mercoledì 30 giugno 2021

Queen bitch - David Bowie (1971)


 

Hidden Life - Terrence Malick (2019)

 

 

Il soggetto del film di Malick è la storia vera del contadino austriaco Franz Jägerstätter  (August Diehl). Nel 1938 l’ombra del secondo conflitto mondiale si estende in Europa, la leva militare è tanto pressante quanto il fanatismo hitleriano. In un villaggio che vive i ritmi della natura, Franz è chiamato a combattere per una causa che non riconosce. Dovendo soppesare anche le conseguenze per sua moglie (Valerie Pachner) e i suoi figli, la scelta di Franz si fa sempre più lacerante. Il rifiuto etico di adesione alla politica del terrore hitleriana ha ovviamente un costo altissimo.

Dopo la Palma d’oro vinta per The Tree of Life (2011), una continuità di visione sul conflitto etico – che per Malick dura una parentesi temporale dal 1998 al 2019 – stabilisce un rapporto tra La sottile linea rossa (Orso d’oro, 1999) e La vita nascosta – Hidden Life. In entrambe, infatti, anche se sotto profili diversi, ricorre lo sfondo storico della seconda guerra mondiale. L’inizio con un filmato in rapporto d’aspetto 4:3, originale della seconda guerra mondiale, introduce un profondo realismo storico. Malick racconta una storia vera che, tuttavia, non è una storia nuova. Ciò che muta artisticamente il soggetto è la sua grammatica. Infatti, La vita nascosta – Hidden Life è paradossale: è un film sulla guerra ma non c’è ombra di crudi conflitti. I campi di battaglia vengono sostituiti da quelli naturali, coltivati in un piccolo villaggio nascosto fra le montagne.

La vita nascosta – Hidden Life apre la narrazione con delle ampie panoramiche di una perfetta natura austriaca. È un inizio malinconico quello che propone Malick, un inno alla vita che passa per i fotogrammi di una natura incontaminata. Un’evocazione forte dell’Angelus di Millet. Questo canto alla semplicità bucolica, alle origini del vitalismo fa di Malick un nostalgico biocentrista. Gli affetti originari, i riti, le piccole realtà idilliche, lontane dai grandi sconvolgimenti. Quella di Franz e della moglie – come quella reale del regista – è una vita lontana, nascosta dai grandi movimenti della storia.

In contrasto a questa apertura, la morsa stringente della macchina da presa su Franz è cifra di un presagio narrativo. La scelta morale incombe sul protagonista. Il conflitto inscenato è quello tra moralità e legalità con le sue possibili declinazioni. Di fatto, alla convinzione etica personale, anche la religione come istituzione corrotta decade dal proprio ruolo di guida morale. L’etica nazionalista e l’etica personale sono poste in un contrasto serrato, così come le ripercussioni della scelta individuale sulla famiglia di Franz. La scelta come dannazione, la libertà come inferno è oggetto della narrazione de La vita nascosta – Hidden Life. La prospettiva internalista di Malick offre una visione della dimensione reale e privata della scelta morale. Quando si sceglie si è soli, con le proprie convinzioni, con le proprie responsabilità. L’isolamento stesso del regista emerge come dato autobiografico: un autore che sceglie di porsi fuori dallo star-system hollywoodiano.

Se – grazie a James Newton Howard – musiche classiche e cori angelici si alternano, a volte rafforzando l’idillio, a volte adombrando la realtà, esse conferiscono alla storia potenza archetipica. Tutto ne La vita nascosta – Hidden Life è ridotto all’archetipo. La natura nelle inquadrature che ne rimarcano l’immutabilità, il momento etico della scelta individuale, il male radicale. La tensione costante – quasi leopardiana – fra l’indeterminazione  della natura e la lacerazione del conflitto morale è una cifra stilistica de La vita nascosta – Hidden Life. In questa oscillazione fra l’origine e la sofferenza umana del distacco e dell’individuazione prende corpo l’antropologia “malickiana”. Il dolore della determinazione si riflette nel conflitto interno alla scelta e il suo riscatto nella catarsi dell’atto etico, quello vero, primo, archetipicamente umano.

 

giovedì 24 giugno 2021

The Velvet Underground - Sister ray (1968)


 

Rebels of the Neon God (1992)

 

 






È una Taipei plumbea e soffocante quella messa in scena da Tsai Ming-liang nel suo lungometraggio d’esordio I ribelli del dio neon. Una città moderna ma decadente, che intrappola, senza permettere via d’uscita alcuna, i protagonisti Hsiao-kang e Ah Zi, due giovani che si barcamenano e che – anche se provenienti da contesti sociali differenti – molto in fondo si assomigliano.

Due figure che vorrebbero incontrarsi, che vorrebbero aiutarsi, ma che il mondo che abitano non consente loro di potersi comprendere. L’incomunicabilità è allora naturalmente al centro del discorso, ma è come se colpisse solo determinati individui. L’occhio che dirige questo universo è già quello attento di un regista che saprà sempre meglio osservare la realtà che ogni volta deciderà di rappresentare. E lo si evince chiaramente dal fatto che in quest’opera riusciamo a trovare già tutti quei micro filtri segnaletici che aiutano lo spettatore a penetrare quella stessa realtà in modo quasi maniacale. Ma ci sono già anche tutti i temi che staranno alla base della poetica del regista taiwanese e c’è già pure quello che verrà riconosciuto come il suo attore feticcio: Lee Kang-sheng, una figura che si manifesta fin da subito come marchio indelebile e profondo.

 In qualche modo I ribelli del dio neon è un film che racchiude già ogni spigolosità futura, ma anche ogni placida pausa e ogni silenzio del cinema contemplativo che verrà. E c’è anche altro. Ormai lo sappiamo abbastanza bene: il lavoro di Tsai Ming è fatto di splendide ossessioni per l’assurdo, il grottesco e per l’apparentemente cinico. E I ribelli del dio neon non fa specie: questa dimensione si palesa in alcuni limpidi e ripetuti momenti, come quelli dell’allagamento dell’abitazione di Ah Zi, nei quali l’acqua sommerge il pavimento e si ritira a intervalli non regolari come a rappresentare qualcosa che sai che c’è ma non sai quando può manifestarsi. 

Sono azioni di disturbo, sono squarci che si svelano nel Reale e che servono a rendere eccezionale la banalità dell’esistenza umana. E sono già tutti racchiusi meravigliosamente in questa opera prima. E poi il racconto – ma anche questo non è un elemento desueto nel cinema del taiwanese – è capace di stupire con alcuni gesti che contraddicano la natura di ogni personaggio. Insomma, lo Tsai Ming-liang che conosciamo è già tutto qui, a dirci che il mondo è illuminato dai neon, che i fantasmi molto probabilmente esistono e che gli schermi sono forse le uniche cose in grado di dare un senso alle nostre misere esistenze: l’importante è saper sempre distinguere quelli nocivi da quelli benefici.

 

 

martedì 8 giugno 2021

Mark Lanegan Band - Harborview Hospital


 

TETSUO - Shinya Tsukamoto (1989)

 

Per comprendere Tetsuo di Shinya Tsukamoto, oggetto di culto cinefilo che rimane ancora oggi una scheggia apparentemente impazzita, un proiettile vagante in attesa del corpo che lo accoglierà, facendolo suo e rigenerandosi nella distruzione, conviene forse partire proprio dalla fine. Game Over. Il gioco è finito, e poco importa che solo qualcuno si fosse accorto del suo inizio. L’intera cinematografia di Tsukamoto, che nel corso di poco meno di un trentennio ha messo insieme tredici lungometraggi, due mediometraggi (Le avventure del ragazzo del palo elettrico nel 1987 e Haze nel 2005), il corto The Phantom of Regular Size, che può essere considerato il germe da cui si sviluppò il “corpo eclettico” di Tetsuo, e il segmento girato per il progetto Venezia 70 Future Reloaded, andrebbe forse riletta concentrando l’attenzione sul senso che acquista il finale. Cos’è la “fine”, per Tsukamoto? C’è sempre un dopo, un post che segue la catastrofe catartica che ha preso corpo (è proprio il caso di dirlo) sullo schermo. Tetsuo è il primo esempio di questa lunga catena di corpi/non-corpi che tornano a veder le stelle, come in Haze e in Kotoko oppure si lanciano a folle velocità verso l’estinzione, estirpando dall’umano il virus dell’umano e tramutandolo in metallo, fuso come e oltre l’orgasmo.
È una lunga eppur brevissima rappresentazione di un erotismo sfiancato Tetsuo, e non certo solo per la celeberrima sequenza della deflorazione con il membro-trivella, forse l’immagine più nota di uno dei pochi, pochissimi film davvero rivoluzionari degli ultimi decenni. Lo è nell’idea di dover fondere gli antagonisti l’uno nell’altro per poter dare vita a un nuovo organismo mostruoso e meccanico, che gronda carne e metallo e corre a perdifiato verso la conquista di un mondo ancor più mostruoso e industriale, come i capannoni che sono la scenografia perfetta, unica ambientazione possibile.

Tetsuo, delirante scoria sci-fi in odore di paranoia, attinge a piene mani tanto dall’universo del videoclip quanto da quello dei videogiochi, ma ne nega in continuazione l’essenza primigenia: i “responsabili” della crisi del cinema che attanagliò l’industria giapponese dagli anni Settanta in poi, televisione e videogame, utilizzati a uso e consumo di un cinema d’avanguardia, che non nega la narrazione ma la gestisce come atto di continua trasformazione dei corpi in scena. La putrefazione come unico sintomo di un’umanità oramai sconfitta, imbarbarita, persa in una megalopoli che non può più accettare l’umano in quanto tale, ma deve deformarlo, relegarlo a meccanismo, robotizzarlo.


Così ancora una volta quel Game Over che chiude il film appare il punto di (ri)partenza, come se ogni volta si dovesse cominciare tutto da capo, quasi che nella revisione Tetsuo potesse assumere una forma altra, diversa di volta in volta. Cinema in metamorfosi inarrestabile, palingenesi continua e dolorosa, straziante come tutte le mutazioni, e che come tale non può aver “fine”, non può accomiatarsi una volta per tutte, non ha il diritto di concludersi in maniera reale. L’unica possibilità è poter cominciare dall’inizio, ma per questo Tsukamoto non ha bisogno del Nastro di Möbius intorno al quale si contorce il sogno/incubo uxoricida di Strade perdute di David Lynch (Eraserhead è senza dubbio uno dei punti di riferimento di Tsukamoto, così come Videodrome di David Cronenberg, il già citato Sōgo Ishii, Kōji Wakamatsu e tanta serialità televisiva tokusatsu come Megaloman, Ultra Q e Kamen Rider), né del “A reprendre depuis le début” su cui si chiude In girum imus nocte et consumimur igni di Guy Debord.

La mutazione della carne è la messa in scena della tensione dell’uomo verso la rivoluzione, e non verso una supposta “evoluzione”, figlia di un pensiero borghese. Se quest’ultima, infatti sottintende una serie di trasformazioni progressive e ordinate, tendenti a un determinato fine, la rivoluzione indica una trasformazione non preordinata, caotica, che neanche chi mette in moto sa davvero gestire. Ancora una volta, solo l’annullamento di tutto può portare a una rinascita, a sua volta mostruosa e destinata all’estinzione. In ciclo infinito.
Quella che poteva essere scambiata a prima vista come l’ennesima incursione del cinema giapponese contemporaneo nello scenario apocalittico, aggiornando con Tsukamoto la lista dei registi “figli della bomba”, annichiliti dalla memoria (anche familiare, non necessariamente diretta) dell’olocausto atomico che si abatté su Hiroshima e Nagasaki, e che va dai kaiju eiga di Ishirō Honda alla Hyarbor di Conan, il ragazzo del futuro di Hayao Miyazaki e alla Neo-Tokyo di Akira di Katsuhiro Ōtomo, altro non è che un documento spietato della società giapponese della Bubble Economy.

Il Giappone ha però oramai vissuto l’Apocalisse, e deve ora ricominciare da zero, ripartire per provare a sentirsi una volta ancora – forse l’ultima – umani. Nel corso della carriera di Tsukamoto l’accumulo di massa e di corpo verrà seguito da un annullamento addirittura totale dello stesso, prima nelle menomazioni cancerose e nelle tendenze suicide e autolesioniste e poi nel bianco in cui scompare (per riapparire vivo, forse “normale”) il protagonista di Haze.
In Tetsuo Tsukamoto però rappresenta l’apocalittica deflagrazione della mutazione umana, attraverso cui il corpo – personale ma anche sociale – trova una nuova definizione come macchina mostruosa, distruttrice, gargantuesco obbrobrio in grado di fagocitare e assimilare tutto ciò che lo circonda.
L’Apocalisse è avvenuta, la materia non ha più alcun senso. Grida furibonda per le strade. Ma Shinya Tsukamoto, cantore del corpo elettrico/morto/rinnovabile/mutato/disintegrato, continuerà a raccontare fiabe nere e nerissime sulla catastrofe industriale, sull’incubo come ruota motrice dell’uomo moderno, sull’annichilente sconfitta eterna che tutto avvolge, sbrana eppur coccola. Gloria alla nuova carne (che non c’è più).

Raffaele Meale