mercoledì 26 febbraio 2025

Dischi nella tomba: Il Teatro degli Orrori - Dell'impero delle tenebre (2007)

 

 

 

 





L'esordio dell'Impero Delle Tenebre costituisce una sorta di grido strozzato in grado di preannunciare l'apocalisse che inconsapevolmente ci governa.
La società è in avanzato stato di putrefazione, tutto è sotto gli occhi di tutti e lo squilibrio si fa largo ad ampie falcate. La struttura musicale attinge a piene mani nella scena alternativa degli anni novanta con echi di Neurosis, Melvins, Jesus Lizard, Scratch Acid.
I suoni delle chitarre scivolano via dalla melma, il percorso ritmico è intenso ed accelerato e capace di fornire linfa al tessuto sonoro.


Ciò che rifulge tuttavia in Dell'Impero Delle Tenebre è l'acume delle liriche interpretate eccellentemente dall'ex One Dimensional Man, Pierpaolo Capovilla che è stato accompagnato in questo progetto da Giulio Ragno Favero e Francesco Valente nonchè dal vero protagonista dell'opus: Gionata Mirai (già nei Super Elastic Bubble Plastic) che appare sempre in precario equilibrio tra vena dissacrante e intento rivelatore.

 

L'incipit è distruttivo con Vita Mia, Dio Mio, E Lei Venne, un trittico che rappresenta un vero assalto sonoro.


Nemmeno il tempo di rifiatare ed ecco Compagna Teresa con una sezione terminale che sbriciola ogni rimanente tentativo di opposizione.

Dell'Impero Delle Tenebre si articola in questa maniera tra un riff tagliente ed una fase di quiescenza, quella che nel finale fa capolino con la commovente e struggente Lezione Di Musica e con il tracciato elettrico suggerito da La Canzone Di Tom nella quale balenano anche alcune suggestioni post-psichedeliche.
Capovilla e soci sono sempre lucidi e disperati anche quando denunciano la perdita della memoria del Ventesimo Secolo da parte di una mediocrità imperante ne L'Impero delle Tenebre.
Chiusa affidata all'abbagliante splendore dell'apocrifa Maria Maddalena, densa e ombrosa ballad tra il rock ed il blues venata da soluzioni progressive. Mirabile l'arrangiamento degli archi, summa compendiaria delle penombre, delle oscurità e delle sofferenze celate nel dramma cantato dell'intero lavoro. 




mercoledì 12 febbraio 2025

Dischi nella Tomba: Gun Club - Fire of love (1980)

 Chissà come avrà fatto Jeffrey Lee Pierce a incontrarlo di persona. Forse per intercessione del suo idolo Robert Johnson; forse dopo una sbronza per le strade di New Orleans; o ancora, dopo uno degli innumerevoli buchi che lo accompagneranno fino alla tomba, nel 1996, ufficialmente per un'emorragia cerebrale. Ma dopo l'ascolto di questo album, chiunque sarà in grado giungere alla più ovvia delle conclusioni, il patto era scaduto, tutti devono pagare i propri debiti a Lui, Jeffrey incluso. Viceversa come avrebbe fatto un comune mortale a partorire un'opera così lucidamente maligna, così demoniaca?

Robert Johnson abbiamo detto, il blues del delta, ma non solo: l'hard-blues degli Stones (e chi sennò? Ricordate, c'è sempre Lui di mezzo..) e il punk-rock californiano, un pizzico di country se vogliamo. In pratica, il rock nella sua più splendente e oscura malvagità, reminescenza delle origini africane dove la magia tribale è un credo consolidato.

E allora tutto combacia, le allucinanti visioni a sfondo sessuale di "Sex Beat", dove l'altalenante e vigorosa chitarra di Ward Dotson, figlio delle swamp e di New York allo stesso tempo, accompagna il ritmo ossessivo scandito dalla batteria; il delirante rito voodoo di "Preachin' The Blues", dove la foga strumentale esplode in terribili vampate di furore. O il blues-rock per ubriachi di "Promise Me", la chitarra singhiozzante, una viola ipnotica come solo quella di John Cale sullo sfondo.

E poi l'apocalissi, un uragano distorsivo contrapposto alla slide supersonica, il ritmo infuocato del punk-rock più energico, Pierce è disperato ma conscio del suo potere seduttivo come non mai; "She's Like Heroin To Me" è l'apice del disco e del blues-rock tutto. Al pari di quest'ultima traccia, "For The Love Of Ivy", dedicata a Poison Ivy componente dei Cramps, si ripropone come folle corsa verso il buio e l'ignoto con le sue poderose impennate ritmiche e strumentali.

Jeffrey Lee recupera parte delle proprie facoltà mentali in "Fire Spirit", anch'essa maligna con il suo giro di basso da oltretomba, ma sono momenti isolati, il delirium tremens si riappropria dell'anima del gruppo nella scorribanda infernale di "Ghost On The Highway", dove la slide impazzita sfreccia veloce accompagnata dagli spasmi del leader che, novello Caronte, accompagna le anime dannate nel loro viaggio verso l'inferno, "you're lost forever to the living men".

"Jack On Fire" trasporta l'ascoltatore negli intricati vicoli di New Orleans, il misterioso alone magico che permea la cittadina durante il Mardi Gras prende corpo attraverso la ipnotiche visioni di Dotson. Pierce, alla stregua di uno stregone voodoo, è capace di irretire anche le volontà più ferree, con la sua recitazione intrisa di follia e consapevolezza della propria infernale missione allo stesso tempo; e lo dimostra ancora una volta in "Cool Drink Of Water", dove blatera ubriaco ma mellifluo su un blues per alcolizzati. La sua aura sciamanica è malefica, al pari di quello dei mostri sacri Morrison e Jagger.


Il disco racchiude quindi un ampio catalogo di linguaggi musicali, ma riesce nell'intento di miscelare tutte queste forme sonore ricavandone un esplosivo concentrato di punk-rock rurale, che si rifà ampiamente alla macabra iconografia tipica delle regioni del profondo sud degli Stati Uniti. Il basso di Rob Ritter e la batteria di Ted Graham forniscono una base che sa essere sia veemente che morbida, a seconda che Pierce si produca in accelerazioni mozzafiato verso l'ignoto o in ipnotiche cantilene blues. La chitarra di Dotson è sempre perfetta, nel suo geniale accoppiamento di stili diversi e apparentemente contrastanti, swamp blues e frenesia punk in primis.

Rifacendosi al lato più oscuro e demoniaco del rock, i Gun Club riescono ad appianare divergenze apparentemente insormontabili, a unire la violenza e la velocità dei punk urbani alle lente e inesorabili cadenze del sud degli States, regalandoci un adrenalinico e grandioso capolavoro del male.

Enrico Biagini

 







 

venerdì 7 febbraio 2025

Thomas Bernhard - Il freddo (1981)

 

 Il freddo racconta il periodo passato da Thomas Bernhard, fra i diciotto e i diciannove anni, nel sanatorio pubblico di Grafenhof. Ed è la storia di un’altra lotta durissima per la sopravvivenza, dove la malattia che assale il giovane Bernhard è al tempo stesso una malattia terribilmente fisica – legata a una specifica persecutorietà ambientale e sociale – e una malattia dell’anima, come già indica l’epigrafe di Novalis, che è la chiave del libro: «Ogni malattia può essere definita malattia dell’anima».  

In questa vicenda di un «inabissarsi» in una «comunità della morte», per poi riemergerne quando tutto sembra perduto, arricchito dalla scoperta che «la via dell’assurdo è la sola praticabile», e quasi salvato dalla musica (a cui allora contava di dedicarsi), Bernhard ci offre il penultimo, possente pannello della sua autobiografia, impresa solitaria e altissima della letteratura del nostro tempo.





sabato 1 febbraio 2025

Caterpillar - Kōji Wakamatsu (2010)

 

Caterpillar di Wakamatsu rappresenta un cinema che attacca al cuore un sistema politico e culturale, evitando il facile voyeurismo e allestendo uno spettacolo macabro e spietato.

La guerra partorisce mostri, del corpo e della psiche: nel 1940, il tenente Kurokawa torna al suo villaggio come eroe pluridecorato. Ma è senza gambe e senza braccia. Wakamatsu affronta di petto le storture freak di ogni devozione ideologica e i sacrifici sovrumani della devozione coniugale. Se esiste ancora oggi, in epoca di totale de-politicizzazione della violenza, un cinema in grado di scuotere e attaccare lo spettatore senza mezze misure, di certo quello di Wakamatsu Koji ne ha tutte le caratteristiche. Padre della gloriosa new wave nipponica che fu, torna ancora una volta a destabilizzare con un ritratto corrosivo e inconciliabile del Giappone, della Guerra e della retorica patriottica.

  Il regista fin dalla prima sequenza di Caterpillar chiarisce la bassezza morale del suo protagonista, riesce a ricostruire, attraverso la grottesca storia di Kyuzo e della moglie Shigeko, il processo di esasperazione del popolo giapponese, mettendo in scena ripetutamente il ciclo sonno-cibo-sesso, via via minato da flashback di rara efficacia. La parabola autodistruttiva del soldato Kurokawa è la medesima parabola del Sol Levante, del mito dell’Imperatore, così bene descritto da Il Sole di Sokurov: la verità, devastante come le bombe di Hiroshima e Nagasaki, ridimensionerà un impero morente. E il nuovo Giappone dovrà pagare ancora col sangue.
Esasperazione è una delle parole chiave di Caterpillar. L’esasperazione di Shigeko, moglie costretta ad accudire un pezzo di carne, un marito che già odiava, un uomo violento. Costretta a soddisfarlo giorno dopo giorno, a pulirlo, a lavarlo, a sfamarlo. 

 L’esasperazione dello stesso Kyuzo, prigioniero di un corpo oramai indifeso, mostro beffardamente venerato, uomo-monumento da portare in giro tra la gente. L’esasperazione di un villaggio (e, per estensione, di un popolo) costretto a sacrificare i suoi giovani, uno dopo l’altro. E l’esasperazione verso cui viene trascinato lo spettatore, inchiodato di fronte a questa potente, macabra, grottesca e dolorosa rappresentazione. Wakamatsu non percorre facili sentieri, non cerca fasulle riconciliazioni. Kōji Wakamatsu, mette in scena un’atroce e reiterata sconfitta: i tanti uomini morti durante la guerra, le tantissime donne costrette a una prigionia casalinga, a un’umiliazione fatta norma sociale. Eppoi la bomba. Hiroshima e Nagasaki. Il 6 e il 9 agosto 1945. Centoquarantamila morti a Hiroshima. Settantamila morti a Nagasaki. E tutti gli altri, milioni e milioni, sparsi per il mondo, amici e nemici, uomini e donne, comunque vittime.