sabato 27 febbraio 2016
mercoledì 24 febbraio 2016
Bruce Davidson
Fotografo statunitense (Oak Park, Illinois, 1933). Ha
iniziato ad occuparsi di fotografia all'età di dieci anni a Oak Park, e
successivamente durante gli studi al Rochester Institute of Technology e
l'Università di Yale ha continuato ad approfondire la conoscenza della
fotografia e a sviluppare questa sua passione.
Dal 1958 ha lavorato come fotografo Freelance per la rivista Life e nel 1959 è diventato membro di Magnum Photos.
Dal 1958 ha lavorato come fotografo Freelance per la rivista Life e nel 1959 è diventato membro di Magnum Photos.
Il suo
lavoro si è soprattutto rivolto alla realtà metropolitana di New York, il
materiale verrà pubblicato nel libro Subway(1980)
dal quale sarà realizzata una mostra all'International Center for Photography
nel 1982, e ai temi sociali ponendosi testimone del terribile degrado sociale
di un quartiere di Est Harlem realizzando un reportage esposto poi
presso il Museo d'Arte Moderna di New York.
I suoi lavori fotografici sono stati pubblicati in diverse monografie e sono incluse in molte delle maggiori collezioni d'arte di tutto il mondo.
I suoi lavori fotografici sono stati pubblicati in diverse monografie e sono incluse in molte delle maggiori collezioni d'arte di tutto il mondo.
lunedì 22 febbraio 2016
domenica 21 febbraio 2016
Old No. 1 - Guy Clark
“Se mai
la musica di Guy Clark ha avuto un tema, è il Texas. Non quello delle mandrie
in viaggio o delle sparatorie, ma un Texas i cui abitanti lavorano duro e
bevono birra Lone Star a casse mentre discutono di quale sia il chilli più
piccante, quale la donna più dolce”: così l’estensore della scheda dedicata
a questo LP nella Mojo Collection. Più succinto e persino più efficace
quell’altro grandissimo cantastorie di Jerry Jeff Walker nella dedica che
campeggia sul retro della confezione di “Old No. 1”: “Guy scrive di uomini
anziani e treni vetusti e ricordi come fossero film in bianco e nero”. I quarantuno
anni trascorsi dacché il 33 giri raggiunse i negozi nulla gli hanno tolto e
forse niente aggiunto, siccome da subito dovette apparire un classico fuori dal
tempo.
Immediatamente “vecchio”, quindi destinato a
restare per sempre giovane. Si è semmai allungata a dismisura la lista degli
ammiratori, che erano parecchi e illustri allora, dal succitato Walker che già
aveva coverizzato un terzo della scaletta dell’album a Johnny Cash, che in
quello stesso 1975 fece un hit di Texas 1947, da Rodney Crowell ed
Emmylou Harris, a Steve Earle. Di quattordici anni più giovane del
trentaquattrenne Clark, quest’ultimo ne impiegherà ulteriori undici per
debuttare in proprio.
Innumerevoli
i tributi da allora e dall’intero arco del parlamentino country, da una
Nashville che dopo tanta diffidenza ha finito per adottare incondizionatamente
questo artista schivo per quanto è schietto a una folla di più o meno giovani
leoni. In tal senso onnipresente, Guy Clark continua dal suo canto a pubblicare
con la consueta parsimonia (dieci appena gli LP in studio più un live in tre
decenni) e ogni tanto vede un suo brano arrampicarsi nelle classifiche,
chiaramente in una versione altrui visto che in prima persona il successo vero
lui non l’ha mai conosciuto: quel che si dice una figura “di culto”. Ma più che
altro fabbrica chitarre, come già faceva nei tardi ’60 in una California mai
granché amata se fa fede un’agra L.A. Freeway.
Il percorso
che lo portò a “Old No. 1”: un piccolo romanzo come le canzoni di uno che,
significativamente, non viene chiamato dagli estimatori songwriter bensì
songbuilder. Cresce nella più profonda provincia texana, a Monahans, in
un vecchio albergo di proprietà della nonna, si compra la prima chitarra a
sedici anni con i risparmi messi da parte lavorando da carpentiere durante le
vacanze ed è un amico del padre a insegnargli i rudimenti dello strumento,
facendogli fare pratica con una manciata di tradizionali messicani. A Houston
qualche tempo dopo saranno nientemeno che Mance Lipscomb e Lightnin’ Hopkins a
spiegargli cosa sia il blues, ove lui di suo si immerge in un repertorio di
ballate inglese e irlandesi. Quel modo di raccontare storie trasparirà evidente
dai primi pezzi che scrive e canta di notte nei caffè, mentre di giorno fa di
tutto per campare, dal liutaio al direttore artistico di un’emittente
televisiva. Sarà la moglie Susanna, cantautrice anch’ella e pittrice, a
persuaderlo nel 1971 a cercare fortuna a Nashville. Ne troverà poca e ci
metterà un po’.
Si avverte
appieno, in questa pietra miliare, l’esperienza di un uomo che ha già vissuto
molto e sa raccontartelo con una capacità di rendere i sentimenti con una
vividezza pittorica unica. È ciò che rende indimenticabili canzoni musicalmente deliziose, con ritornelli corali
che ti paralizzano tanto sono istantanei e un odore di polvere da campagna
riarsa che si leva dagli intarsi di dobro e dallo scivolare di una pedal steel,
nel frattempo che un violino dichiara che sono qui la festa e il dolore
quotidiano che chiamiamo vita. Poche figure femminili nella storia della
canzone d’autore americana permangono nella memoria come la “honky tonkin’ Rita
Ballou” della canzone omonima (forse una dirimpettaia della Loretta
dell’amico Townes Van Zandt) o la prostituta in lacrime al funerale di un uomo
altrimenti dimenticato da tutti alla fine di Let Him Roll. E chi ha mai
reso l’amarezza che lascia la mattina dopo un simulacro d’amore raccolto in un
bar come Clark in Instant Coffee Blues? Chi la bellezza di un’amicizia
fra generazioni lontane come in Desperados Waiting For The Train?
giovedì 18 febbraio 2016
Quel maledetto petrolio di Palermo
Non è solo il traffico il problema di Palermo, ma anche l’amore. Soprattutto l’amore. “Qui la gente non si ama più, i fratelli odiano i fratelli, le mogli scappano con quelli che arrivano da fuori… gli animi si sono induriti, gli sguardi sono schivi e sospettosi, si sentono anche colpi di pistola nella notte” dice il ragazzo fissando un boccale di birra sul bancone, la voce impastata dalla fatica bestiale della giornata trascorsa a scavare buchi nel fango; si passa le dita della mano sinistra tra i capelli biondo pallido e con la destra aggiusta il revolver con l’impugnatura in avorio e argento sotto l’incerata, per stare più comodo sullo sgabello, in previsione delle ore e delle birre che seguiranno, qui al Bar&Grill, unico bar di Palermo, Nord Dakota. Il ragazzo guarda poi fuori dalla finestra offuscata dalla polvere, verso la spianata in terra battuta dove si trova la chiesetta luterana di legno bianca, detta l’angelo della prateria: “Ecco, a Palermo non c’è più Dio, questo è diventato un posto maledetto”.
È la maledizione del petrolio. Perché questa regione nord orientale del Nord Dakota, al confine con il Canada, galleggia sul più grande bacino petrolifero del mondo, la Bakken formation: un milione di barili succhiati ogni giorno che entro tre anni saranno già tre milioni: praticamente un nuovo Texas, o un nuovo spietato elettrizzante Klondike; vite stravolte dalla ricchezza raggiunta e vite devastate dalla ricchezza mancata, quasi sempre per un pelo. Terre relegate alla periferia della modernità americana, in the middle of nowhere, sinonimo di un nulla inutile e anacronistico: qui fino a cinque anni fa l’unica esportazione erano i giovani che fuggivano da una landa crudele sferzata da venti artici, abitata solamente da una piccola comunità di caparbi e spartani contadini d’origine scandinava e da qualche centinaio d’indiani alcolizzati. Strade deserte, trattori arrugginiti ai margini dei villaggi, fattorie pencolanti e silos vuoti, ecco la Mountrail County, una delle contee più miserabili del Paese divenuta, nel giro di un lustro, la terza più ricca d’America. E Palermo, che nell’ultimo censimento del 2010 contava 74 anime e un reddito medio di 25 mila dollari a famiglia, ora registra 500 abitanti e – secondo una stima dell’American Bank Center di Stanley, capoluogo della contea – un reddito medio pro capite di 150 mila dollari. “Dicono che qui a Palermo ci sono almeno trenta milionari” dice Malle, 21 anni, cowgirl venuta dal vicino Montana per servire ai tavoli per 17 dollari l’ora (una cassiera da Sax Fifth Avenue a New York, per dire, ne guadagna nemmeno dieci): “Sai mica quanti sono i milionari nella vostra Palermo?” chiede Malle.
L’emirato del Nord Dakota
Si chiama shale
revolution. Se era noto che oltre le rocce scistose a due, tre chilometri
sotto la prateria c’era un mare di petrolio è però solo grazie alla tecnologia
che ora questo Far West si sta trasformando in una specie di emirato
nordamericano. Gas e petrolio, come accade altrove negli Stati Uniti, vengono
liberati con la frantumazione idraulica, il cosiddetto e controverso fracking,
pratica di trivellazione con cui si sparano in profondità enormi quantità
d’acqua, sabbie ceramizzate e cocktail segreti di sostanze chimiche anche
letali; ma solo qui in Nord Dakota sono andati oltre: dopo la perforazione
verticale, si procede con quella orizzontale anche per altri tre chilometri,
finché non si pesca il petrolio. Praticamente è impossibile fallire. Se gli
Stati Uniti sono avviati verso l’autosufficienza energetica, anzi, se dallo scorso
agosto hanno cominciato addirittura ad esportare petrolio raffinato dopo
quarant’anni, è perché sotto Palermo e dintorni c’è un bendidio
stimato di almeno 500 miliardi di barili estraibili grazie al fracking: secondo
gli studi della McKinsey, il Nord Dakota potrebbe trasformare l’America nel
primo produttore mondiale, davanti a Russia e Arabia Saudita.
Miracolo nella prateria
Palermo doveva
morire. Nel Duemila il New York Times la citava in prima pagina come
esempio dell’agonia dei piccoli centri della Grande Prateria, mentre il resto
del Paese viveva il suo ultimo boom: “A due passi dalla ferrovia che ha
alimentato il mito della frontiera” si leggeva “la scuola, il municipio, i
silos, la banca, il ferramenta, l’alimentari degli anni Trenta e il supermercato
degli anni Ottanta sono frequentati unicamente dai corvi… solo il bar e la
chiesa tengono duro, assieme a qualche fattoria di contadini che sono troppo
vecchi o troppo poveri o troppo orgogliosi per partire”. Ora l’incrocio tra
Broadway Street ed Elton Avenue, dove si trova il Bar&Grill, è così
trafficato che stanno per piazzarvi addirittura un semaforo (l’ultimo
intervento urbano era stato nel 2001 un’insegna all’imbocco del paese, per
l’elezione di miss Nord Dakota, Michelle Guthmiller, nativa di Palermo).
“Raccontano che qui sentivi il latrato del coyote a dieci miglia” dice l’ex
cowgirl “il silenzio della prateria era come una coperta calda”. Ora bisogna
parlare a voce alta per contrastare il rumore della lunga, interminabile,
teoria di mezzi pesanti, tir e semiarticolati, pick up, trailers là fuori.
Prima che un pozzo diventi operativo servono duemila camion d’acqua, sabbia,
materiale di scarto; e i pozzi in attività sono già trentamila. “Questa è la
nuova febbre dell’oro”dice Bob, 32 anni, arrivato dall’Arkansas: “Un torrente
di adrenalina, come in California ai primi dell’Ottocento durante la Gold
Rush”.
Miracolo nella prateria
Uomini, solo uomini. Ne sono arrivati oltre centocinquantamila, da ogni parte del Paese, in uno Stato di seicentomila abitanti. Spesso con lo zaino in spalla e pochi dollari in tasca, in modo romanzesco e hollywoodiano, come accade quando si fa la Storia qui nel West. Arrivano a frotte, ogni giorno, in fuga dalla recessione, dagli ufficiali giudiziari, per pagare gli alimenti alla moglie o il college ai figli. O per rimettere sui binari in extremis una vita deragliata. Bob racconta che lui di mestiere controlla che non ci sia acqua di scarto nel petrolio, “un lavoro” dice “che potrebbe fare un asino, ma ci guadagno oltre centomila dollari l’anno”. Un camionista, anche neopatentato, in un anno fa intorno i centocinquantamila dollari. Allen, tecnico petrolifero arrivato addirittura da Dallas, la capitale del petrolio, dopo qualche birra al bancone ha voglia di sfogarsi: “Mia moglie a casa non ha idea dei sacrifici che faccio per darle una vita da gran signora… una macchina nuova ogni sei mesi… Lei non sa che è come essere in guerra, o in prigione. Per guadagnare quel che prendo qui in tre anni, circa due milioni di dollari, in Texas mi ci vogliono vent’anni”. Vivono nei men camps, accampamenti gestiti dalle stesse compagnie, come la Terget Logistics, che hanno costruito le basi militari in Afghanistan. Oppure si acquartierano nei trailers o nelle roulotte. “L’affitto del terreno è mille dollari al mese” dice Joe che fa il tubista, 300 mila dollari l’anno: “Quando sono arrivato dall’Iowa non c’era neanche dove comprare il pane, per sfamarci dovevamo cacciare fagiani e tacchini selvatici”.Il testosterone offusca la vista
La disoccupazione nella contea di Mountrail è intorno all’uno per cento, tanto che mancano insegnanti, camerieri, infermieri: qualsiasi lavoro collegato ai pozzi paga tre volte tanto. Mancano le case, le compagnie petrolifere occupano qualsiasi fabbricato disponibile e se serve cacciano i vecchi dagli ospizi, come racconta il sindaco di Tjoga, Nathan Germansson, 34 anni, titolare del locale ferramenta: “Hanno acquistato l’immobile e hanno dato sessanta giorni per sgomberare la casa di riposo, non ho potuto fare niente, mi sento ancora male…” Ma quel che manca davvero, e disperatamente, sono le donne.“Tacchi e gonne qui sono più rari degli hamburger vegetariani’ dice Mike, 21 anni, camionista arrivato dalla Florida. Prostitute che non hanno mercato a Chicago, a Williston (15 mila abitanti nel 2010, oggi boomtown di circa 40 mila e avviata ai 100 mila entro dieci anni, centro logistico ed economico della regione petrolifera) mettono insieme anche mille dollari a sera. Christina, barista arrivata dal Colorado, racconta che una sera un ragazzo le ha offerto settemila dollari per andare a casa sua e assistere con lui, nuda, alla partita del Super Bowl. Il testosterone si taglia con il coltello, offusca la vista: le poche ragazze hanno paura di rallentare con l’auto agli incroci, nella vicina Stanley al calar del sole per loro scatta il coprifuoco.Siciliani alla conquista del West
Al Bar&Grill, a un certo punto intorno al bancone a ferro di cavallo si confrontano due teorie sulla nascita di Palermo, avvenuta nel 1901, durante la costruzione della Great Northern Railroad, la ferrovia che concludeva la conquista del West arrivando da Chicago e Minneapolis fino al Pacifico attraversando il Nord Dakota. C’è chi sostiene abbia preso il nome da una squadra di siciliani che si erano accampati qui durante i lavori e chi invece è certo che fu James Jerome Hill in persona, il tycoon del Midwest padrone della ferrovia, a rendere così un tributo a un misterioso palermitano di Chicago il quale fu tra quelli che lo sostennero finanziariamente in un momento di difficoltà con le banche. Per il resto nel locale c’è molta incertezza, anche sulla collocazione della Sicilia sul mappamondo. Difficile pure trovare un italoamericano tra questi roughnecks, come si chiamano i duri, spavaldi operai e tecnici dell’oil business. Eppure a un certo punto, quando e’ evidente che i due tizi al lato estremo del bancone – gli unici sussiegosi e selvatici, i soli a non offrire nemmeno un giro di birre – non intendono partecipare alla conversazione, l’anziano Randel Ostdahl, coltivatore di cereali, ma norvegese di buone letture, lo spiega alla palermitana: “Omertà” dice. “Quei due sono tra quelli che hanno fatto il botto con i diritti minerari, non parlano, sono terrorizzati dalla loro ricchezza”.La roulette delle concessioni
Una terra minata da odio, invidia, rancore, ecco cosa è diventata l’ingenua, rurale, miserabile Palermo. Per le leggi del Nord Dakota i proprietari del terreno, dove magari sorge anche l’abitazione, non sono gli stessi titolari del sottosuolo: si è sempre saputo dell’esistenza della formazione Bakken, negli ultimi 50 anni ci sono stati anche un paio di sporadici boom, ma si attendeva la soluzione tecnologica per far saltare il caveau sotterraneo: così molte società petrolifere e speculatori di altri Stati hanno fatto incetta di concessioni approfittando dei contadini ridotti alla canna del gas, famiglie costrette a vendere magari per comprare una nuova mungitrice. Solo un proprietario su cinque dei terreni dov’è estratto il petrolio ricevono gli assegni dalle multinazionali. “La vita è carogna” dice Marlene Gundrerson che lavora a una sorta di catasto a Stanley: “Io so chi riceve assegni mensili di centinaia di migliaia di dollari e chi niente, so di matrimoni che vanno in malora, di amicizie infrante, di fratelli che si sono sparati”. Accade che nella stessa famiglia uno abbia ereditato un terreno che vale una fortuna, si parla anche di 50, 80 milioni di dollari di royalties da incassare in vent’anni, e chi campi di pannocchie senza diritti minerari, oppure dotati di diritti minerari ma, scalogna suprema, collocati appena qualche metro fuori dal perimetro del bacino. La banca di Palermo in cinque anni ha aumentato il valore dei conti corrente di quasi il mille per cento. “Qui la gente non aveva mai chiuso a chiave la porta di casa e ora vendo molte serrature” dice il sindaco di Tjoga. “Gente che non aveva mai preso un giorno di vacanza improvvisamente parte per due mesi, vedo auto di lusso uscire dalle stalle…”La rivoluzione del luterano Lenin
Sul bancone si fa spazio Lenin Gunnarsson, 64 anni, dice che vive in un trailer, un prefabbricato con le ruote. Parla forte perché quei due omertosi sentano. Dice che lui è diventato un uomo ricco, che è un contadino in pensione e riceve assegni da 80 mila dolori al mese per i suoi diritti minerari. Tira fuori una lettera che gli scrisse suo padre 50 anni fa, un passaggio è segnato con l’evidenziatore giallo e dice “quando hai un paio di dollari in tasca non farlo mai intendere, siamo luterani non cattolici”. “Ma io me ne frego” fa Lenin “voglio dire che sono un uomo ricco e che non spendo nemmeno un dollaro di quello che incasso, il grano va tutto ai miei nipoti. Io vivo ancora con la mia pensione e con l’affitto dei campi”. Lenin infine ordina un giro e guarda tutti negli occhi: “Gente, volete sapere quello che penso? Vorrei non fosse mai accaduta questa disgrazia”.
Testo di Marzio G. Mian
Foto e video di Alessandro Cosmelli
martedì 16 febbraio 2016
Peter Sekaer
Peter Sekaer
(1901-50), è stato uno dei protagonisti dei progetti ideati dal Governo degli
Stati Uniti nell’epoca della Grande Depressione. Lavorò a fianco di Walker
Evans e fotografò il Sud del Paese negli anni dei reportage leggendari della
Farm Security Administration e a volte le immagini dei due autori sono
indistinguibili l’una dall’altra.
Con un accento danese e una personalità
accattivante, instaurò un rapporto speciale con i soggetti da lui fotografati.
Seaker era
inoltre pittore e unì sempre a tecnica e rigore formale un forte interesse per
i diritti civili e le cause sociali.
Ha colto i dettagli dell'epoca, restituiti
nei paesaggi e nei ritratti in bianco e nero, Nelle sue ripercorre la storia
americana degli anni '30-'40 attraverso le vicende umane immortalate
dall'obiettivo, l'America della grande depressione e i suoi volti.
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