giovedì 27 luglio 2023

"È solo la fine del mondo" - Xavier Dolan (2016)





E' da attribuire a un principio di sottrazione più che di espansione – contrariamente a quanto avviene di solito nell’adattamento di un testo teatrale per il cinema – la profonda stilizzazione con cui Xavier Dolan confeziona la messa in scena di Juste la fin du monde (1990) di Jean-Luc Lagarce. Considerata da molti il capolavoro dell’autore, morto di Aids a 38 anni nel 1995, la pièce racconta il ritorno a casa dopo 12 anni del giovane scrittore omosessuale Louis che intende preannunciare ai familiari la propria morte, con l’intento di dare un senso agli ultimi giorni della sua vita. Sesto lungometraggio di Xavier Dolan, premiato a Cannes con il Grand Prix nel 2016, È solo la fine del mondo non si discosta dal testo teatrale ma lo rielabora in un‘architettura di immagini claustrofobiche, incollate al volto dei personaggi, ritratti in primissimi piani che debordano dallo schermo. La parola del testo originale, frammentata e complessa, non si tramuta semplicemente in linguaggio verbale ma assume una valenza sonora (con dialoghi urlati, ridondanti, ossessivi) e visiva (attraverso l’uso esclusivo del viso in lunghe sequenze di campi e controcampi).

Le immagini consistono in dettagli espressivi dei volti e in flashback di ricordi e visioni spesso montati in forma di ralenti ed esaltati dalla musica. I personaggi (la madre, il fratello, la sorella e la cognata di Louis) sono intrappolati in un luogo quasi senza tempo, quello dell’infanzia e della nostalgia, a cui il giovane fa ritorno. Straniati dal ritmo incalzante di conversazioni isteriche e dall’ossessivo pedinamento che la macchina da presa opera sui volti e sugli occhi, appaiono come fantasmi di se stessi, teste di fantocci svuotati della propria anima, proiezioni e simulacri dell’incomunicabilità affettiva.


Odio e amore, gelosia ed affetto si impongono come sentimenti ingovernabili, rivelati dagli sguardi e dalla mimica facciale ma celati dalle parole, impronunciabili, a denunciare il netto distacco fra il pensiero che ogni personaggio ha di sé e degli altri e la capacità di esternarlo.  Sebbene sia centrale, come nella precedente filmografia di Dolan, il rapporto con la figura materna, il conflitto principale, in questo burrascoso ritratto di famiglia in un interno, è tra i due fratelli: mentre Louis è riuscito ad abbandonare il nido familiare per seguire le sue aspirazioni e costruirsi una vita autonoma ma percepisce il senso costante dell’abbandono che diviene il suo rimorso e il suo malessere interiore, Antoine non ne è stato capace e questo alimenta la rabbia e il rancore nei confronti del fratello.


Da un lato teme la sua omosessualità e lo disprezza, dall’altro ne invidia la libertà creativa. Paradossalmente, l’unico strumento possibile della comunicazione familiare è il silenzio, l’isolamento muto, riservato e schivo, con cui Louis osserva ad ascolta, mentre l’eloquio ostinato, violento e verboso di Antoine materializza il vuoto della comunicazione affettiva. La parola evoca dunque la negazione dei sentimenti e la loro autocensura. Non è l’assenza di sentimenti ad essere incomunicabile ma il loro eccesso. Le emozioni dei personaggi sono talmente profonde che non la parola, solo il silenzio riesce ad esprimerle. Proprio per questo, dopo il momento del commiato finale, che chiude la scena su un’impossibile armonia familiare, Louis è nuovamente solo, nell’ingresso dov’era stato accolto inizialmente dalla famiglia, ormai un estraneo fra gli spettri della memoria.


Dischi nella tomba: L'enfance Rouge - Trapani-Halq al Waady (2008)


Il Sesto album per Il terzetto italo-francese è un lavoro affascinante, maturo e spiazzante. Noise-rock monolitico e suoni mediterranei si incontrano in un'apocalisse al confine tra due mondi: il grigiore metropolitano di Bästard e Ulan Bator e il misticismo antico della musica nordafricana.
Il disco è il manifesto di una contro-colonizzazione sonora che si consuma in una infuocata danza apolide sospesa tra asperità (noise, post-rock) e melodie e atmosfere di matrice magrebina realizzate da un gruppo di musicisti tunisini capitanati dal maestro Mohamed Abid virtuoso di oud (una sorta di liuto), all’interno dell’Orchestra Nazionale de La Rachidia, che trova la giusta chiave di lettura (tramite misurati interventi vocali, arpeggi minimali, fiati e percussioni che allargano lo spettro sonoro) agli spasmi rumoristi di Cambuzat e soci.

Niente a che vedere col turismo musicale più becero: l'iniziale "Otranto" chiarisce da subito che "Trapani-Halq al Waady" affianca oud e sciabolate elettriche, forme tradizionali e spleen contemporaneo in un sound lucido, coeso e lontano dal terzomondismo.


Ieratica, Chiara Locardi declama versi torvi e disincantati sugli 11/8 di "Ras et Ahmar"; chitarre laceranti e vapori esotici avvolgono un racconto a cavallo fra tempi e luoghi. 

La frontiera, il fascino atavico del remoto: elementi cardine dell'immaginario Enfance Rouge, non sono mai stati evocativi e tangibili quanto negli arabeschi flautistici di "Ana Lastu Amrikyyan", martoriati di colate noise, o nei contorcimenti vocali che chiudono "Hurricane Lily".

Quando è François Cambuzat a prendere il microfono, i toni si fanno ancora più torpidi. "Tombeau pour New York" opprime, soffoca: clangori, incedere marziale e un basso pachidermico la cui tensione letargica pervade l'intero album. Poca, pochissima la luce, una fiamma moribonda quella che riscalda la placidità tunisina di "Vendicatori" o "Petite-mort".
Cinico, graffiante, eppure denso di passione, sensibilità, poesia, "Trapani-Halq al Waady" è più che un disco una città, una porta tra continenti. Unica, in tutti i suoi contrasti e chiaroscuri.

"Piuttosto che la giustizia preferiamo il caos"