Caterpillar di Wakamatsu rappresenta un cinema che attacca al cuore un sistema politico e culturale, evitando il facile voyeurismo e allestendo uno spettacolo macabro e spietato.
La guerra partorisce mostri, del corpo e della psiche: nel 1940, il tenente Kurokawa torna al suo villaggio come eroe pluridecorato. Ma è senza gambe e senza braccia. Wakamatsu affronta di petto le storture freak di ogni devozione ideologica e i sacrifici sovrumani della devozione coniugale. Se esiste ancora oggi, in epoca di totale de-politicizzazione della violenza, un cinema in grado di scuotere e attaccare lo spettatore senza mezze misure, di certo quello di Wakamatsu Koji ne ha tutte le caratteristiche. Padre della gloriosa new wave nipponica che fu, torna ancora una volta a destabilizzare con un ritratto corrosivo e inconciliabile del Giappone, della Guerra e della retorica patriottica.
Il regista fin dalla prima sequenza di Caterpillar
chiarisce la bassezza morale del suo protagonista, riesce a
ricostruire, attraverso la grottesca storia di Kyuzo e della moglie
Shigeko, il processo di esasperazione del popolo giapponese, mettendo in
scena ripetutamente il ciclo sonno-cibo-sesso, via via minato da
flashback di rara efficacia. La parabola autodistruttiva del soldato
Kurokawa è la medesima parabola del Sol Levante, del mito
dell’Imperatore, così bene descritto da Il Sole di
Sokurov: la verità, devastante come le bombe di Hiroshima e Nagasaki,
ridimensionerà un impero morente. E il nuovo Giappone dovrà pagare
ancora col sangue.
Esasperazione è una delle parole chiave di Caterpillar.
L’esasperazione di Shigeko, moglie costretta ad accudire un pezzo di
carne, un marito che già odiava, un uomo violento. Costretta a
soddisfarlo giorno dopo giorno, a pulirlo, a lavarlo, a sfamarlo.
L’esasperazione dello stesso Kyuzo, prigioniero di un corpo oramai
indifeso, mostro beffardamente venerato, uomo-monumento da portare in
giro tra la gente. L’esasperazione di un villaggio (e, per estensione,
di un popolo) costretto a sacrificare i suoi giovani, uno dopo l’altro. E
l’esasperazione verso cui viene trascinato lo spettatore, inchiodato di
fronte a questa potente, macabra, grottesca e dolorosa
rappresentazione. Wakamatsu non percorre facili sentieri, non cerca
fasulle riconciliazioni. Kōji Wakamatsu, mette in scena un’atroce e reiterata sconfitta: i tanti uomini
morti durante la guerra, le tantissime donne costrette a una prigionia
casalinga, a un’umiliazione fatta norma sociale. Eppoi la bomba.
Hiroshima e Nagasaki. Il 6 e il 9 agosto 1945. Centoquarantamila morti a
Hiroshima. Settantamila morti a Nagasaki. E tutti gli altri, milioni e
milioni, sparsi per il mondo, amici e nemici, uomini e donne, comunque
vittime.
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