The singer not the song si diceva
un tempo. Oppure no: è esattamente il contrario. Fate vostro l'adagio che
preferite, tanto pare che Chris
Stapleton possieda entrambe le carte vincenti. Una cosa è certa, il suo
esordio Traveller è la
smentita più clamorosa per quelli che hanno sempre pensato che in fondo a
Nashville i talenti più che farli sbocciare, li rovinino a suon di smancerie.
Il fatto è che qui dobbiamo tornare a un'altra Nashville, a quella dei ribelli
e dei fuorilegge che all'alba dei Settanta riusciva a mediare fra industria e
ispirazione, fra gesto artistico e immaginario americano. Stapleton è proprio
il compromesso giusto per mettere d'accordo conservatori e progressisti della
country music.
Fuori dalle coincidenze e dai paragoni, Chris Stapleton possiede poi un suo gesto, del tutto personale: è persino impossibile definire questo debutto come un album di country ortodosso. Qui semmai cadiamo nel campo del canone sudista, una musica tra radici bianche e nere imbevuta di southern soul e country rock da banditi, di umori gospel e ballate da bivacco, dove la voce, non è affatto una nota a piè di pagina.
Lo si intuisce già nella title track che fa da
apripista, un dolce sobbalzare tra steel guitar e grandi spazi americani che
rivive l'ennesimo viaggio sulla strada, in duetto con la moglie Morgane. È lei,
si dice, ad avere spinto Chris verso le sue radici musicali, un viaggio
dall'Arizona al Tennessee per esorcizzare la morte del padre e riprendersi la
sua vita.
Dopo anni in cui Stapleton ha scritto hit milionarie per Kenny
Chesney, George Strait e Darius Rucker, per nostra grazia i soldi delle
royalties li ha spesi per registrare nei leggendari studi della RCA,
garantendosi Robby Turner (Waylon Jennings band) alla pedal steel e Mickey Raphael (Willie Nelson)
all'armonica.
Il debutto di Stapleton
è notevole, forse il migliore disco country degli ultimi anni.
Nessun commento:
Posta un commento