È
dalle prime immagini su sfondo nero di volti trasfigurati e in continuo
mutamento che il film dichiara apertamente le proprie scelte
stilistiche. Le atmosfere gotiche vengono richiamate dalla fotografia in
bianco e nero, ed è proprio grazie al forte contrasto tra queste due
tonalità che emerge, con tutta la sua forza, un chiaro citazionismo al
cinema espressionista degli anni Dieci e Venti. Attraverso ombre
allungate e inquadrature trasversali,The Girl with the Needle si presenta come un allucinato racconto degli ultimi giorni della Grande Guerra - che,
come un fantasma, permea il lungometraggio palesandosi esclusivamente
tramite le grida del marito di Karoline e di un giovanissimo venditore
di giornali.
I
temi e le caratterizzazioni dei personaggi si riallacciano fortemente
al Modernismo dei primi del Novecento, ma si può anche notare una forte
influenza da parte della narrativa di Charles Dickens, lo stato di
estrema miseria e marginalità da cui Karoline brama di fuggire ne è un
chiaro esempio, così come le varie scene ambientate in fabbrica - di
grande potenza emotiva è proprio la sequenza del parto collocata in quel
contesto. Ma in realtà, l'elemento di critica verso le misere
condizioni sociali causate da una tardiva rivoluzione industriale, funge
solamente da sfondo per intraprendere un'interessante indagine
psicologica della protagonista e un brillante discorso sulla
femminilità.
Così come nei grandi romanzi di inizio secolo è Karoline il perno dell’intera pellicola:
le scelte registiche di von Horn la portano o ad essere inquadrata in
ogni scena o ad assumere il punto di vista della narrazione attraverso
delle soggettive. Di grande pregio è la prova recitativa di Vic Carmen
Sonne, che affronta alla perfezione i continui mutamenti di intensità emozionale delle varie scene.
The Girl with the Needle,
è un noir e, allo stesso tempo, una cronaca-sociale, spuntano fuori anche gli oscuri
toni di un'anti-fiaba e l’orrore da freak show. Nella prima metà
dell'opera la protagonista viene infatti caratterizzata come una sorta
di anti-Cenerentola: il ricco proprietario della fabbrica non la porta
all’emancipazione economica bensì a una situazione di alterità ancora
più enfatizzata, così come neanche la bestiale figura maritale (che
ribalta la parabola narrativa del racconto LaBella e la Bestia).
I personaggi maschili si rivelano quindi costantemente insufficienti, alla stregua di un film come Poor Things (Povere Creature, 2024) che,
pur con toni diametralmente opposti, affronta il medesimo tema. Ma se
nella pellicola di Lanthimos la soluzione femminista verso
l'emancipazione è didascalicamente risolta con un percorso di vendetta
messo in atto tramite la massima liberazione sessuale, in questa
circostanza è proprio il sesso a rappresentare la radice del
problema. Nonostante l'accurata descrizione di una donna che deve far
fronte ad un mondo crudele ed orrorifico raggiunga gli apici di un
devastante cinismo è proprio essa a costruire un impianto
cinematografico di grandissima raffinatezza.
L'esordio dell'Impero Delle Tenebre costituisce una sorta di grido strozzato in grado di preannunciare l'apocalisse che inconsapevolmente ci governa. La
società è in avanzato stato di putrefazione, tutto è sotto gli occhi
di tutti e lo squilibrio si fa largo ad ampie
falcate. La struttura musicale attinge a piene mani nella scena
alternativa degli anni novanta con echi di Neurosis, Melvins, Jesus Lizard, Scratch Acid. I
suoni delle chitarre scivolano via dalla melma, il percorso ritmico è
intenso ed accelerato e capace di fornire linfa al tessuto sonoro.
Ciò che rifulge tuttavia in Dell'Impero Delle Tenebre è l'acume delle liriche interpretate eccellentemente dall'ex One Dimensional Man, Pierpaolo Capovilla che è stato accompagnato in questo progetto da Giulio Ragno Favero e Francesco Valente nonchè dal vero protagonista dell'opus: Gionata Mirai (già nei Super Elastic Bubble Plastic) che appare sempre in precario equilibrio tra vena dissacrante e intento rivelatore.
L'incipit è distruttivo con Vita Mia, Dio Mio, E Lei Venne, un trittico che rappresenta un vero assalto sonoro.
Nemmeno il tempo di rifiatare ed ecco Compagna Teresa con una sezione terminale che sbriciola ogni rimanente tentativo di opposizione.
Dell'Impero Delle Tenebre
si articola in questa maniera tra un riff tagliente ed una fase di
quiescenza, quella che nel finale fa capolino con la commovente e
struggente Lezione Di Musica e con il tracciato elettrico suggerito da La Canzone Di Tom nella quale balenano anche alcune suggestioni post-psichedeliche. Capovilla
e soci sono sempre lucidi e disperati anche quando denunciano la
perdita della memoria del Ventesimo Secolo da parte di una mediocrità
imperante ne L'Impero delle Tenebre. Chiusa affidata all'abbagliante splendore dell'apocrifa Maria Maddalena,
densa e ombrosa ballad tra il rock ed il blues venata da soluzioni
progressive. Mirabile l'arrangiamento degli archi, summa compendiaria
delle penombre, delle oscurità e delle sofferenze celate nel dramma
cantato dell'intero lavoro.
Chissà come avrà fatto Jeffrey Lee Pierce a incontrarlo di persona. Forse per intercessione del suo idolo Robert Johnson;
forse dopo una sbronza per le strade di New Orleans; o ancora, dopo uno
degli innumerevoli buchi che lo accompagneranno fino alla tomba, nel
1996, ufficialmente per un'emorragia cerebrale. Ma dopo l'ascolto di
questo album, chiunque sarà in grado giungere alla più ovvia delle
conclusioni, il patto era scaduto, tutti devono pagare i propri debiti a
Lui, Jeffrey incluso. Viceversa come avrebbe fatto un comune mortale a
partorire un'opera così lucidamente maligna, così demoniaca?
Robert Johnson abbiamo detto, il blues del delta, ma non solo: l'hard-blues degli Stones
(e chi sennò? Ricordate, c'è sempre Lui di mezzo..) e il punk-rock
californiano, un pizzico di country se vogliamo. In pratica, il rock
nella sua più splendente e oscura malvagità, reminescenza delle origini
africane dove la magia tribale è un credo consolidato.
E allora
tutto combacia, le allucinanti visioni a sfondo sessuale di "Sex Beat",
dove l'altalenante e vigorosa chitarra di Ward Dotson, figlio delle
swamp e di New York allo stesso tempo, accompagna il ritmo ossessivo
scandito dalla batteria; il delirante rito voodoo di "Preachin' The
Blues", dove la foga strumentale esplode in terribili vampate di furore.
O il blues-rock per ubriachi di "Promise Me", la chitarra
singhiozzante, una viola ipnotica come solo quella di John Cale sullo sfondo.
E
poi l'apocalissi, un uragano distorsivo contrapposto alla slide
supersonica, il ritmo infuocato del punk-rock più energico, Pierce è
disperato ma conscio del suo potere seduttivo come non mai; "She's Like
Heroin To Me" è l'apice del disco e del blues-rock tutto. Al pari di
quest'ultima traccia, "For The Love Of Ivy", dedicata a Poison Ivy
componente dei Cramps, si ripropone come folle corsa verso il buio e l'ignoto con le sue poderose impennate ritmiche e strumentali.
Jeffrey
Lee recupera parte delle proprie facoltà mentali in "Fire Spirit",
anch'essa maligna con il suo giro di basso da oltretomba, ma sono
momenti isolati, il delirium tremens si riappropria dell'anima del
gruppo nella scorribanda infernale di "Ghost On The Highway", dove la
slide impazzita sfreccia veloce accompagnata dagli spasmi del leader
che, novello Caronte, accompagna le anime dannate nel loro viaggio verso
l'inferno, "you're lost forever to the living men".
"Jack On
Fire" trasporta l'ascoltatore negli intricati vicoli di New Orleans, il
misterioso alone magico che permea la cittadina durante il Mardi Gras
prende corpo attraverso la ipnotiche visioni di Dotson. Pierce, alla
stregua di uno stregone voodoo, è capace di irretire anche le volontà
più ferree, con la sua recitazione intrisa di follia e consapevolezza
della propria infernale missione allo stesso tempo; e lo dimostra ancora
una volta in "Cool Drink Of Water", dove blatera ubriaco ma mellifluo
su un blues per alcolizzati. La sua aura sciamanica è malefica, al pari
di quello dei mostri sacri Morrison e Jagger.
Il
disco racchiude quindi un ampio catalogo di linguaggi musicali, ma
riesce nell'intento di miscelare tutte queste forme sonore ricavandone
un esplosivo concentrato di punk-rock rurale, che si rifà ampiamente
alla macabra iconografia tipica delle regioni del profondo sud degli
Stati Uniti. Il basso di Rob Ritter e la batteria di Ted Graham
forniscono una base che sa essere sia veemente che morbida, a seconda
che Pierce si produca in accelerazioni mozzafiato verso l'ignoto o in
ipnotiche cantilene blues. La chitarra di Dotson è sempre perfetta, nel
suo geniale accoppiamento di stili diversi e apparentemente
contrastanti, swamp blues e frenesia punk in primis.
Rifacendosi al lato più oscuro e demoniaco del rock, i Gun Club
riescono ad appianare divergenze apparentemente insormontabili, a unire
la violenza e la velocità dei punk urbani alle lente e inesorabili
cadenze del sud degli States, regalandoci un adrenalinico e grandioso
capolavoro del male.
Il freddo racconta il periodo passato da Thomas Bernhard, fra i
diciotto e i diciannove anni, nel sanatorio pubblico di Grafenhof. Ed è
la storia di un’altra lotta durissima per la sopravvivenza, dove la
malattia che assale il giovane Bernhard è al tempo stesso una malattia
terribilmente fisica – legata a una specifica persecutorietà ambientale e
sociale – e una malattia dell’anima, come già indica l’epigrafe di
Novalis, che è la chiave del libro: «Ogni malattia può essere definita
malattia dell’anima».
In questa vicenda di un «inabissarsi» in una
«comunità della morte», per poi riemergerne quando tutto sembra perduto,
arricchito dalla scoperta che «la via dell’assurdo è la sola
praticabile», e quasi salvato dalla musica (a cui allora contava di
dedicarsi), Bernhard ci offre il penultimo, possente pannello della sua
autobiografia, impresa solitaria e altissima della letteratura del
nostro tempo.
Caterpillar di Wakamatsu rappresenta un cinema che
attacca al cuore un sistema politico e culturale, evitando il facile
voyeurismo e allestendo uno spettacolo macabro e spietato.
La guerra partorisce mostri, del corpo e della psiche: nel 1940, il tenente Kurokawa torna al suo villaggio come eroe pluridecorato. Ma è senza gambe e senza braccia. Wakamatsu
affronta di petto le storture freak di ogni devozione ideologica e i
sacrifici sovrumani della devozione coniugale. Se esiste ancora oggi, in
epoca di totale de-politicizzazione della violenza, un cinema in grado
di scuotere e attaccare lo spettatore senza mezze misure, di certo
quello di Wakamatsu Koji ne ha tutte le
caratteristiche. Padre della gloriosa new wave nipponica che
fu, torna ancora una volta a destabilizzare con un ritratto corrosivo e
inconciliabile del Giappone, della Guerra e della retorica patriottica.
Il regista fin dalla prima sequenza di Caterpillar
chiarisce la bassezza morale del suo protagonista, riesce a
ricostruire, attraverso la grottesca storia di Kyuzo e della moglie
Shigeko, il processo di esasperazione del popolo giapponese, mettendo in
scena ripetutamente il ciclo sonno-cibo-sesso, via via minato da
flashback di rara efficacia. La parabola autodistruttiva del soldato
Kurokawa è la medesima parabola del Sol Levante, del mito
dell’Imperatore, così bene descritto da Il Sole di
Sokurov: la verità, devastante come le bombe di Hiroshima e Nagasaki,
ridimensionerà un impero morente. E il nuovo Giappone dovrà pagare
ancora col sangue. Esasperazione è una delle parole chiave di Caterpillar.
L’esasperazione di Shigeko, moglie costretta ad accudire un pezzo di
carne, un marito che già odiava, un uomo violento. Costretta a
soddisfarlo giorno dopo giorno, a pulirlo, a lavarlo, a sfamarlo.
L’esasperazione dello stesso Kyuzo, prigioniero di un corpo oramai
indifeso, mostro beffardamente venerato, uomo-monumento da portare in
giro tra la gente. L’esasperazione di un villaggio (e, per estensione,
di un popolo) costretto a sacrificare i suoi giovani, uno dopo l’altro. E
l’esasperazione verso cui viene trascinato lo spettatore, inchiodato di
fronte a questa potente, macabra, grottesca e dolorosa
rappresentazione. Wakamatsu non percorre facili sentieri, non cerca
fasulle riconciliazioni. Kōji Wakamatsu, mette in scena un’atroce e reiterata sconfitta: i tanti uomini
morti durante la guerra, le tantissime donne costrette a una prigionia
casalinga, a un’umiliazione fatta norma sociale. Eppoi la bomba.
Hiroshima e Nagasaki. Il 6 e il 9 agosto 1945. Centoquarantamila morti a
Hiroshima. Settantamila morti a Nagasaki. E tutti gli altri, milioni e
milioni, sparsi per il mondo, amici e nemici, uomini e donne, comunque
vittime.
Virgin Prunes,
il volto pagano dell'Irlanda. Addio Isola verde, terra di fate e di
folletti, di un cielo che si muove con te e di un Dio severo e
oppressivo. Quella, semmai, è la superficie. Le liturgie di Friday e
compagni sono il sottosuolo: un inferno brulicante di reietti, pronti a
emergere dalle viscere della terra e a scatenare la loro ancestrale
carica di bestialità. Eppure, proprio in quanto "prunes" (slang
dublinese per "derelitti"), sono anche "virgin", puri, perché
incontaminati. Virgin Prunes, la limpida fiamma della follia.
Ma
ripartiamo dall'inizio: 1977. Non un anno qualsiasi per il rock
d'oltremanica. La febbre punk infiamma le cantine d'Albione. Ma se
Londra brucia, Dublino non ride. Almeno quella dei Virgin Prunes... Non
propriamente un gruppo rock, bensì una comune artistica multimediale,
attiva in uno dei più creativi circoli sociali della città, il Lypton
Village. Tra i membri dell'accolita, anche due ragazzi di nome Paul
Hewson e David Evans, meglio conosciuti in seguito come Bono Vox e The
Edge degli U2.
Ma da allora le carriere dei Virgin Prunes e degli U2 scorreranno
parallele e quasi complementari tra loro: una sottotraccia, l'altra
sotto le luci della ribalta.
Sulle orme del Teatro del Dolore
di Artaud, i Prunes inscenano un raggelante cabaret dadaista,
all'insegna di urla e sangue, messe nere e danze sfrenate. Gavin Friday
(vero nome: Fionan Harvey), cantante, performer, e compositore, è
l'anima del gruppo, che comprende gli altri due vocalist Guggi (Derek
Rowan, fratello di Peter, il bambino raffigurato sulle copertine di
"Boy" e "War" degli U2) e Dave-id "Busaras" Scott (personaggio
infantile, rimasto segnato da una meningite contratta da bambino), il
bassista Strongman (Trevor Rowan, altro fratello di Derek), il
batterista Pod e il chitarrista Dik (Richard Evans, fratello di The
Edge). I primi singoli ed Ep del biennio 1980-'81 contengono già in nuce
la filosofia del loro progetto: armonizzare un folklore atavico con
sonorità d'avanguardia, mutuate dal ramo più colto del progressive (King Crimson, Genesis, Van Der Graaf Generator), dalle pantomime glam di David Bowie
e dalla tradizione gotica. Una congerie di idee e suoni disarticolati,
che sarà sublimata nel loro debutto sulla lunga distanza, targato 1982. Prodotto da Colin Newman dei Wire,
capace di incanalare la foga sperimentale del gruppo verso rotte più
"musicali", "...If I Die, I Die" è una raccolta di mini-piece immerse in
un clima di gelo surreale. Lo chiameranno glam-dark , e non a
torto, visto che di entrambi i generi riesce a catturare l'essenza. La
band, che presenta ora Mary D'Nellon dietro ai tamburi, suona con un
fervore esagitato, degno dei migliori Banshees. Strumenti tradizionali, come il whistle e il bhodran,
si saldano a chitarre elettriche dissonanti, a effetti rumoristici e a
suoni catturati dal vivo e registrati su basi elettroniche. La resa
teatrale dell'operazione è garantita soprattutto da Friday, crooner
d'oltretomba, con le sue litanie sinistre e allucinate.
"...If I
Die, I Die" è un incubo. Termine fin troppo abusato, si dirà, ma non in
questo caso. La poetica dei Virgin Prunes, infatti, si rifà
espressamente al tentativo dadaista di "togliere il sonno alla
borghesia". L'arte è lo strumento per oltraggiare il perbenismo
ufficiale, provocando, sbigottendo, disgustando. Ma è anche la chiave
per svelare la verità e la bellezza ("A New Form Of Beauty" si
intitolerà un altro loro progetto), sepolte da secoli di convenzioni
sociali e messe a repentaglio da un progresso disumanizzante (quella
paura del futuro che, dai Pere Ubu agli Ultravox, ha sempre ossessionato la new wave).
Ecco, allora, il senso di un rinnovato paganesimo, di un primitivismo
animalesco, che si ridestano, in una sorta di rito salvifico, per
liberare l'umanità. "...If I Die, I Die" è quasi un concept album su questo tema, sviluppato su più registri: grottesco, solenne, demenziale, apocalittico. Lo
strumentale "Ulakanakulot" schiude le porte di questo tempio eretico
sulle note di una minacciosa nenia medievale. Recuperando l'espediente
del "cerimoniale", già caro agli avi Stooges, Doors e Amon Duul,
e giocando sugli improvvisi cambi di ritmo, i Prunes intrappolano
l'ascoltatore in una spirale d'ansia infinita. Si susseguono così sketch
glaciali, al limite del cabaret brechtiano ("Decline And Fall", con la
declamazione straniante di Friday e il coro funereo sullo sfondo, o la
cantilena sguaiata di "Sweethome Under White Clouds", sfregiata dai
gemiti di un clarinetto) e sarabande indiavolate come la stupenda
"Caucasian Walk": un beffardo giro di danza slava tirato all'impazzata
con un dialogo ritmico in controtempo, tra le urla nevrasteniche del
cantante e l'infuriare delle percussioni. E' l'apice della violenza
"tribale" del disco e il più esplicito rimando agli etno-psicodrammi dei
Pil.
Altre volte, invece, Friday si cala nei panni di un dandy gigione, a metà tra il Peter Murphy più loffio e un Brian Ferry
in acido (il synth-pop di "Baby Turns Blue", con un cantato alla Bowie
puntellato dai fraseggi ficcanti di tastiere e chitarre, o la ballata
quasi convenzionale di "Ballad Of The Man", resa però sinistra
dall'arrangiamento ridondante e dai coretti surreali). Ma è solo fumo
negli occhi. L'illusione di una quiete che non potrà mai compiersi.
Anche perché ci sono le chitarre affilate di "Walls Of Jericho" in
agguato, e Friday è pronto a mettere in scena l'ennesima metamorfosi: da
dannato a predicatore (il testo svela che quantomeno i Prunes credono
nell'esperienza umana di Cristo - Friday e Guggi frequentarono anche per
un periodo il gruppo "Shalom"). Nei quasi sei minuti di "Bau-Dachong",
invece, sembra di ascoltare una versione ancor più spettrale dei Bauhaus,
tra fremiti metallici delle chitarre, echi, riverberi e una sezione
ritmica sempre più ossessiva, come si confà ai dogmi del dark-punk. "Theme
For Thought" propone invece un inserto di "The Ballad Of Reading Gaol"
di Oscar Wilde, del quale i Prunes condividono l'estetica decadente e il
feroce anticonformismo. È l'atto finale, affidato ancora una volta al
baritono melodrammatico di Friday, cui si sovrappongono le lagne dementi
dei compari, quasi a voler rimarcare quella vena d'infantilismo
isterico che è un altro leitmotiv del disco.
Il cabaret dei Virgin Prunes ha tenuto i
battenti fino al 1986, sempre più surreale, sempre meno redditizio. Poi,
la band si disperderà e Friday seguirà altre e più lucrose rotte. Ma lo
shock sonoro di "...If I Die, I Die" continuerà a riverberarsi negli
anni successivi. E chissà che anche i protagonisti della rinascita new
wave del Duemila non debbano qualcosa a questi vecchi fauni irlandesi.
Il giovane Kirk Brandon era un ragazzo molto turbolento e decisamente appassionato alle vicende politiche di cui era testimone. Fortemente ideologizzato a sinistra, aveva fondato il gruppo punk dei The Pack, per poi suonare il basso, più o meno contemporaneamente, con gli appena formati Culture Club di Boy George. Il giovane Brandon presto capì che la sua sfera ideale era quella punk, innanzitutto per l’immediatezza che permetteva all’espressione artistica, ma anche per la sottomissione dei requisiti tecnici al messaggio politico da veicolare. Ebbe in seguito la fortuna di incontrare una delle sezioni ritmiche più formidabili dell’intera scena post-punk: il bassista Stan Stammers, amico di vecchia data, ed il forsennato batterista Luke Rendle, di tutti quello più rodato, avendo suonato i tamburi né più né meno che dei Crisis. Reclutato poi un sassofonista classico come il canadese John Lennard, il quartetto, chiamatosi Theatre of Hate, si mise subito a seguire, portandole alle estreme conseguenze, le orme degli UK Decay, ovvero quelle più infuocate nella performance e più impegnate politicamente.
Ciò che rese i Theatre of Hate un vero e proprio mito per la Londra underground furono le loro performance live, infuocate come poche, fatte di inni contro la decadente società borghese e per la coscienza di classe del proletariato. Il botto lo fece il disco che ne uscì, per la Burning Rome, nella tarda primavera del 1982: Westworld, precedentemente definito la pietra angolare del positive punk (ovvero la convinzione che il mondo fosse migliorabile tramite la protesta e la lotta sociale). Il gruppo era quindi destinato a rimanere sostanzialmente estraneo al fenomeno dark, sennonché i quattro si ritrovavano a dover incidere un intero album in studio, lontano dal loro ambiente naturale, il palco. Necessariamente la situazione impediva di puntare sulle loro doti di immediatezza ed energia performativa e quindi il produttore Steve Jones decise che fosse il caso di enfatizzare il loro lato più torbido. Ecco quindi il segreto di Westworld. Il risultato fu un gran disco tanto figlio del punk che della dark wave.
Sorprendendo un po’ tutti, il disco si piazzò al 20° posto delle classifiche ufficiali inglesi. A questo punto il successo fece il resto: concerti sempre più esagitati, Kirk Brandon sempre più nervoso. Il primo a lasciarlo fu il chitarrista Billy Duffy che praticamente ricostruì il gruppo chiamandolo Southern Death Cult. Poi, sempre più incapace di gestire i dissapori all’interno del gruppo, soprattutto dopo il fallimento delle successive prove discografiche, Brandon mandò tutti a casa, salvo poi risorgere accompagnato dal solo bassista Stammers come Spear of Destiny.