Meno noto di molti
suoi eminenti colleghi ma indiscutibilmente il più amaro esponente della
cosiddetta letteratura sociale degli Stati Uniti, Erskine Preston Caldwell (1903-1987) è
l’autore del memorabile «ciclo del Sud», da lui composto in solitudine e tra
gli stenti, in una fattoria semiabbandonata.
Ne sono protagonisti i poveri bianchi, quelli che poco o nullo spazio trovano nell’opera della grande genia di narratori southern capitanata da William Faulkner: un’umanità povera, sporca, ignorante, avvilita e violenta, alle prese con la fame, il sesso e gli altri istinti primordiali (oggi è consuetudine riferirsi a loro con il termine ‘white trash’, spazzatura bianca). Personaggi che non hanno nulla di eroico e che vivono storie di quotidiana miseria, ignoranza e degradazione; una realtà fotografata senza nessun filtro, defraudata di ogni venatura lirica per smussare gli angoli. Quello di Caldwell è un realismo depotenziato di qualsiasi forma di pietà (e moralismo): i suoi romanzi sono crudi, intensi e disperati, scritti con una prosa sobria e disadorna, anni-luce distante da quell’aura di ‘epos’ che tutto sommato avvolge i «miserabili» steinbeckiani.
Ne sono protagonisti i poveri bianchi, quelli che poco o nullo spazio trovano nell’opera della grande genia di narratori southern capitanata da William Faulkner: un’umanità povera, sporca, ignorante, avvilita e violenta, alle prese con la fame, il sesso e gli altri istinti primordiali (oggi è consuetudine riferirsi a loro con il termine ‘white trash’, spazzatura bianca). Personaggi che non hanno nulla di eroico e che vivono storie di quotidiana miseria, ignoranza e degradazione; una realtà fotografata senza nessun filtro, defraudata di ogni venatura lirica per smussare gli angoli. Quello di Caldwell è un realismo depotenziato di qualsiasi forma di pietà (e moralismo): i suoi romanzi sono crudi, intensi e disperati, scritti con una prosa sobria e disadorna, anni-luce distante da quell’aura di ‘epos’ che tutto sommato avvolge i «miserabili» steinbeckiani.
Erskine Caldwell
racconta invece un Sud atavico e rurale, privo di aloni romantici: sconfinate
distese di terra fiaccate dalla siccità e da un sole perennemente a
perpendicolo, fette di mondo popolate da un’accozzaglia di poveracci cui la
ferocia della Grande Depressione ha sottratto ogni prospettiva futura, gente
ridotta allo stato brado da una crisi economica che ha fagocitato torme di
nullatenenti costringendoli a vivere di stenti mentre una ristretta cricca (la
solita) di maggiorenti rimpinguava impunita le proprie casseforti.
Attraverso
un’ironia sottotraccia che non si perita di sfiorare il
grottesco, Caldwell ha avuto il coraggio di mostrare alla ridente e
fiduciosa America la propria faccia più oscura, quella più torbida e
sgradevole, descrivendo il baratro di degradazione in cui l’uomo precipita
quando è costretto a mollare gli ormeggi della dignità. Così ne La via del Tabacco, o ne Il predicatore vagante come ne Il piccolo campo, i personaggi
schiacciati dalla fame e dalle umiliazioni abdicano addirittura la postura
eretta, rinunciando al loro lato umano per muoversi come plantigradi
all’interno di uno scenario desolato e privo di speranze. Staccandosi di
parecchie spanne da buona parte della ricerca narrativa a lui coeva, l’autore
focalizza con efficacia temi di difficile trattazione: il delirio religioso,
l’alienazione del diverso, la depravazione come sfogo, i comportamenti
ossessivi (la vecchia che in Tobacco
Road continua ad accendere il fuoco pur non avendo nulla da
cuocere).
Dotato di una
meticolosa capacità rappresentativa nel registrare il lato turpe della
vita, Caldwell ha finito per diventare il cantore di un cinismo che se
oggi suona forse molto “moderno” per lungo tempo l’ha relegato in una sorta di
limbo editoriale.
Nessun commento:
Posta un commento