E' da attribuire a un principio di sottrazione più che di espansione – contrariamente a quanto avviene di solito nell’adattamento di un testo teatrale per il cinema – la profonda stilizzazione con cui Xavier Dolan confeziona la messa in scena di Juste la fin du monde (1990) di Jean-Luc Lagarce. Considerata da molti il capolavoro dell’autore, morto di Aids a 38 anni nel 1995, la pièce racconta il ritorno a casa dopo 12 anni del giovane scrittore omosessuale Louis che intende preannunciare ai familiari la propria morte, con l’intento di dare un senso agli ultimi giorni della sua vita. Sesto lungometraggio di Xavier Dolan, premiato a Cannes con il Grand Prix nel 2016, È solo la fine del mondo non si discosta dal testo teatrale ma lo rielabora in un‘architettura di immagini claustrofobiche, incollate al volto dei personaggi, ritratti in primissimi piani che debordano dallo schermo. La parola del testo originale, frammentata e complessa, non si tramuta semplicemente in linguaggio verbale ma assume una valenza sonora (con dialoghi urlati, ridondanti, ossessivi) e visiva (attraverso l’uso esclusivo del viso in lunghe sequenze di campi e controcampi).
Le immagini consistono in dettagli espressivi dei volti e in flashback di ricordi e visioni spesso montati in forma di ralenti ed esaltati dalla musica. I personaggi (la madre, il fratello, la sorella e la cognata di Louis) sono intrappolati in un luogo quasi senza tempo, quello dell’infanzia e della nostalgia, a cui il giovane fa ritorno. Straniati dal ritmo incalzante di conversazioni isteriche e dall’ossessivo pedinamento che la macchina da presa opera sui volti e sugli occhi, appaiono come fantasmi di se stessi, teste di fantocci svuotati della propria anima, proiezioni e simulacri dell’incomunicabilità affettiva.
Odio e amore, gelosia ed affetto si impongono come sentimenti ingovernabili, rivelati dagli sguardi e dalla mimica facciale ma celati dalle parole, impronunciabili, a denunciare il netto distacco fra il pensiero che ogni personaggio ha di sé e degli altri e la capacità di esternarlo. Sebbene sia centrale, come nella precedente filmografia di Dolan, il rapporto con la figura materna, il conflitto principale, in questo burrascoso ritratto di famiglia in un interno, è tra i due fratelli: mentre Louis è riuscito ad abbandonare il nido familiare per seguire le sue aspirazioni e costruirsi una vita autonoma ma percepisce il senso costante dell’abbandono che diviene il suo rimorso e il suo malessere interiore, Antoine non ne è stato capace e questo alimenta la rabbia e il rancore nei confronti del fratello.
Da un lato teme la sua omosessualità e lo disprezza, dall’altro ne invidia la libertà creativa. Paradossalmente, l’unico strumento possibile della comunicazione familiare è il silenzio, l’isolamento muto, riservato e schivo, con cui Louis osserva ad ascolta, mentre l’eloquio ostinato, violento e verboso di Antoine materializza il vuoto della comunicazione affettiva. La parola evoca dunque la negazione dei sentimenti e la loro autocensura. Non è l’assenza di sentimenti ad essere incomunicabile ma il loro eccesso. Le emozioni dei personaggi sono talmente profonde che non la parola, solo il silenzio riesce ad esprimerle. Proprio per questo, dopo il momento del commiato finale, che chiude la scena su un’impossibile armonia familiare, Louis è nuovamente solo, nell’ingresso dov’era stato accolto inizialmente dalla famiglia, ormai un estraneo fra gli spettri della memoria.