Il manico della chitarra di Robbie Basho è quel metafisico ponte che collega il Nord America con l'Estremo Oriente. Ogni composizione che ne scaturisce appare iniziatica, occulta, eppure inesplicabilmente ammaliante, intrisa di un fascino atavico. Il suo stesso nome rappresenta di fatto il felice dualismo che caratterizza la sua carriera discografica: Robert, comunissimo nei paesi occidentali; Basho, evidente rimando al celeberrimo compositore di haiku, adottato per il suo interesse nei confronti delle culture orientali. Tale cognome lo aiutò probabilmente a ritrovare un'identità che sentiva smarrita fin dall'infanzia, quando rimase orfano.
Basho morì nel 1986, a soli quarantacinque anni, per un caso di malasanità. L'eredità lasciata alla musica era notevole, ed ha continuato ad influenzare generazioni di chitarristi acustici (Jack Rose in primis). Il suo catalogo discografico non gode tuttavia della cura che meriterebbe, giacché ben poche delle sue opere hanno visto la ristampa in CD. Cristallizzare la testimonianza di un artista tanto poliedrico equivale inequivocabilmente a compiere un crimine: un caso eclatante è la magistrale "The Thousand Incarnations of the Rose", contenuta in "Contemporary Guitar" (pubblicato nel 1967), vero e proprio manifesto del chitarrismo primitivista firmato dai suoi principali esponenti, quali John Fahey, Max Ochs, Bukka White, Harry Taussig e Basho stesso.
Il disco "Visions of the Country" consiste, utilizzando le parole dell'artista stesso, in "affreschi raffiguranti l'America ed altre gioie". È una rappresentazione esoterica dell'America rurale, lontana dallo spettro dell'urbanizzazione. Sui paesaggi delle Montagne Rocciose, dei fiumi e delle grandi vallate fanno capolino fiori di loto e gigli: il country si amalgama al raga, dando vita a lunghi flussi di coscienza sonori. Prima d'essere definito musicista, Basho dovrebbe essere prima di tutto considerato un alchimista; allontanandosi in parte dalle lunghe digressioni chitarristiche del suo periodo Takoma (etichetta discografica di John Fahey), egli si cimenta in un melodismo ancestrale, tipico della tradizioni orientali.
Se così non mancano ottimi esercizi di stile country ("Rodeo" e "Variations on Easter"), sono le composizioni più estese che delineano l'ossatura dell'opera, da "Green River Suite" a "Rocky Mountain Raga", in cui spicca la voce baritonale di Basho, pastorale ed evocativa. È però con "Blue Crystal Fire" che il suo cantato giunge all'eccellenza, rendendo una poetica ballata folk ancor più malinconica. Tale malinconia si tramuta in angoscia autobiografica in "Orphan's Lament", caratterizzata stavolta da un catartico piano, presente anche in "Leaf in the Wind", in cui persino un semplice fischio riesce a sublimare un momento di straordinaria bellezza. La conclusione viene affidata alla contemplazione del cielo notturno ("Night Sky") e ad un'ulteriore ode alle bellezze naturali americane ("Call on the Wind"). Si denota immediatamente uno straordinario senso di congiunzione con la natura difficilmente rintracciabile altrove.
"Visions of the Country", uscito nel 1978 presuppone un impegno particolare
nell'ascolto, che viene da sé in una dimensione estremamente intimistica che
abolisce ed aborrisce il virtuosismo fine a sé stesso: citando lo stesso Basho,
"prima l'anima, poi la tecnica".
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