mercoledì 30 marzo 2022
Il Processo - Orson Welles (1962)
Strano destino quello de Il Processo. Il film più amato e difeso da Welles, sicuramente quello a cui è più affezionato – forse perché finalmente realizzato senza le leggendarie manomissioni dei produttori -, ma nel contempo il film più discusso dai suoi più grandi ammiratori. Bogdanovich e Truffaut in primis. Welles incontra Kafka, allora, e potremmo fermarci qui.
Strano destino quello de Il Processo. Il film più amato e difeso da Welles, sicuramente quello a cui è più affezionato – forse perché finalmente realizzato senza le leggendarie manomissioni dei produttori -, ma nel contempo il film più discusso dai suoi più grandi ammiratori. Bogdanovich e Truffaut in primis. Welles incontra Kafka, allora, e potremmo fermarci qui.
La parabola della porta della Legge, non poteva che diventare l’incipit meraviglioso del film – frutto di due geniali artisti come Alexandre Alexeieff e Claire Parker che lavoravano con l’ombra degli spilli, producendo tavole animate dalle ombre, quindi la porta della Legge è già di per sé cinema fatto di fantasmi riflessi nel buio… – dettando il tempo onirico di ogni successiva inquadratura. Questo è lo smarcamento decisivo e più evidente rispetto a Kafka: se lo scrittore praghese opera a inizio Novecento immaginando un futuro abissale che pian piano entra nella carne del lettore come uno spillo; Welles opera invece negli anni ’60 a macerie compiute (la seconda guerra mondiale) e la materia su cui operare diventa solo il sogno, il fantasma che ci portiamo dentro come fardello nella modernità. Dalla porta della Legge in poi, pertanto, Il Processo diventa un film dominato da porte-comunicanti, tutto confinato in interni, trionfo del piano sequenza e della profondità di campo mutata di segno: l’immagine è un carcere che imprigiona K. e gli nega il fuori-campo. E non è certo un caso che il film, catalizzi una babele di umori cinematografici: dall’Anthony Perkins hithchcokiano che è già (stato) Psycho alla Jeanne Moreau sensuale dei primi Truffaut; dalla schiera di scrivanie ne la Folla di Vidor a tutte le ombre dei noir anni ’40; dai sogni felliniani di Otto e Mezzo a molti surrealismi bunueliani, dai sotterranei ripresi in grandangolo dal futuro universo di Gilliam all’ironia edipica che ispirerà molto David Lynch.
Il film sul piccolo impiegatuccio schiacciato dalla burocrazia del nuovo-mondo, diventa imponente nella nostra percezione spettatoriale. Forse perché il “racconto” non è mai veramente di Joseph K. che qui diventa solo un testimone e mai un agente di senso, defraudato anche del “suo” monologo interiore. Il protagonista diventa il Cinema: sono le luci, il setting, le innumerevoli comparse, insomma è il processo di costruzione l’unico fuori-campo dell’immagine wellesiana. Un’immagine che ingabbia e mozza il fiato, perturba e lascia scarti, si smarca da ogni aderenza al testo ma usa i nostri occhi come l’ennesima porta sul mondo. Questo film è una vertigine senza fine ma anche un freddo film-cervello: Il vero K. è infine Welles, allora, che combatte davanti alla porta del Cinema e crea nuove Leggi dalle sue sconfitte.
Rivedere oggi Il processo va oltre l’ovvia curiosità di assistere all’incontro tra due dei più grossi geni novecenteschi. Perché il film che immagina il vuoto nelle macerie, configura anche la resistenza di uno sguardo al di la di ogni limite.
La parabola
della porta della Legge, non poteva che diventare l’incipit meraviglioso del
film – frutto di due geniali artisti come Alexandre Alexeieff e Claire
Parker che lavoravano con l’ombra degli spilli, producendo tavole
animate dalle ombre, quindi la porta della Legge è già di per sé cinema
fatto di fantasmi riflessi nel buio… – dettando il tempo onirico di ogni
successiva inquadratura. Questo è lo smarcamento decisivo e più evidente
rispetto a Kafka: se lo scrittore praghese opera a inizio Novecento
immaginando un futuro abissale che pian piano entra nella carne del
lettore come uno spillo; Welles opera invece negli anni ’60 a macerie compiute
(la seconda guerra mondiale) e la materia su cui operare diventa solo il
sogno, il fantasma che ci portiamo dentro come fardello nella modernità.
Dalla porta della Legge in poi, pertanto, Il Processo diventa un
film dominato da porte-comunicanti, tutto confinato in interni,
trionfo del piano sequenza e della profondità di campo mutata di segno:
l’immagine è un carcere che imprigiona K. e gli nega il fuori-campo. E non è
certo un caso che il film, catalizzi una babele di umori cinematografici:
dall’Anthony Perkins hithchcokiano che è già (stato) Psycho alla Jeanne
Moreau sensuale dei primi Truffaut; dalla schiera di scrivanie ne la Folla
di Vidor a tutte le ombre dei noir anni ’40; dai sogni felliniani di Otto e
Mezzo a molti surrealismi bunueliani, dai sotterranei ripresi in grandangolo
dal futuro universo di Gilliam all’ironia edipica che ispirerà molto
David Lynch.
Il film sul
piccolo impiegatuccio schiacciato dalla burocrazia del nuovo-mondo, diventa
imponente nella nostra percezione spettatoriale. Forse perché il “racconto” non
è mai veramente di Joseph K. che qui diventa solo un testimone e mai un agente
di senso, defraudato anche del “suo” monologo interiore. Il protagonista diventa
il Cinema: sono le luci, il setting, le innumerevoli comparse, insomma è il
processo di costruzione l’unico fuori-campo dell’immagine wellesiana.
Un’immagine che ingabbia e mozza il fiato, perturba e lascia scarti, si
smarca da ogni aderenza al testo ma usa i nostri occhi come
l’ennesima porta sul mondo. Questo film è una vertigine senza fine ma anche un
freddo film-cervello: Il vero K. è infine Welles, che combatte davanti alla porta del Cinema e crea nuove Leggi dalle sue
sconfitte.
giovedì 24 marzo 2022
Johnny Got His Gun - Dalton Trumbo (1971)
Esiste qualcosa peggio di un incubo?
Esserci dentro senza un motivo e patirne il terrore, tutto di matrice
psicologica, privati persino della sofferenza fisica, della pietà verso se
stessi e della pena che vorremmo suscitare negli altri, l’incubo si manifesta
in un modo così insopportabile da non lasciare altra soluzione che il
risveglio.
Risvegliarsi per ricominciare il patimento dal punto esatto in cui lo avevamo
lasciato equivale grosso modo all’idea cristiana dell’Inferno, la massima pena
possibile, allo stesso tempo psicologica e fisica.
Eppure, "E Johnny prese il fucile" modella su di un corpo
orrendamente mutilato un nuovo tassello del dolore.
Johnny (Timothy Buttoms) è un sano e gioviale panettiere ventunenne che alla
vigilia di una vita adulta già pianificata decide di offrire alla Patria il suo
ultimo colpo di testa, nei teatri europei della Grande Guerra che sarà
probabilmente la sua unica occasione di vedere il mondo in quella estrema forma
di turismo organizzato che da sempre è la guerra.
Il racconto ha una struttura analettica: un presente in un modesto ospedale
francese fotografato in un b/n che altro non è che la desaturazione
della palette cromatica che, al contrario, esplode senza soluzioni di
continuità nei flashback e nei sogni con un technicolor a tratti
lisergico.
Come per un neonato, il tempo scorre lentamente e solo dopo diciotto mesi
Johnny avrà completato le informazioni che riguardano la sua nuova vita.
Al contrario dell’infante il cui stare al mondo è una presa delle sue misure e
delle sue insidie, troppo al di là delle sue possibilità, Johnny deve rifare
quel cammino iniziale sotto una nuova prospettiva: i limiti del corpo che non
percepisce e che sembra perdere quotidianamente forza invece di
acquistarne.
Colpito in pieno da una bomba tedesca nel mentre insieme alla sua pattuglia
provava a recuperare il cadavere in putrefazione di un "grasso
bavarese", Johhny è riuscito a salvarsi la vita rannicchiandosi al momento
dell’esplosione nella posizione della difesa più disperata, quella fetale che
gli ha conservato l’ombelico (da cui era diventato un Individuo Distinto),
l’apparato riproduttivo e una porzione del cervelletto sulle cui capacità
residue la scienza si interroga lungo tutto il film.
L’aspetto più suggestivo della nostra storia non è infatti la capacità di
Johnny di crearsi un calendario mentale su cui trascrivere i giorni, i mesi e
anche gli anni che passano quanto invece quelle montagne russe della coscienza
che sono i momenti di appercezione (di sé, della sua condizione) e le angosce
della sua nuova cartografia, quando si accorge che "la cosa più prossima
al suo braccio è la spalla e che tutto questo è un territorio immaginario
sostituito da un grande buco che gli impedirà di tornare al suo lavoro di
panettiere".
Così come è suggestiva l’agnizione dei raggi del sole che si posano sul petto,
riscaldandolo.
Da questo punto di vista,
"E Johnny prese il fucile" è una odissea come quella di Kubrick nello
spazio micro di un corpo mutilato.
Johnny si illude così di poter infine comunicare coi suoi ormai
irreversibilmente dissimili. Si slancia su questa possibilità con tutta
l’enfasi di cui è capace, in un ultimatum: fargli raccontare al Mondo la sua
storia, la sua sofferenza, messo comodo in una bara di seta e all’interno di un
tendone da circo con la biglietteria a quindici centesimi per spettacolo.
Oppure lasciarlo andare, aiutarlo a morire.
Messosi in trappola da solo, Johnny si battezza come lo scandalo insostenibile.
Non è più il monstrum che si era illuso poter essere, non può più
essere mostrato perché il suo quadro clinico che la medicina poteva elaborare
ha superato il comodo recinto della biologia, della chimica, dell’elettricità…
Johnny è una macchina che si ostina a vivere contro ogni evidenza.
Dalton Trumbo è stato uno dei più quotati sceneggiatori della Grande Hollywood;
iscritto a
l Partito Comunista fu attenzionato dal senatore Mc Carthy e fu uno
dei dieci professionisti che rifiutarono ogni sorta di patteggiamento o di
abiura il che gli costò undici mesi di prigione e la disoccupazione. Trumbo
continuò a lavorare sotto pseudonimo col quale firmò, tra le altre, le
sceneggiature di "Spartacus" (Stanley Kubrick) e "Exodus"
(Otto Preminger) entrambe del 1960.
Il romanzo "Johnny Got his Gun" fu da lui scritto nel 1936 e aveva lo
scopo tattico di predicare il non intervento americano in Europa; quando nel
1941 le armate di Hitler invasero l’URSS la strategia mutò e Dalton si impegnò
personalmente a ritirare dal commercio il suo romanzo così come si interruppe
la produzione del film che vide la luce solo nel 1971, unico suo lavoro da
regista e ultimo atto di una carriera brillante che lo vide vincitore di due
Oscar per il miglior soggetto, "Vacanze romane" (William Wyler, 1953)
e "La grande corrida" (Irving Rapper, 1956).