno ogni impulso "ritmico", a scandire il tempo, è l'insinuarsi della musica nello spazio, uno spazio che acquisisce una inedita componente "visiva" grazie a questi terribili "lied" dell'Eterno. "The Falconer" sviluppa questa "tragicità immanente" in mezzo a rimbombi minacciosi di organo e contrappunti dissonanti di piano. Ma c'è spazio anche per una dolcissima sonata al piano di Cale, un attimo appena di luce, un attimo prima che Nico riprenda, più che il suo canto, la sua "visione essenziale della voce", un elemento fondamentale soprattutto in "My Only Child", cantata a cappella, in perfetta solitudine. Solo qualche brandello di coro e accenni di fiati, in controluce, dietro quel crepitare timido e abissale del silenzio.

La tensione nevrotica è ulteriormente sfiancata da "Le Petit Chevalier" (clavicembalo e canto francese di bambino) e da "Abschied" (violino dissonante, organo lugubre e voce di marmo). E' impossibile, poi, non sentire il cuore franare durante la dolcissima "Afraid", il momento in cui Nico è lì davanti a te, nuda, nella sua bellezza tragica e sovraumana, come una ninfa sola e triste in mezzo a un lago di madreperla. Godetevi questo momento, perché in "Mutterlein" torna a spirare un vento minaccioso. 

Questa apocalisse dello spirito teso verso la Rivelazione si compie con "All That Is My Own", tra tastiere minimaliste, trombe scalfite da rumorismi indistinti e la viola di Cale che lascia venire in superficie scintille orientali. Sullo sfondo, quella linea incerta e inesplicabile del deserto.

Nico, purtroppo, ci ha lasciato da tempo. Ciò che non ci abbandonerà mai, però, è questa malinconia gelida che accompagna ogni nostro attimo. Ed è per questo che "Desertshore" fa parte di noi. Ora e sempre.

 

The Innocents - Jack Clayton (1961)

 

 

Nell’Inghilterra vittoriana, Miss Giddens (Deborah Kerr) viene assunta da un ricco signore (Michael Redgrave) per occuparsi della nipotina Flora (Pamela Franklin) nella sua immensa villa con un grande giardino in una zona isolata fuori Londra, dove la piccola vive con la governante. Miss Giddens accetta con entusiasmo, ma le cose iniziano a cambiare appena nella grande casa fa ritorno dal collegio il fratellino di Flora, l’irrequieto Miles (Martin Stephens, uno dei bimbi de Il villaggio dei dannati).

La donna inizia a vedere nei due bambini strani cambiamenti, e pensa che questi siano influenzati  dalle presenze della precedente governante Miss Jessel e del suo amante stalliere Peter Quint. Tratto dal cupo e ambiguo “Giro di vite” di Henry James, sceneggiato tra gli altri da Truman Capote, Clayton firma uno dei capolavori del genere gotico di rara bellezza e inquietante persuasione, servendosi della ghost story per narrare il lato oscuro e morboso dell’infanzia, spesso manipolata o plasmata dal comportamento degli adulti. Il regista evita tutti i cliché del genere, scegliendo di non abbondare con porte che sbattono, rumori improvvisi e spettri che compaiono nel buio, ma lascia che siano gli spazi solitari della casa e le inquadrature architettoniche a provocare angoscia e tensione.

L’oscurità, non solo quella dell’enorme villa dove Clayton si sofferma più volte, ma quella dell’anima, è la chiave stessa di lettura del film. Non a caso, il regista si affida allo schermo completamente nero e una nenia angosciante, prima ancora che sullo schermo compaiano il logo della 20th Century Fox e i titoli di testa. We lay my love and I / beneath the weeping willow / but now alone I lie / And weep beside the tree, canta una voce di bambina, poche parole, che introducono il dualismo principale della pellicola, il binomio amore/morte. 

Fotografato in modo impeccabile da Freddie Francis, (Il terrore viene dalla pioggia) che avrebbe avuto poi una lunga collaborazione con David Lynch, Clayton racconta magistralmente il disagio dell’adolescenza e degli adulti, una sessualità repressa e opprimente, dove s’intravedono – o pensiamo di intravedere – storie d’abuso e violenza. Grazie alla monumentale interpretazione di Deborah Kerr e dei due attori bambini, Franklin e Stephens, Suspense gioca con l’ambiguità tipica dei racconti dell’orrore, per raccontare un orrore ben più grande e doloroso, quello della perdita della purezza con l’età adulta.

 


martedì 21 giugno 2022

Dischi nella tomba: The Birthday party - Junkyard (1982)

 



Immaginate la musica che farebbe da perfetto sottofondo in un ospedale psichiatrico, aggiungetevi un filo di malsana e consapevole cattiveria, e il risultato finale sarà esattamente la musica dei The Birthday Party. Corre l'anno 1980, quando il combo capitanato da Nick Cave approda a Londra in cerca di fortuna artistica. Qui, il panorama musicale è sfaccettato ed eterogeneo: da un lato, le derive intransigenti e creative del post-punk , dall'altro il tentativo di un ritorno a canoni espressivi più commerciali e la conseguente esplosione del nuovo romanticismo e della new-wave elettronica e piaciona. 

In questo contesto variegatissimo, e graziea un'intuizione  del visionario dj John Peel, esplode senza mezze misure la violenza espressiva di Junkyard, coacervo di dannazione, tossicità, blasfemia e non sense. I componenti della band fanno un uso smodato di alcol e droghe, i problemi giudiziari per furti e guida in stato di ebbrezza alcolica si succedono senza soluzione di continuità, mentre le dinamiche all'interno del combo degenerano progressivamente, a causa soprattutto dell'istrionica ed " esuberante " personalità di Nick Cave.


Eppure, nonostante  tutto ciò, " Junkyard " è il punto più alto, originale e straniante dell'intera produzione giovanile del rocker australiano. La miscela è sulfurea e urticante: gothic rock spinto all'estremo, derive di blues storpio e narcolettico, intuizioni hardcore, deragliamenti punk rimasticati dalle nuove tendenze. Cave, invasato come mai, urla, sbraita, biascica, delira. Quando decide di cantare, somiglia a un Jim Morrison ancora più teatrale, tossico, sconvolto, o richiama alla mente la sguaitezza espressiva di Captain Beefheart.

Le chitarre di Rolan Howard seminano riff taglienti, apocalittici, carichi di vetriolo, quasi terrorizzanti. L'immensa sezione ritmica ( Tracy Pew e Phil Calvert ) scompone e ricompone i tempi in un'orgia senza fine di accelerazioni,  acidissime dilatazioni e controtempi, nei quali punk, rock,  metal e blues si incontrano in un vortice sonoro adrenalinico. L'effetto finale è quello di un apparente caos magmatico ( eppure incredibilmente organizzato ) in cui ogni componente del gruppo da quasi l’impressione di suonare per i fatti suoi.

 Il frutto di questo coacervo di violenza e crudeltà sonora sono tredici canzoni che lasciano attoniti.
Opera controversa e paranoica, difficilissima da compulsare e, per certi versi, intellettualmente stimolante proprio in virtù della non cultura musicale a essa sottesa, Junkyard  è uno di quei dischi che distorce per sempre le orecchie dell’ascoltatore, conducendolo verso i terreni più insidiosi, deliranti e creativi del post punk.
Da evitare se non siete marci dentro almeno un poco. 

 

martedì 14 giugno 2022

Spider baby - Jack Hill (1967)

“Spider Baby” sarebbe dovuto già uscire nel 1964, ma alcuni problemi legati alla produzione posticiparono di oltre tre anni questo debutto ancora oggi amatissimo in patria. L’approccio di Jack Hill qui è ancora rivolto ai vecchi b-movies del passato, sia per l’utilizzo del b/n che per una storia piena di rimandi al cinema horror classico, non a caso uno degli attori del film (Lon Chaney Jr) cita un’opera che egli stesso aveva interpretato nel 1941 (“L’Uomo Lupo” di George Waggner). Un esempio tra i tanti. Con questa pellicola siamo al cospetto di una semiparodia (the maddest story ever told) intrisa di grottesco e avvincente black humour, una folle creazione che guarda indietro (Ed Wood incluso) rivolgendosi involontariamente anche al futuro: da lì a poco infatti il tema della famiglia di psicopatici sarà presente in dosi massicce nella filmografia horror statunitense, mentre Jack Hill prenderà invece una strada diversa ma non meno intrigante.


Virginia, Elizabeth e Ralph sono gli ultimi superstiti della famiglia Merrye, tutti affetti da una terribile sindrome che – a partire dalla tarda infanzia – induce le persone a regredire mentalmente e fisicamente. L’autista di famiglia (Bruno) veglia su di loro (come aveva promesso al defunto Titus Merrye), un giorno però due lontani parenti si presentano nella villa rivendicando la proprietà come legittimi eredi e scatenando il caos tra i giovani e disturbati protagonisti.

  Fin da subito ci accorgiamo che tra quelle mura non vivono persone normali, l’omicidio del postino è infatti una scena tra le migliori del film, con Virginia che cattura la sua preda con le stesse movenze di un ragno. Ma tutto quello che accade dopo non è da meno, merito delle belle atmosfere vintage e di dialoghi scoppiettanti e sopra le righe, una prerogativa tipica delle opere di Jack Hill e qui già messa a punto con grande disinvoltura.

  Non deve quindi trarre in inganno un budget risicato (circa sessantamila dollari), poiché il regista sfruttando una sola location riesce a dar vita a un lavoro mai ripetitivo, complice un simpatico assortimento di personaggi eccentrici e bizzarri (Ralph è interpretato da Sid Haig, volto poi diventato celebre con Rob Zombie nei panni di Capitan Spaulding).
“Spider Baby” ha un’anima, al contrario di molti prodotti successivi più curati ma privi di sostanza: la spina dorsale del film è proprio da ricercare nell’umorismo dissacrante che nasconde una degenerazione familiare specchio di un’America nascosta, lontana dai riflettori di Hollywood. Tra schifosi ragni e sentori cannibalici, prima che i 70s facciano esplodere definitivamente ogni tipo di orrore.


 

mercoledì 25 maggio 2022

Great Freedom - Sebastian Meise (2021)

 


Nella Germania del secondo dopoguerra, tra il 1948 e il 1968, Hans viene imprigionato più volte per via della sua omosessualità. Per colpa dell’articolo 175, che considerava un crimine i rapporti sessuali tra uomini, il suo desiderio di libertà e amore viene sistematicamente frustrato e distrutto. L’unica relazione stabile della vita di Hans diviene quella con il compagno di cella Viktor, con il quale inizialmente i rapporti sono conflittuali, violenti e tesi. 

Le volontà cinematografiche di Sebastian Meise sono evidenti fin dalla prima sequenza, quella dei rapporti sessuali clandestini intrapresi da Hans (Franz Rogowsky) in un luogo non meglio specificato ma monitorato continuamente dalle forze di polizia che proiettano queste immagini poco prima del processo, pur di incastrare in tutto e per tutto Hans nel famigerato “paragrafo 175”, istituito fin dal 1871, che considerava crimini i rapporti tra persone dello stesso sesso.

Great Freedom appartiene in tutto e per tutto a quel cinema di denuncia che non ha alcuna intenzione di tirarsi indietro rispetto agli elementi e fatti più scandalosi e crudi della vicenda raccontata.

Meise ci va giù duro, il suo è un cinema politico, un lavoro con molti temi ed elementi perfettamente bilanciati. Analizzando la storia del dopo guerra della Germania, l'essere queer prima della decriminalizzazione, e come la logica soffocante dell’incarcerazione crei una prigione mentale tale che quella reale diventa quasi irrilevante.