domenica 22 dicembre 2013



Peter La Farge

 

Secondo fonti aneddotiche, discendeva da una tribù estinta di nativi americani che portava il nome della città di Narragansett. Fu cresciuto solo dalla madre Wanden LaFarge Kane in un ranch a Fountain, Colorado. Era figlio dello scrittore vincitore del Premio Pulitzer Oliver La Farge, un antropologo che vinse il premio letterario nel 1930 per il suo romanzo Laughing Boy.
La Farge condivise con il padre naturale un profondo amore ed un'alta considerazione etica per le tradizioni e la storia dei nativi americani. Quando era ancora adolescente lavorò come cowboy nei rodeo, alternando questa attività a quella di cantante

 
Come giovane musicista collaborò con Big Bill Broonzy, Josh White e Cisco Houston che divenne una sorta di suo tutore e consigliere, tanto nell'attività artistica quanto nelle vita.
Durante la guerra di Corea La farge servì nell'esercito USA e al termine del periodo di leva fece ritorno ai rodeo fino a quando non ebbe un grave incidente ad una gamba. Durante la convalescenza dall'infortunio studiò recitazione alla Goodman Theater School of Drama di Chicago.
Si trasferì quindi a New York City, città nella quale il suo interesse per la musica trovò forte impulso. Iniziò a farsi una fama come cantautore e folksinger al Greenwich Village, al tempo in cui esso era una fucina di grandi talenti come Bob Dylan, Ramblin' Jack Elliott, Dave Van Ronk e l'allora già più esperto Pete Seeger. Per breve tempo La Farge ebbe un contratto con la Columbia Records dopo di che i suoi spettacoli al Village indussero la Folkways Records, etichetta specializzata nel repertorio folk, a porlo sotto contratto.
I cinque album discografici incisi da La Farge per la Folkways fra il 1962 e il 1965 sono dedicati a temi concernenti i nativi americani. Sono canzoni a ritmo di blues, canzoni d'amore e canzoni della cultura dei cowboy.
Nel 1965, La Farge godeva già di buona fama nell'ambiente artistico newyorkese, sia come musicista che come pittore. Viveva con la cantante danese Inger Nielsen, dalla quale aveva avuto una figlia. In quel tempo però iniziarono per lui gravi problemi di salute e il 27 ottobre fu trovato morto nel suo appartamento per cause mai del tutto chiarite a soli 34 anni.



« Qualcuno un tempo mi disse: "Invidio il tuo cuore, ma non potrei stare con il tuo mal di testa". Adesso sono solo e pieno di solitario dolore. È quello che mi riconduce sempre a casa a scrivere. »

domenica 15 dicembre 2013





William Albert Allard


Maestro nello scattare immagini di qualità pittorica - dettagli sfumati, tavolozze ricche e composizioni elaborate - William Albert Allard è un artista a tutto campo.
Da 50 anni è un documentarista e fotografo tra i più stimati al mondo.
Da vero reportagista ha documentato il Medio Oriente e il Sud America, ma la sua vera passione rimane l’America rurale, quella spersa nei piccoli avamposti di provincia e costellata ancora di cowboys


Abile nel maneggiare le pistole e a cavalcare nelle praterie e raffinato osservatore.
Senza la macchina fotografica sarebbe diventato un musicista: chi l’ha sentito suonare giura che sia un genio anche con le note, oltre che con le immagini. 

Classe 1937, figlio di un immigrato svedese, è cresciuto e ha studiato nel Minnesota.
Di lauree ne ha prese due, una in giornalismo e una in fotografia.
Per il National Geographic, la più importante rivista di reportage del mondo, ha contributo con decine di servizi.
 Fino ai 20 anni ha sognato di fare lo scrittore, poi quel suo bisogno di raccontare lo ha tradotto in immagini, rilegando la scrittura a saggi sui nativi americani e lezioni sulla fotografia.



 



domenica 8 dicembre 2013


Karen Dalton

 E’stata una cantante e musicista statunitense, di origini cherokee, grande virtuosa della chitarra a 12 corde e del banjo.
A New York, nella vivacissima scena folk del Greenwich Village degli anni 60, Karen Dalton si legò a musicisti come Fred Neil e Bob Dylan, che di lei ebbe a dire: "La mia cantante preferita qui era Karen Dalton. Karen aveva una voce come quella di Billie Holiday e suonava la chitarra come Jimmy Reed.”. 

Dotata di una voce intensamente drammatica ma anche bruciata e triste che ricordava proprio quella di Billie Holiday, non conosceva confine tra folk, country e blues.
La sua vita fu da sempre minata da un vorace consumo di droghe e alcool
che la ridurrà alla povertà.
Poco si sa della sua fine, ma si racconta che abbia trascorso i suoi ultimi anni come una “hobo”, vivendo per strada, e che sulla strada sarebbe probabilmente anche morta, per le conseguenze dell’Aids contratta, se un suo vecchio amico, il grande chitarrista folk Peter Walker, non l’avesse raccolta e assistita nelle ultime settimane di vita.


Karen Dalton ci ha lasciato due soli album (“It's So Hard to Tell Who's Going to Love You te Best” del 1969 e “In My Own Time” del 1971).
Morirà nel 1993, ad appena 55 anni.


"A confronto di Karen Dalton, Janis Joplin sembrava Betty Boop" (Peter Stampfel)




domenica 1 dicembre 2013




Blind Blake And The Royal Victoria Hotel Calypsos  Bahamian Songs

 


Nato Alphonso Blake Higgs a Matthew Town, Inagaua, Bahamas nel 1915, Blind Blake – questo il nome d’arte con cui si farà presto strada – sarà l’attrazione principale del Royal Victoria Hotel di Nassau, Bahamas.
Qui si esibirà per un lungo trentennio, fronteggiando la band di casa. Impeccabili i musicisti dei quali si circondò, abili nell’arte della contaminazione tra jazz e ritmi dell’India occidentale.
Tra musica folk degli albori, calypso e jazz della prima parte del secolo, Blind Blake diviene presto un’istituzione locale, conquistando poi - tramite un forsennato passaparola – anche gli stati dell’America rurale.

Eroe di mondi sommersi conoscerà il suo momento di gloria anche grazie alle dedicate cover di Beach Boys e Johnny Cash.
Uno dei suoi brani più popolari è sicuramente Love, Love Alone, pezzo basato sulla liason tra King Edward VIII e Wallis Simpson.
Il materiale raccolto per l’occasione fa capo ad una serie di registrazioni realizzate agli albori degli anni ’50.


Nella Royal Victoria Hotel Calypsos – sua backing band – si segnalavano i talenti di Dudley Butter (chitarra, maracas), Chatfiled Ward (chitarra), Freddie Lewis (chitarra solista), George Wilson (bass fiddle) e Lou Adamas alla tromba.
E' ora di scaldare un pò questo inverno. Buon ascolto.







Jimmie Driftwood

 
James Corbitt Morris  noto con il nome d’arte Jimmie Driftwood (Contea di Stone 1907 - Fayetteville 1998), è stato un musicista e compositore statunitense.
È conosciuto per essere stato l'autore di due famose canzoni: "The Battle of New Orleans" (ispirata all’omonima battaglia del 1815) e "Tennessee Stud".
Ha imparato a suonare la chitarra acustica quando era ancora molto giovane, utilizzando gli strumenti appartenuti al nonno e ha iniziato a comporre quando era un insegnante, scrivendo canzoni per raccontare storie divertenti ai suoi studenti.





venerdì 29 novembre 2013


La macchina parlante

Thomas Edison collaudò la prima macchina “parlante” incidendo una filastrocca infantile “Mary aveva un agnellino”. Quello che era stato inciso era quasi incomprensibile, ma fu un grande passo in avanti perché era stato il primo a incidere e a riascoltare la propria voce. Il brevetto fu depositato il 24 dicembre del 1877.



L'input decisivo si deve all'intraprendenza e alla capacità di un tedesco emigrato negli USA: Emil Berliner, che nella primavera del 1887 brevetta negli Stati Uniti il "Gramophone". 
L'invenzione consiste in un apparecchio con braccio grammofonico, movimento a manovella e puntina di iridio che solca il rivestimento di cera di un disco di zinco. 
Dall'originale disco di zinco bisogna però ottenere la matrice per la riproduzione in copie. Le innovazioni si susseguono serratamente di anno in anno sino a quando, nel 1904, alla fiera di Lipsia, viene presentato il disco a due facciate. 
Bisognerà aspettare poi il primo dopoguerra mondiale per vedere, in un contesto di grande impulso tecnologico impartito al mondo occidentale proprio dalle necessità belliche, il passaggio dall'incisione meccanica a quella elettrica, la stereofonia, l'amplificazione.


Il cagnolino Jack Russell Terrier che ascolta musica da un grammofono è un famoso dipinto del pittore londinese Francis Barraud che alla morte del fratello Mark aveva ereditato da questi il suo cane Nipper e molti dischi con su incisa la sua voce; pare che Nipper rimanesse incantato per ore ad ascoltare il padrone parlare dal grammofono e ciò abbia commosso Barraud, che è in questa posizione che l'ha ritratto.Il quadro suddetto fa da logo di una delle più antiche case discografiche, la britannica Grammophone, poichè il dipinto era noto come La Voce del Padrone, anche la casa discografica veniva spesso conosciuta ufficiosamente con questo nome.

 


domenica 17 novembre 2013



L’uomo che non c’era - Joel & Ethan Coen

"La vita mi ha servito delle mani perdenti, o magari non le ho sapute giocare, chissà..."


Ed Crane non parla molto.
Si limita ad osservare in silenzio la vita che trascorre davanti a lui indifferente.
Nessuno ricorda il suo nome.
E' solo un barbiere. E questa sarà la sua condanna ad un'esistenza mediocre, in una società che abortisce l'uomo qualunque quale legno storto dell'umanità che stenta a conquistarsi un ruolo.
Ha una moglie troppo presa da sé e dai suoi tentativi di fare carriera nell'emporio in cui lavora e dove ha stretto una relazione con Big Dave.
Ed Crane annusa la possibilità di dare nuovo corso alla sua vita quando a tagliare i capelli nel suo negozio arriva un truffaldino in cerca di un investitore che finanzi il suo rivoluzionario progetto nel lavaggio a secco. Ed decide di mettersi in affari con l'imprenditore dalla capigliatura posticcia e per procurarsi la cifra richiesta ricatta, attraverso una lettera anonima, Big Dave, paventandogli il rischio di svelare l'adulterio (con sua moglie) se non avesse pagato.
Big Dave paga, contraffacendo i libri contabili dell'emporio, ma scoprirà che è stato lo stesso Ed a ricattarlo e deciderà di incontrarlo.
Da lì niente sarà come prima.

I fratelli Coen si cimentano in quello che sanno fare meglio: raccontare la contropartita che il fato riserva a chi cerca di fuggire dall'apatia della propria quotidianità, nell'aspirazione utopica alla vita esatta.
Il film è inserito in un bianco e nero sapientemente luminoso, configurandosi come un omaggio alla tradizione noir.


La fotografia ci immerge in atmosfere sulfuree dai rivoli retrò e i cui rimandi espressionisti parlano al passato.
I Coen ci mettono davanti, attraverso  il loro dark humour, il trionfo del nichilismo, in cui i personaggi incarnano il vuoto dell'anima che ha perso un sistema di riferimento valoriale.
Pur nella assurdità del reale, e nella concatenazione di eventi sfavorevoli che colpiscono chi tenta goffi riscatti sociali, i Coen non si lasciano vincere dal pessimismo cosmico, ma lanciano messaggi positivi e di speranza.
Così, in questo caso, il protagonista ci rassicura che in una dimensione altra potrà incontrarsi con la moglie "e dirle tutte quelle cose che qui non hanno parole".



domenica 10 novembre 2013




L’uomo che andava al cinema – Walker Percy



“Il fatto è che sono proprio felice in un cinema, anche quando proiettano un brutto film. Altre persone, così ho letto, fanno tesoro dei momenti memorabili della loro vita. Quello che ricordo io è quando John Wayne uccise tre uomini con una carabina mentre cadeva nella polvere in Ombre rosse e la volta in cui il gattino trovò Orson Welles sulla soglia del portone nel Terzo uomo.”


Binx Bolling diffida della realtà grigia e indifferente.
Diffida del prossimo, della normalità a cui è chiamato.
Preferisce il cinema, luogo in cui si può vivere qualcos’altro, anche se non necessariamente migliore, al punto che anche un brutto film, visto in una sala buia, dà felicità.
 Preferisce le belle donne, che strappano ai suoi occhi lacrime di gratitudine.
È la sua via verso la Meraviglia e il Mistero.  
Kate Cutrer è vittima di una sinistra magia: trasforma quello che tocca in orrore.
Ma quando tutto è perso, quando gli altri si disperano per lei, è allora, nel momento più nero, che Kate appare come la divina, la donna più affascinante di New Orleans.
Binx e Kate si riconoscono al volo, si fiutano a lungo, tentano di evitarsi, si ritrovano.
Un romanzo sulle trappole della società moderna, ma Percy ci rassicura: possiamo sconfiggere la solitudine se ci interessiamo alla ricerca, cioè allo stupore della vita.
Un grande e dimenticato capolavoro americano. 

“Ci fermiamo in una baia e prendiamo un aperitivo sotto le stelle. Non è male decidere di percorrere la strada secondaria, non la grande Ricerca della felicità ma la piccola e triste felicità degli aperitivi e dei baci, una buona macchinina e una coscia calda e tenera.”


Walker Percy è nato a Birminghan in Alabama nel 1916 in una famiglia altolocata ma parecchio infelice: il padre si suicida prima della sua nascita, la madre muore due anni dopo in un incidente stradale. Lo zio che gli fa da tutore si rivolge a lui citando massime di Marco Aurelio.
Viste le premesse, non stupisce che Walker riveli un temperamento piuttosto introverso e sensibile, nonché una certa propensione alla sfortuna.
Si laurea in medicina, ma negli anni di tirocinio contrae una brutta forma di tubercolosi, che lo costringerà a un’interminabile convalescenza.
Durante i lunghi mesi a letto legge Kierkegaard e Dostoevskij, si converte al cattolicesimo e decide di gettare il camice alle ortiche e diventare scrittore.
Studia, scrive e conduce vita ritirata; tra i suoi grandi meriti, l’aver portato alla pubblicazione “Una banda di idioti” di John Kennedy Toole.
Percy muore a New orleans nel 1990.


“Oggi è il mio trentesimo compleanno e sono seduto sulla giostra nel cortile della scuola, aspetto Kate e non penso a niente. Ora, all’inizio del trentunesimo anno del mio tetro pellegrinaggio sulla terra, sapendo meno di quanto ne abbia mai saputo, avendo imparato solo a riconoscere la merda quando la vedo, vivendo in realtà nel secolo stesso della merda, il grande cesso dell’umanesimo scientifico dove i bisogni sono soddisfatti, dove ognuno diventa uno qualsiasi, una persona calorosa e creativa, e prospera come uno scarafaggio stercorario, e dove gli uomini sono morti, morti, morti; e dove il disagio occupa perennemente il cielo come una pioggia di pulviscolo radioattivo e dove la gente teme in realtà non che si faccia esplodere la bomba ma che non lo si faccia - in questo giorno in cui compio trent’anni, non so nulla e non mi resta altro da fare che cadere in preda al desiderio.”

sabato 9 novembre 2013



 Arthur Rothstein



E' considerato uno dei principali fotogiornalisti americani.
Nato a New York nel 1915, ha frequentato la Columbia University ed è diventato uno dei fotografi più importanti del XX secolo.
In una carriera che è durata cinquant'anni, ha provocato, intrattenuto e informato il popolo statunitense.
Ha immortalato la Grande Depressione, i campi di baseball, l’atrocità della guerra, il dramma dei contadini rurali, gli anni di Ronald Reagan.


Insieme ad altri fotografi, come Mary Post Wolcott, Walker Evans e Jack Delano, era stato assunto dalla Farm Security Administration, l'agenzia federale fondata nel 1935 per combattere la povertà e rivitalizzare il settore agricolo, per documentare le condizioni di vita dei contadini americani.
Ha fatto della fotografia un'arte e i suoi scatti rappresentano un pezzo di storia. 


“Poiché le immagini che hanno un grande significato sono impresse nella nostra mente più delle parole stesse e poichè una foto ha lo stesso significato in ogni angolo del mondo non c'è bisogno di nessun interprete. La fotografia è un linguaggio universale”.



 

domenica 27 ottobre 2013



Preservation Hall & New Orleans

 


La Preservation Hall, al 726 di St. Peter St. nel quartiere francese di New Orleans, è il bastione, il tempio del jazz tradizionale. Ma la ex galleria d'arte è molto più che un semplice museo dove clarinetti e banjo mantengono vive le radici del jazz. La Preservation Hall Jazz Band deve il suo nome a questa sala leggendaria; la band ha viaggiato in tutto il mondo diffondendo la loro missione di alimentare e perpetuare la forma d'arte del jazz di New Orleans. Suonata alla Carnegie Hall o al Lincoln Center, per la Famiglia reale britannica o per il re della Thailandia, questa musica incarna uno gioioso spirito immortale.

Fondata cinque decenni fa dal musicista di tuba Allan Jaffe e da sua moglie, Sandra, per mettere in mostra la musica, insieme alla Preservation Hall Jazz Band, composta da musicisti veterani, la Spartan Hall è una palestra, un banco di prova, un terreno sacro che, sotto la gestione del figlio dei Jaffe, il bassista e bandleader Ben, è riuscita non solo a sopravvivere, ma anche a prosperare, preservare, proteggere e far progredire il jazz tradizionale di New Orleans.


La ricerca del "vero jazz" attirò molti nordisti a New Orleans negli anni '50 e '60. Due di loro furono Alan e Sandra Jaffe, che arrivarono nel 1961, attratti dalla cultura dinamica della città. Come nordisti, i coniugi Jaffe furono inorriditi nel vedere il livello di segregazione nella città in quel momento. Alle persone bianche e di colore veniva spesso vietato di ascoltare musica negli stessi club, ed ai musicisti di razze diverse era vietato suonare insieme, attraverso le leggi sui liquori e altre arcane misure.

Poco dopo il loro arrivo, la coppia si riunì con altre persone che la pensavano come loro e che avevano avviato un gruppo chiamato Society for the Preservation of Traditional New Orleans Jazz. Jaffe, che era sia diplomato ad una scuola commerciale che un musicista di fiati, pensava di poter combinare le sue conoscenze e il suo talento per promuovere la musica che tanto amava. 
Così riuscì a diventare il manager del gruppo ed occasionalmente a suonare la tuba. Facendo le cose in maniera più minimale possibile alla Preservation Hall, niente bevande, niente cibo, niente sala da ballo, riuscì ad evitare la maggior parte delle leggi segregative. Poco dopo, la band iniziò a registrare i suoi primi dischi e a girare per il mondo.
Naturalmente, questo portò qualche brontolio da parte degli esperti jazz locali, che si domandavano dell'effetto dei bianchi nordisti sulla loro musica, ma molti di essi furono conquistati dal sincero impegno di Jaffe per la loro musica e per i loro musicisti.
Benchè Jaffe non inventò la Preservation Hall, la sua capacità di businessman contribuì a farla diventare una Istituzione. Dai primi anni '70, persone di tutto il mondo andavano in pellegrinaggio al 726 di St. Peter Str. Ad un certo punto, cinque diversi gruppi della Preservation Hall erano in tour contemporaneamente.


Gli anni '80 furono un periodo difficile per la band, con la morte di molti dei protagonisti, tra cui lo stesso Allan Jaffe, che morì all'età di 51 anni nel 1986. Sandra lo sostituì per un po', ma sapeva che la vera speranza della band era il figlio Ben. 
Suonatore di tuba come il padre, Ben Jaffe era cresciuto con la Pres Hall Band e rispettato non solo per la sua eredità musicale. Dopo la sua laurea alla Oberlin nel 1993, ritornò in città, per assumersi le responsabilità della sua famiglia, compresa la band.
Jaffe comprese che il gruppo doveva cambiare un pò le cose.
Così iniziò a registrare molto di più, a reclutare giovani musicisti provenienti da New Orleans e collaboratori di fuori città, ed avviare progetti per celebrare e riconoscere la musica che aveva definito il viaggio delle sua famiglia.
Non è un caso che nei suoi 50 anni come collettivo di lavoro, la Preservation Hall Jazz band abbia pubblicato solo 19 album. Di questi, più della metà sono stati pubblicati dopo il 1994, quando la band fu rilevata da Ben che allora aveva solo 22 anni. 


Come ha scritto lo stesso Ben Jaffe "Ho grande piacere, che una canzone che è stata interpretata, reinterpretata ed eseguita per anni sia ancora fresca e nuova come il giorno in cui è nata... E' qualcosa che fa la musica ... allungare il tempo, sovrapporre tradizioni, cambiare la storia... La musica di New Orleans è piena di significati... è vitale e piena di vita, può essere felice e gioiosa, può essere triste e lugubre, non ha barriere linguistiche. Offre un messaggio universale che noi, la Preservation Hall Jazz Band, portiamo con noi ovunque andiamo." 



lunedì 21 ottobre 2013



Dock Boggs


Il signore in questione è tra i capostipiti del country-blues-hillbilly bianco degli Appalachi, un mito del prewar folk.
Siamo negli anni '20 e l'America è un paese in crisi e in forte depressione economica, specie il Sud, una zona ancora tendenzialmente rurale, dai forti contrasti razziali e dalle numerose miniere di carbone.
Non solo contrasti tra i bianchi e gli afroamericani, ma molti anche i punti di contatto e le similitudini nella vita, come nella musica, dove molti bianchi del Sud si trovarono a vivere nelle stesse condizioni di vita dei neri afroamericani e a riprendere il blues acustico del Mississippi per rivisitarlo in chiave country.
Dock Boggs era uno di questi. Misconosciuto cantante e banjoista, originario del Virginia, dove nacque nel 1898, ebbe una vita a dir poco travagliata che lo vide dapprima minatore all'età di dodici anni, poi contrabbandiere di whisky, musicista fallito e poi ancora minatore sindacalista.
La sua carriera è convenzionalmente divisibile in due tronconi: quello degli anni '20, in cui tentò in tutti i modi di sbarcare il lunario con la musica, incidendo per varie etichette, ma senza grandissimo successo e quello degli anni '60, dove grazie l'interesse di Mike Seeger, fratello di Pete, fu oggetto di una vera e propria riscoperta con tanto di incisioni per la Smithsonian/Folkaways, storica etichetta di musica tradizionale americana.


Dicevamo della prima fase della sua vita che lo vide più che altro impegnato a sopravvivere tra sparatorie varie, ubriacature moleste e soggiorni nelle patrie galere. La passione per il banjo era la sua unica valvola di sfogo, la via per raccontare  le storie di violenza, alcool e povertà con cui si scontrava quotidianamente. Ovviamente il banjo, che peraltro suonava con maestria e con una tecnica originalissima, non dava però da mangiare. Quindi dopo qualche registrazione nei tardi anni '20, smise di incidere "preferendo" le miniere e le lotte sindacali.
Poi, fino al 1963 il silenzio.
Solo dopo l'interesse di Pete Seeger (e grazie all'ondata di folk-revival che colpì gli States nei '60) che lo volle proprio in quell'anno all'American Folk Festival di Asheville, riprende il banjo in mano e ritorna a tracciare melodie rurali, secche e scheletriche, ossessivamente dissonanti. La sua voce claudicante è resa più afona e cruda dagli anni e dalle sofferenze che la vita gli ha riservato, tuttavia il suono del suo banjo arriva alle orecchie e al cuore. 


Dock Boggs capì che la bellezza intrinseca, la poesia e la semplicità delle ballate, importate o native, con o senza accompagnamento strumentale, potevano essere non solo preservate intatte ma perfino accentuate se sposate alla forza evocativa ruvida, essenziale ed immediata del blues delle origini.
Le 'blues-ballads' di Boggs rivelano due precisi punti di partenza: il repertorio raccolto dal canto occasionale della madre e delle sorelle e l'amicizia stretta col vicinato di colore, soprattutto con due chitarristi, tali Go Lightening e Jim White.
 La sintesi di ambedue queste espressioni musicali, il collage di frammenti di brani tradizionali bianchi e l'uso di accordature modali particolarissime, attraverso le quali il banjo sembra imitare la chitarra blues, hanno dato origine a Down South Blues, a Sugar Baby, a Pretty Polly, al capolavoro di Country Blues (il tradizionale Hustlin' Gambler avvolto in un sudario blues), vero e proprio manifesto sonoro di uno stile.