mercoledì 29 marzo 2017
domenica 26 marzo 2017
Hurry For The Riff Raff - The Navigator
Alynda Segarra, ormai da anni forza trainante degli Hurray For The Riff Raff, sa come si raccontano storie di donne che lottano. Piccole storie che popolavano già “Hurray For The Riff Raff” qualche tempo fa e che sono tornate protagoniste in “Look Out Mama” e soprattutto in “Small Town Heroes” del 2014, album capace di portare il folk blues latino a un altro livello di qualità e successo. Tre anni dopo molto è cambiato per Segarra e la sua band: finito il sodalizio artistico con Yosi Perlstein, Alynda si è circondata di nuovi collaboratori e alla soglia dei trent’anni ha deciso di guardarsi alle spalle. Di recuperare l’eredità portoricana, che da ragazza aveva voluto dimenticare.
Il Portorico di Alynda Segarra è quello assaporato crescendo nel South Bronx, conosciuto attraverso i racconti della zia e dei parenti prima di scappare a diciassette anni e viaggiare on the road per tutta l’America salendo di nascosto sui treni merci. Avventure che racconta in “The Navigator” nascondendosi dietro un alter ego queer (Navita Milagros Negron). Un concept album orgogliosamente militante che prende elementi del son cubano e della salsa portoricana e li contamina con folk e blues, rock e gospel. Che parte dalle strade di New York evocate in “Living In The City” e arriva sulle sponde di una immaginaria “Rican Beach” che di turistico o rassicurante ha ben poco. Un posto dove si innalzano muri, si rafforzano confini e i poeti muoiono in silenzio.
lunedì 20 marzo 2017
Hurray For The Riff Raff - "Hungry Ghost"
I’ve been nobody’s child
I’ve been nobody’s child
So my blood started running wild
I’ve been a hungry ghost
I’ve been a hungry ghost
And I’ve traveled from coast to coast
When will you
When will you help me out
You can’t even pick me out of the crowd
Oh and I
I don’t need you anymore
So then why am I standing at your door
I’ve been a lonely girl
I’ve been a lonely girl
But I’m ready for the world
Oh I’m ready for the world
I’ve been nobody’s child
So my blood started running wild
I’ve been a hungry ghost
I’ve been a hungry ghost
And I’ve traveled from coast to coast
When will you
When will you help me out
You can’t even pick me out of the crowd
Oh and I
I don’t need you anymore
So then why am I standing at your door
I’ve been a lonely girl
I’ve been a lonely girl
But I’m ready for the world
Oh I’m ready for the world
Un pasto caldo e un buco per la notte - Tom Kromer
"Se ti
piace, se ami la persona con cui stai sotto il ponte, anche il ponte non è
male. Anche la vigilia di Natale non è male".
Scritto nel
1933, il libro è originato da un’esperienza di vita dell’autore che nel 1929,
dopo aver lasciato l’università, si mette a vagabondare per cinque anni,
vivendo per strada e viaggiando sui treni merci. Questo suo unico romanzo è da
molti considerato, per lo stile e il genere di umanità che lo popola,
l’antesignano di quella linea narrativa americana che giunge fino ad autori
come John Fante e Charles Bukowski.
Tom è un vagabondo in cerca di un buco per dormire e di qualcosa da mettere sotto i denti nell’America della Grande Depressione. Una vita in fuga perenne, ridotta al minimo, e senza speranza.
Tom è un vagabondo in cerca di un buco per dormire e di qualcosa da mettere sotto i denti nell’America della Grande Depressione. Una vita in fuga perenne, ridotta al minimo, e senza speranza.
“L’idea era quella di andarci in
autostop, ma dopo una giornata intera senza un passaggio, un treno merci si è
fermato vicino alla strada: mi sono arrampicato su un vagone. Da allora ho
lasciato perdere l’autostop: i miei interessi hanno sempre coinciso con quelli
delle compagnie ferroviarie – di solito, mi portavano dove volevo, che poi non
era mai nulla di più definito di “Est” o “Ovest”.
Il bianco e nero è
quello delle fotografie di Walker Evans, l’accento stridulo è lo stesso delle
tempeste di parole di Woody Guthrie, gli umani soggetti sono sempre quelli dei
reportage di James Agee: i volti scavati, gli abiti sdruciti, le scarpe
sfondate, gli occhi che chiedono perché senza mai ottenere risposta. Qualcosa
di feroce, invisibile e malefico nascosto nella crisi economica (allora come oggi)
ha spazzato le loro vite, lasciandoli nella miseria attoniti, disperati,
abbandonati e, più di tutto, soli.
“Questo Karl è uno scrittore. Ha sempre fame:
non ce la fai a riempirti con un dollaro la settimana; e non è certo colpa sua
se è sempre affamato. Il fatto è che nessuno gli compra la roba che scrive.
Scrive di bambini che muoiono di fame, di gente che ciondola per le strade in
cerca di lavoro. Ai lettori questa roba non piace. Perché nei racconti di Karl
li puoi udire, i pianti dei bambini affamati. E puoi vedere l’espressione
affamata negli occhi degli uomini. E così Karl avrà sempre fame. E continuerà a
descrivere le cose in modo che le puoi vedere mentre le leggi”
“Non mi passava per la testa di
pubblicare Waiting for Nothing, e così l’ho scritto come veniva, usando la
parlata dei vagabondi, anche se non è la parlata più bella del mondo. Parti del
libro sono state scarabocchiate su carta da sigarette Bull Durham nei vagoni
dei treni, sul margine di opuscoli religiosi in centinaia di missioni,
guardine, una prigione, capannoni delle ferrovie, dormitori e, in alcune
memorabili occasioni, le ho tirate fuori usando i miei due indici e una
macchina da scrivere vera e propria”
sabato 18 marzo 2017
Derek Walcott, poeta dei versi meticci
Derek Walcott
era il poeta dei confini, dei versi meticci. Diceva di stare “tra la Grecia e
il pantheon africano”. Derek Walcott è morto all’età di 87 anni nella sua
abitazione sull’isola caraibica di Santa Lucia, dove era nato il 23 gennaio
1930, nella città di Castries. Era cresciuto in quella piccola isola vulcanica,
sentendosi sempre un essere di frontiera, un meticcio dagli occhi verdi, “né
abbastanza nero, né abbastanza povero”.
Il suo destino sembra scritto nella storia dell’isola e della sua famiglia. Quando era bambino la madre Alix declamava Shakespeare dentro casa. Del padre invece, che aveva perso quando aveva un anno, gli era rimasta una biblioteca, ricca di libri di poesia. È lì che aveva scoperto Walt Whitman, la leggera musicalità delle Foglie d’erba. Iniziò presto, seguendo un istinto infantile a scrivere versi. Una poesia al giorno. Cercava di imitare lo stile dei grandi, Whitman, Milton, Auden. E poi, più tardi, Dante, Joyce, Eliot. Si esercitava attraverso l’imitazione, come farebbe un pittore di bottega. La sua poesia nasceva da questo impulsivo e paziente artigianato.
Così quando poi era andato a insegnare a Boston, ai suoi allievi aveva cercato
di spiegare una cosa spesso sottovalutata, che nella poesia la tecnica è
fondamentale: “Bisogna imparare il mestiere, maneggiare gli schemi. Bisogna
esercitarsi misurandosi con gli schemi degli elisabettiani e di Milton, con
l’esuberanza di Omero e l’esattezza di Pope”. Per lui i modelli erano stati i
grandi poeti della tradizione occidentale. Tra le sue opere più importanti c’è Omeros
(scritta nel 1990 e in Italia pubblicata da Adelphi) in cui Walcott fa
rivivere la forma del poema epico contaminandola con le storie caraibiche
dell’isola di Santa Lucia. Non risparmiando il passato coloniale. Santa Lucia
era stata una colonia britannica e questo aspetto influenzò la vita e il lavoro
di Walcott.
Eppure, nonostante fosse la lingua coloniale, scelse di scrivere in inglese. Un inglese limpido, elegante. Ma la scelta non voleva dire sudditanza, semmai rimarcava la sua estraneità a qualsiasi appartenenza. “Sono nessuno” diceva. La sua era una storia di schiavi deportati dall’Africa, dolorosamente impastata di identità multiple, frammentate. E non tornò indietro dalla scelta di scrivere in inglese, neanche quando negli anni Settanta il movimento nero Black Power provò a criticarlo. Walcott rispose a modo suo, con un verso: “Non ho altra nazione che l’immaginazione”.
Eppure, nonostante fosse la lingua coloniale, scelse di scrivere in inglese. Un inglese limpido, elegante. Ma la scelta non voleva dire sudditanza, semmai rimarcava la sua estraneità a qualsiasi appartenenza. “Sono nessuno” diceva. La sua era una storia di schiavi deportati dall’Africa, dolorosamente impastata di identità multiple, frammentate. E non tornò indietro dalla scelta di scrivere in inglese, neanche quando negli anni Settanta il movimento nero Black Power provò a criticarlo. Walcott rispose a modo suo, con un verso: “Non ho altra nazione che l’immaginazione”.
Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell'altro
e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d'amore,
le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.
Mezza estate, Tobago
Larghe spiagge lastricate dal sole.
Calore bianco.
Una fiumana verde.
Un ponte,
gialle palme bruciacchiate
giù dalla casa in letargo estivo
appisolata per tutto l’agosto.
Giorni che ho stretto,
giorni che ho perduto,
giorni che sono troppo grandi, ormai, come figlie,
per rifugiarsi nel porto delle mie braccia.
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