giovedì 3 febbraio 2022

Dischi nella tomba: The Stooges - The Stooges (1969)

 

Ann Arbor, periferia di Detroit, primi anni ’60. Un certo James Newell Osterberg, allora non ancora ventenne, forma gli Psychedelic Stooges, dopo aver militato in alcuni gruppi locali. Il cantante, che da lì in poi prenderà il nome di Iggy Pop, è ispirato dal blues e specialmente dai The Doors del suo idolo Jim Morrison. Prima ancora dello stile musicale, Iggy ne eredita la carica oltraggiosa e dionisiaca delle performance live. Giunta infatti al debutto sui palchi un paio di anni dopo, la band si fa principalmente notare per i suoi concerti devastanti, durante i quali il cantante da sfoggio di un esibizionismo sfrenato, che sfocia spesso nell’autolesionismo. E proprio la violenza delle esibizioni procura alla band un contratto con l’etichetta Elektra Records che, dopo aver suggerito alla formazione di lasciar perdere l’aggettivo psychedelic, produce il primo album dei The Stooges, pubblicato nel 1969.


1969 è anche il nome del primo brano di The Stooges, un robusto boogie retto da una potente sezione ritmica, dove la fradicia chitarra di Ron Asheton vomita watt impazziti e incandescenti. Il testo ci introduce subito nel mondo depravato di Iggy dove la noia regna sovrana: It’s another year for me and you, another year with nothing to do. Desolazione e nichilismo che caratterizzano anche No Fun, uno degli inni (proto-)punk dell’album. Tre accordi ripetitivi su cui un acido Iggy vomita tutta la sua noia: No fun to hang around, feelin’ the same old way, no fun to hang around, freaked out for another day. Ancora più devastante è I Wanna Be Your Dog, canzone simbolo dell’intero lavoro. Un riff malvagio quanto semplice, punk prima del tempo, si ripete implacabile e ripetitivo mentre Iggy declama un testo oltraggioso, dall’animalesca carica sessuale. Il rapporto malato con l’altro sesso si rivela essere un altro tema centrale del lavoro, come dimostrato in Little Doll e Ann.

La prima, un abrasivo e oscuro rock’n’roll che si conclude con l’immancabile assolo caustico di chitarra, è l’elogio di una prostituta. La seconda racconta invece di un malato rapporto di dominazione, mentre musicalmente cambia drasticamente registro, rivelandosi un lugubre e psichedelico lento, retto da una batteria minimale e da una chitarra riverberata, rotta poi da un lancinante assolo. Dello stesso stile, ma ancora più nera, è l’angosciante We Will Fall. Una lisergica litania di dieci minuti, composta da un funereo coro e dall’ossessiva viola di John Cale, violista dei Velvet Underground e produttore dell’album.

Una messa nera sui cui Iggy recita un testo criptico e ripetitivo. La presenza di Cale non è casuale, questo è infatti l’episodio dove maggiormente emergono le intense influenze di Velvet Underground e The Doors. I restanti due brani, Real Cool Time e Not Right, riprendono, anche se in maniera più classica, gli ingredienti degli episodi più spinti del lavoro, conditi da due testi semplici quanto potentemente allusivi.

Che dire d’altro? Grezzo, violento, oltraggioso, ma soprattutto molto, molto in anticipo sui tempi. Il debutto dei The Stooges è un album rivoluzionario, precursore. In pieno periodo hippie, la band pone infatti le inconsapevoli radici di ciò che una decina di anni dopo si sarebbe chiamato punk, a livello musicale quanto lirico, alzando considerevolmente l’asticella della violenza sonora. I The Stooges faranno forse ancor meglio con i due seguenti lavori, prima di chiudere un’esperienza fulminante quanto fondamentale. Il resto è storia.


Altered States - Ken Russell (1980)

 

 


Tutto ebbe inizio verso la fine degli anni Cinquanta, quando un neuro-psichiatra americano, tale John Lilly, convertì una vasca per lo studio dei sommozzatori in una sorta di incubatrice della mente umana. Stiamo parlando della così detta vasca di deprivazione sensoriale, ovvero una struttura sigillata, priva di illuminazione e riempita di acqua tiepida, all’interno della quale il medico conduceva i suoi soggetti che, trovandosi in uno stato di totale isolamento fisico ed emotivo, entravano in una profonda fase di rilassamento. In qualche caso dottore e paziente venivano a coincidere, perché Lilly diresse su di sé i propri esperimenti, prima affondando nella cisterna e partorendo allucinazioni (effetto collaterale degli studi), quindi assumendo regolarmente ketamina e sostanze analoghe (pare che abbia utilizzato tale farmaco per ventun giorni consecutivi, somministrandoselo in dosi di 50 mg ogni ora).

Gli studi dell’eccentrico dottore stimolarono l’immaginazione di uno scrittore, Paddy Chayefsky, che nel 1978 pubblicò, appunto, Stati di allucinazione, suo primo e ultimo romanzo. Un paio di anni dopo, la Columbia si interessò del progetto, chiamando lo stesso Chayefsky a sceneggiare il futuro film, e Arthur Penn a dirigere. I due litigarono presto, e Penn abbandonò l’impresa, esattamente come la casa produttrice che si tirò indietro, cedendo il tutto alla Warner. La scelta cadde su Ken Russell che, per quanto battibeccasse con Chayefsky, condusse in porto l’operazione. Il risultato è un film fantascientifico con venature horror e grottesche. William Hurt al suo film d’esordio ci fa comunque una bella figura, interpretando uno scienziato folle disposto a immolare se stesso e la propria incolumità sull’altare della scienza. Immerso a lungo nella vasca di deprivazione sensoriale, le droghe che gli scorrono per le vene, l’uomo arriva in un primo momento a modificare la propria conformazione genetica.

 Pronto a sacrificare se stesso e quanto ha di più caro pur di sondare il mistero della vita, si ricrea e rinasce misurandosi in esistenze diverse, trascinandosi in un vorticoso incubo di autoannientamento: un buco nero cui conduce una scienza che ha smarrito la ragione e che somiglia sempre di più ad una intossicante assuefazione.