Strano destino quello de Il Processo. Il film più amato e difeso da Welles, sicuramente quello a cui è più affezionato – forse perché finalmente realizzato senza le leggendarie manomissioni dei produttori -, ma nel contempo il film più discusso dai suoi più grandi ammiratori. Bogdanovich e Truffaut in primis. Welles incontra Kafka, allora, e potremmo fermarci qui.
Strano destino quello de Il Processo. Il film più amato e difeso da Welles, sicuramente quello a cui è più affezionato – forse perché finalmente realizzato senza le leggendarie manomissioni dei produttori -, ma nel contempo il film più discusso dai suoi più grandi ammiratori. Bogdanovich e Truffaut in primis. Welles incontra Kafka, allora, e potremmo fermarci qui.
La parabola della porta della Legge, non poteva che diventare l’incipit meraviglioso del film – frutto di due geniali artisti come Alexandre Alexeieff e Claire Parker che lavoravano con l’ombra degli spilli, producendo tavole animate dalle ombre, quindi la porta della Legge è già di per sé cinema fatto di fantasmi riflessi nel buio… – dettando il tempo onirico di ogni successiva inquadratura. Questo è lo smarcamento decisivo e più evidente rispetto a Kafka: se lo scrittore praghese opera a inizio Novecento immaginando un futuro abissale che pian piano entra nella carne del lettore come uno spillo; Welles opera invece negli anni ’60 a macerie compiute (la seconda guerra mondiale) e la materia su cui operare diventa solo il sogno, il fantasma che ci portiamo dentro come fardello nella modernità. Dalla porta della Legge in poi, pertanto, Il Processo diventa un film dominato da porte-comunicanti, tutto confinato in interni, trionfo del piano sequenza e della profondità di campo mutata di segno: l’immagine è un carcere che imprigiona K. e gli nega il fuori-campo. E non è certo un caso che il film, catalizzi una babele di umori cinematografici: dall’Anthony Perkins hithchcokiano che è già (stato) Psycho alla Jeanne Moreau sensuale dei primi Truffaut; dalla schiera di scrivanie ne la Folla di Vidor a tutte le ombre dei noir anni ’40; dai sogni felliniani di Otto e Mezzo a molti surrealismi bunueliani, dai sotterranei ripresi in grandangolo dal futuro universo di Gilliam all’ironia edipica che ispirerà molto David Lynch.
Il film sul piccolo impiegatuccio schiacciato dalla burocrazia del nuovo-mondo, diventa imponente nella nostra percezione spettatoriale. Forse perché il “racconto” non è mai veramente di Joseph K. che qui diventa solo un testimone e mai un agente di senso, defraudato anche del “suo” monologo interiore. Il protagonista diventa il Cinema: sono le luci, il setting, le innumerevoli comparse, insomma è il processo di costruzione l’unico fuori-campo dell’immagine wellesiana. Un’immagine che ingabbia e mozza il fiato, perturba e lascia scarti, si smarca da ogni aderenza al testo ma usa i nostri occhi come l’ennesima porta sul mondo. Questo film è una vertigine senza fine ma anche un freddo film-cervello: Il vero K. è infine Welles, allora, che combatte davanti alla porta del Cinema e crea nuove Leggi dalle sue sconfitte.
Rivedere oggi Il processo va oltre l’ovvia curiosità di assistere all’incontro tra due dei più grossi geni novecenteschi. Perché il film che immagina il vuoto nelle macerie, configura anche la resistenza di uno sguardo al di la di ogni limite.
La parabola
della porta della Legge, non poteva che diventare l’incipit meraviglioso del
film – frutto di due geniali artisti come Alexandre Alexeieff e Claire
Parker che lavoravano con l’ombra degli spilli, producendo tavole
animate dalle ombre, quindi la porta della Legge è già di per sé cinema
fatto di fantasmi riflessi nel buio… – dettando il tempo onirico di ogni
successiva inquadratura. Questo è lo smarcamento decisivo e più evidente
rispetto a Kafka: se lo scrittore praghese opera a inizio Novecento
immaginando un futuro abissale che pian piano entra nella carne del
lettore come uno spillo; Welles opera invece negli anni ’60 a macerie compiute
(la seconda guerra mondiale) e la materia su cui operare diventa solo il
sogno, il fantasma che ci portiamo dentro come fardello nella modernità.
Dalla porta della Legge in poi, pertanto, Il Processo diventa un
film dominato da porte-comunicanti, tutto confinato in interni,
trionfo del piano sequenza e della profondità di campo mutata di segno:
l’immagine è un carcere che imprigiona K. e gli nega il fuori-campo. E non è
certo un caso che il film, catalizzi una babele di umori cinematografici:
dall’Anthony Perkins hithchcokiano che è già (stato) Psycho alla Jeanne
Moreau sensuale dei primi Truffaut; dalla schiera di scrivanie ne la Folla
di Vidor a tutte le ombre dei noir anni ’40; dai sogni felliniani di Otto e
Mezzo a molti surrealismi bunueliani, dai sotterranei ripresi in grandangolo
dal futuro universo di Gilliam all’ironia edipica che ispirerà molto
David Lynch.
Il film sul
piccolo impiegatuccio schiacciato dalla burocrazia del nuovo-mondo, diventa
imponente nella nostra percezione spettatoriale. Forse perché il “racconto” non
è mai veramente di Joseph K. che qui diventa solo un testimone e mai un agente
di senso, defraudato anche del “suo” monologo interiore. Il protagonista diventa
il Cinema: sono le luci, il setting, le innumerevoli comparse, insomma è il
processo di costruzione l’unico fuori-campo dell’immagine wellesiana.
Un’immagine che ingabbia e mozza il fiato, perturba e lascia scarti, si
smarca da ogni aderenza al testo ma usa i nostri occhi come
l’ennesima porta sul mondo. Questo film è una vertigine senza fine ma anche un
freddo film-cervello: Il vero K. è infine Welles, che combatte davanti alla porta del Cinema e crea nuove Leggi dalle sue
sconfitte.
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