mercoledì 29 marzo 2017

L'inverno del nostro scontento - John Steinbeck






 “Vivere vuol dire portare una cicatrice” ed Ethan Allen Hawley convive con il fantasma del fallimento dei suoi avi. Una baleniera bruciata nel porto della città proprio mentre il petrolio andava soppiantando, come combustibile, l'olio animale. Era un secolo prima, all'alba del 1960 l'idea di “progresso” passa per le infrastrutture e per la pubblicità.


Restare fermi o invisibili significa naufragare ancora una volta ed Ethan Allen Hawley soffre la sua condizione di nobile decaduto lavorando nel drugstore di Alfio Marullo, immigrato, arricchito, più sopportato che gradito.

I collegamenti di un'intera cittadina, New Baytown, passano da lì e attraverso quelle connessioni filtrano sotterfugi, ricatti, omissioni che seguono l'obliquità di un piano inclinato, pesando di volta in volta su un piatto o sull'altro di una sghemba bilancia.

 John Steinbeck incastona i personaggi, ogni singola odissea personale, in un mosaico raffinatissimo e perverso e, uno dopo l'altro, ribalta le connotazioni, le possibili valutazioni etiche, sue e del lettore, lasciando aperto il sipario su un dramma infinito.

 

L'inverno del nostro scontento resta spiazzante anche a distanza di mezzo secolo perché svelando per gradi, i piani di Ethan Allen Hawley svela un oceano increspato dalle tempeste, dalla natura fallace del trionfo, dall'ineluttabilità del fallimento.

Diventa invece impossibile distinguere tra giusto e sbagliato, che rimangono separati da una linea molto sottile e impercettibile, così come è difficile separare le cause dell'ambizione dai suoi effetti.

 

C'è un controllo negli uomini, una cosa che li fermi o li castighi? L'unico castigo è per chi fallisce. In effetti nessun delitto è davvero commesso finché non si prende il delinquente. L'inverno del nostro scontento svela così la sua dimensione shakespeariana, che diventa palpabile nelle battute finali dove Steinbeck chiarisce che “non è vero che esista una comunità di luci, un falò del mondo. Ognuno porta la sua, la sua luce solitaria”.

 

 


“Addio è breve e finale, una parola dai denti aguzzi che morde la corda che lega il passato al futuro.”

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