giovedì 22 novembre 2018

The Bootleggers feat. Nick Cave - Burnin' Hell


Purma Special (1937)




La Purma Special é una fotocamera nata nel lontano 1937 in Inghilterra, il suo corpo é in leggerissima bakelite, utilizza la pellicola 127 ed é dotata di un obiettivo Beck Anastigmat da 2 1/4 di pollice ( circa  5,7 centimetri ) f6,3.
 E fin qui tutto fila via liscio, niente di speciale o niente che non abbia nessun altra fotocamera, ora parte il bello, il piano della pellicola non é piano ma é incurvato e per scegliere il tempo di scatto non c’é nessuna ghiera da girare, nessun pulsante da premere, nessuna leva da spostare, in base a come si impugna la fotocamera lei scatterà alla velocità che si desidera. Fotocamera tenuta in orizzontale scatto a 1/150 fotocamera ruotata verso sinistra scatto a 1/450 fotocamera ruotata verso destra scatto a 1/25. Come può essere possibile tale prodigio? semplice all' interno della macchina c’é come una specie di bilancino con un peso, l’otturatore collegato al bilancino in base alla rotazione della macchina e alla forza di gravita terrestre seleziona il tempo di scatto. 

Ma non si fa confusione nell' inquadratura ruotando la fotocamera? No perché la Purma Special produce immagini quadrate 3cm x 3cm, quindi come la giri la giri l’inquadratura non cambia. 
Usare una Purma Special non é affatto difficile, anzi si dimostra molto semplice a rapida nel uso, l’obiettivo é fisso e per quello che ho potuto constatare é tutto a fuoco da circa 1,5 metri fino al infinito, una punta e spara degna delle più moderne. 
Una delle più grosse pecche delle fotocamere cheap a fuoco fisso sta nella caduta di qualità a bordo immagine, perché quando l’obiettivo é composto da una lente sola e per di più una lente convessa é inevitabile che la dove la lente piega si ha una perdita di qualità, ebbene la Purma Special che ha il piano della pellicola incurvato attenua di molto se non elimina quasi del tutto questo fastidioso difetto.
Perché comprare oggi una Purma Special?
 Perché ha l’otturatore che funziona a gravita e se si pensa che l’hanno costruita nel 1937 é una roba da fantascienza.

giovedì 15 novembre 2018

Colter Wall - Songs Of The Plains




"Il nuovo disco è, per riassumere, una lettera d'amore a casa mia. Da dove vengo, riguarda il Nord-Ovest e le pianure, le cose che facciamo lassù e il tipo di persone che siamo "


E’ strano dover associare al viso del ventitreenne Colter Wall quella voce polverosa e baritonale, che non solo ha incantato critica e pubblico, ma ha spinto il collega Steve Earle a battezzare il collega come il miglior cantante country degli ultimi vent’anni. Lo spirito da vecchio outlaw e la maturità dell’esordio del 2017 (preceduto da un mini) hanno colpito l’immaginazione degli appassionati del genere, soprattutto perché il giovane canadese, nel suo percorso di recupero della tradizione country, ha scelto la strada più difficile e impervia delle tante possibili: arrangiamenti essenziali, nessuna contaminazione, enorme rilievo dei testi, alta qualità strumentale ma sempre all’insegna della discrezione.



Rinnovato il sodalizio con Dave Cobb alla produzione, Colter Wall lascia scorrere le canzoni di “Songs Of The Plains” come se fossero parte di una conversazione tra vecchi amici, la voce è la vera protagonista di storie che sanno di malinconica quotidianità, mentre una chitarra acustica (Dave Coob), una pedal steel (Lloyd Green) e un’armonica (Mickey Raphael) creano un’atmosfera struggente, raramente violata da basso (Jason Simpson) e batteria (Chris Powell).
Waylon Jennings, Hoyt Axton, George Jones e Johnny Cash restano i riferimenti principali, ma non sono gli unici: “Songs Of The Plains” è un affresco naif ricco di citazioni di vecchie ballate western, che formano un substrato musicale perfetto per storie che profumano di terra, di tradizioni e eroi immaginari.

Ancora una volta Colter Wall mette insieme un album compatto e ispirato, con un paio di canzoni destinate a diventare dei piccoli classici dell’autore (“Saskatchewan In 1881” e “Manitoba Man”), alcune trovate armoniche che tengono alta la tensione poetica (“The Trains Are Gone”), e una prestazione vocale che cattura tutto il fascino ancestrale del canto solitario dei vecchi pionieri (“Night Herding Song”). 


Sanno di rodeo e fuochi solitari i due brani catturati dal repertorio tradizionale dei vecchi cowboy (rispettivamente “Tying Knots In The Devil’s Tail” e “Night Herding Song”), mentre le due cover (“Wild Dogs” di Billy Don Burns e “Calgary Round-Up” di Wilf Carter) indugiano sui toni da outlaw tanto cari a Colter, al punto da confondersi con il repertorio originale.

A tanto candore corrisponde ancora una volta la bellezza e la poesia della miglior musica country, ma è d’obbligo anche sottolineare che “Songs Of The Plains” non è un disco facile: tanta onestà e sincerità, per arrivare al cuore e all’anima, utilizzano toni a volte uggiosi, solitari, e in un mondo ricco di cinismo e mediocrità, la purezza spesso può essere confusa con l’inconsistenza.
Con il nuovo album Colter Wall si conferma come una delle voci più interessanti della nuova musica americana. 


Charlie Parr - "Peaceful Valley"


martedì 13 novembre 2018

Morphine - Good (1992)



"La mia più grande paura è che, se ti lascio andare, tu mi raggiungerai nei miei sogni"

Immagina di sentirti irresistibilmente attratto dall’aspetto tetro e fatiscente dell’edificio. Ti sorprendi a fissare inebetito l’insegna equivoca e scrostata. Da lì a scendere incauto fino al seminterrato attraverso un corto budello di gradini screziati dagli umori che la notte piovosa ha rappreso sotto le suole, il passo è breve. Ad accoglierti è un salone in penombra col bar a ferro di cavallo schiacciato contro la parete, il soffitto così basso che non vedi l’ora di metterti seduto; l’aria è sapida e corrotta, le volute di fumo incorniciano volti non certo familiari: facce da tagliagola, vecchie checche in pensione e veterane della fica. - Dopotutto l’inferno non è poi così lontano visto da quaggiù – pensi, e fai un cenno all’uomo dietro il bancone che sta venendo verso di te per dirgli che è tutto a posto, che ti sei sbagliato e che ora te ne vai, dopo avergli strofinato il palmo della mano con una salvietta da cinque, per il disturbo. In quell’istante, però, lo sfarfallio di un faretto ravviva un angolo di tenebra, un podio per orchestra compare dal nulla, sopra tre figuri dall’aria losca, fasciati d’ombra, imbracciano i rispettivi strumenti e si osservano la punta delle scarpe nell’ attesa di cominciare. Sì, lo sai che non sono là per suonare My funny Valentine, eppure mica ce la fai ad alzarti, è come se qualcuno ti avesse annodato le stringhe alle zampe dello sgabello. La terra ti frana sotto i piedi ed il sogno comincia…“Buonanotte, signore e signori, noi siamo i Morphine”.


C’è un basso a due corde e un sax tenore, due strumenti che non potrebbero mai accordarsi perfettamente tra loro, sarà per questo che il suono che n’esce è vitreo, irregolare, profondo come l’eco che rimbalza nel ventre d’una giara; c’è una batteria recintata di timpani e tom che continua a plasmare figure mobili e concentriche. “You’re good, good, good / you’re good…”, l’epiteto si ripercuote dagli angoli fino al centro dello stanzone semideserto.