giovedì 24 giugno 2021

Rebels of the Neon God (1992)

 

 






È una Taipei plumbea e soffocante quella messa in scena da Tsai Ming-liang nel suo lungometraggio d’esordio I ribelli del dio neon. Una città moderna ma decadente, che intrappola, senza permettere via d’uscita alcuna, i protagonisti Hsiao-kang e Ah Zi, due giovani che si barcamenano e che – anche se provenienti da contesti sociali differenti – molto in fondo si assomigliano.

Due figure che vorrebbero incontrarsi, che vorrebbero aiutarsi, ma che il mondo che abitano non consente loro di potersi comprendere. L’incomunicabilità è allora naturalmente al centro del discorso, ma è come se colpisse solo determinati individui. L’occhio che dirige questo universo è già quello attento di un regista che saprà sempre meglio osservare la realtà che ogni volta deciderà di rappresentare. E lo si evince chiaramente dal fatto che in quest’opera riusciamo a trovare già tutti quei micro filtri segnaletici che aiutano lo spettatore a penetrare quella stessa realtà in modo quasi maniacale. Ma ci sono già anche tutti i temi che staranno alla base della poetica del regista taiwanese e c’è già pure quello che verrà riconosciuto come il suo attore feticcio: Lee Kang-sheng, una figura che si manifesta fin da subito come marchio indelebile e profondo.

 In qualche modo I ribelli del dio neon è un film che racchiude già ogni spigolosità futura, ma anche ogni placida pausa e ogni silenzio del cinema contemplativo che verrà. E c’è anche altro. Ormai lo sappiamo abbastanza bene: il lavoro di Tsai Ming è fatto di splendide ossessioni per l’assurdo, il grottesco e per l’apparentemente cinico. E I ribelli del dio neon non fa specie: questa dimensione si palesa in alcuni limpidi e ripetuti momenti, come quelli dell’allagamento dell’abitazione di Ah Zi, nei quali l’acqua sommerge il pavimento e si ritira a intervalli non regolari come a rappresentare qualcosa che sai che c’è ma non sai quando può manifestarsi. 

Sono azioni di disturbo, sono squarci che si svelano nel Reale e che servono a rendere eccezionale la banalità dell’esistenza umana. E sono già tutti racchiusi meravigliosamente in questa opera prima. E poi il racconto – ma anche questo non è un elemento desueto nel cinema del taiwanese – è capace di stupire con alcuni gesti che contraddicano la natura di ogni personaggio. Insomma, lo Tsai Ming-liang che conosciamo è già tutto qui, a dirci che il mondo è illuminato dai neon, che i fantasmi molto probabilmente esistono e che gli schermi sono forse le uniche cose in grado di dare un senso alle nostre misere esistenze: l’importante è saper sempre distinguere quelli nocivi da quelli benefici.

 

 

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