L'inverno del nostro scontento - John Steinbeck
“Vivere vuol
dire portare una cicatrice” ed Ethan Allen Hawley convive con il fantasma del
fallimento dei suoi avi. Una baleniera bruciata nel porto della città proprio
mentre il petrolio andava soppiantando, come combustibile, l'olio animale. Era
un secolo prima, all'alba del 1960 l'idea di “progresso” passa per le
infrastrutture e per la pubblicità.
Restare fermi o invisibili significa naufragare ancora
una volta ed Ethan Allen Hawley soffre la sua condizione di nobile decaduto
lavorando nel drugstore di Alfio Marullo, immigrato, arricchito, più sopportato
che gradito.
I collegamenti di un'intera cittadina, New Baytown,
passano da lì e attraverso quelle connessioni filtrano sotterfugi, ricatti,
omissioni che seguono l'obliquità di un piano inclinato, pesando di volta in
volta su un piatto o sull'altro di una sghemba bilancia.
John Steinbeck
incastona i personaggi, ogni singola odissea personale, in un mosaico
raffinatissimo e perverso e, uno dopo l'altro, ribalta le connotazioni, le
possibili valutazioni etiche, sue e del lettore, lasciando aperto il sipario su
un dramma infinito.
L'inverno del nostro scontento resta spiazzante anche a distanza di mezzo secolo
perché svelando per gradi, i piani di Ethan Allen Hawley svela un oceano
increspato dalle tempeste, dalla natura fallace del trionfo, dall'ineluttabilità
del fallimento.
Diventa invece impossibile distinguere tra giusto e
sbagliato, che rimangono separati da una linea molto sottile e impercettibile,
così come è difficile separare le cause dell'ambizione dai suoi effetti.
C'è un controllo negli uomini, una cosa che li fermi o
li castighi? L'unico castigo è per chi fallisce. In effetti nessun delitto è
davvero commesso finché non si prende il delinquente. L'inverno del nostro
scontento svela così la sua dimensione shakespeariana, che diventa
palpabile nelle battute finali dove Steinbeck chiarisce che “non è vero che
esista una comunità di luci, un falò del mondo. Ognuno porta la sua, la sua
luce solitaria”.
“Addio
è breve
e finale, una parola
dai denti
aguzzi che morde la corda
che lega il passato
al futuro.”
Nessun commento:
Posta un commento