Per comprendere Tetsuo di Shinya Tsukamoto, oggetto di culto
cinefilo che rimane ancora oggi una scheggia apparentemente impazzita, un
proiettile vagante in attesa del corpo che lo accoglierà, facendolo suo e
rigenerandosi nella distruzione, conviene forse partire proprio dalla
fine. Game Over. Il gioco è finito, e poco importa che solo qualcuno si
fosse accorto del suo inizio. L’intera cinematografia di Tsukamoto, che nel
corso di poco meno di un trentennio ha messo insieme tredici lungometraggi, due
mediometraggi (Le avventure del ragazzo del palo elettrico nel
1987 e Haze nel 2005), il corto The Phantom of Regular Size,
che può essere considerato il germe da cui si sviluppò il “corpo eclettico”
di Tetsuo, e il segmento girato per il progetto Venezia 70 Future
Reloaded, andrebbe forse riletta concentrando l’attenzione sul senso che
acquista il finale. Cos’è la “fine”, per Tsukamoto? C’è sempre un dopo,
un post che segue la catastrofe catartica che ha preso corpo (è proprio il caso
di dirlo) sullo schermo. Tetsuo è il primo esempio di questa lunga
catena di corpi/non-corpi che tornano a veder le stelle, come in Haze e
in Kotoko oppure si lanciano a folle velocità verso
l’estinzione, estirpando dall’umano il virus dell’umano e tramutandolo in
metallo, fuso come e oltre l’orgasmo.
È una lunga eppur brevissima rappresentazione di un erotismo sfiancato Tetsuo,
e non certo solo per la celeberrima sequenza della deflorazione con il
membro-trivella, forse l’immagine più nota di uno dei pochi, pochissimi film
davvero rivoluzionari degli ultimi decenni. Lo è nell’idea di dover
fondere gli antagonisti l’uno nell’altro per poter dare vita a un nuovo
organismo mostruoso e meccanico, che gronda carne e metallo e corre a
perdifiato verso la conquista di un mondo ancor più mostruoso e industriale,
come i capannoni che sono la scenografia perfetta, unica ambientazione
possibile.
Tetsuo, delirante scoria sci-fi in odore di paranoia, attinge a piene mani tanto dall’universo del videoclip quanto da quello dei videogiochi, ma ne nega in continuazione l’essenza primigenia: i “responsabili” della crisi del cinema che attanagliò l’industria giapponese dagli anni Settanta in poi, televisione e videogame, utilizzati a uso e consumo di un cinema d’avanguardia, che non nega la narrazione ma la gestisce come atto di continua trasformazione dei corpi in scena. La putrefazione come unico sintomo di un’umanità oramai sconfitta, imbarbarita, persa in una megalopoli che non può più accettare l’umano in quanto tale, ma deve deformarlo, relegarlo a meccanismo, robotizzarlo.
Così ancora una volta quel Game Over che chiude il film appare il punto di (ri)partenza, come se ogni volta si dovesse cominciare tutto da capo, quasi che nella revisione Tetsuo potesse assumere una forma altra, diversa di volta in volta. Cinema in metamorfosi inarrestabile, palingenesi continua e dolorosa, straziante come tutte le mutazioni, e che come tale non può aver “fine”, non può accomiatarsi una volta per tutte, non ha il diritto di concludersi in maniera reale. L’unica possibilità è poter cominciare dall’inizio, ma per questo Tsukamoto non ha bisogno del Nastro di Möbius intorno al quale si contorce il sogno/incubo uxoricida di Strade perdute di David Lynch (Eraserhead è senza dubbio uno dei punti di riferimento di Tsukamoto, così come Videodrome di David Cronenberg, il già citato Sōgo Ishii, Kōji Wakamatsu e tanta serialità televisiva tokusatsu come Megaloman, Ultra Q e Kamen Rider), né del “A reprendre depuis le début” su cui si chiude In girum imus nocte et consumimur igni di Guy Debord.
La mutazione della carne è la messa in scena della
tensione dell’uomo verso la rivoluzione, e non verso una supposta “evoluzione”,
figlia di un pensiero borghese. Se quest’ultima, infatti sottintende una serie
di trasformazioni progressive e ordinate, tendenti a un determinato fine,
la rivoluzione indica una trasformazione non preordinata, caotica,
che neanche chi mette in moto sa davvero gestire. Ancora una volta, solo
l’annullamento di tutto può portare a una rinascita, a sua volta mostruosa e
destinata all’estinzione. In ciclo infinito.
Quella che poteva essere scambiata a prima vista come l’ennesima incursione del
cinema giapponese contemporaneo nello scenario apocalittico, aggiornando con
Tsukamoto la lista dei registi “figli della bomba”, annichiliti dalla memoria
(anche familiare, non necessariamente diretta) dell’olocausto atomico che si
abatté su Hiroshima e Nagasaki, e che va dai kaiju eiga di Ishirō
Honda alla Hyarbor di Conan, il ragazzo del futuro di Hayao Miyazaki e alla Neo-Tokyo di Akira di Katsuhiro Ōtomo, altro non è che un documento
spietato della società giapponese della Bubble Economy.
Il Giappone ha però oramai vissuto l’Apocalisse, e deve
ora ricominciare da zero, ripartire per provare a sentirsi una volta ancora –
forse l’ultima – umani. Nel corso della carriera di Tsukamoto l’accumulo di
massa e di corpo verrà seguito da un annullamento addirittura totale dello
stesso, prima nelle menomazioni cancerose e nelle tendenze suicide e
autolesioniste e poi nel bianco in cui scompare (per riapparire vivo, forse
“normale”) il protagonista di Haze.
In Tetsuo Tsukamoto però rappresenta l’apocalittica deflagrazione
della mutazione umana, attraverso cui il corpo – personale ma anche sociale –
trova una nuova definizione come macchina mostruosa, distruttrice, gargantuesco
obbrobrio in grado di fagocitare e assimilare tutto ciò che lo circonda.
L’Apocalisse è avvenuta, la materia non ha più alcun senso. Grida furibonda per
le strade. Ma Shinya Tsukamoto, cantore del corpo
elettrico/morto/rinnovabile/mutato/disintegrato, continuerà a raccontare fiabe
nere e nerissime sulla catastrofe industriale, sull’incubo come ruota motrice
dell’uomo moderno, sull’annichilente sconfitta eterna che tutto avvolge, sbrana
eppur coccola. Gloria alla nuova carne (che non c’è più).
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