Ann Arbor, periferia di Detroit, primi anni ’60. Un certo James Newell Osterberg, allora non ancora ventenne, forma gli Psychedelic Stooges, dopo aver militato in alcuni gruppi locali. Il cantante, che da lì in poi prenderà il nome di Iggy Pop, è ispirato dal blues e specialmente dai The Doors del suo idolo Jim Morrison. Prima ancora dello stile musicale, Iggy ne eredita la carica oltraggiosa e dionisiaca delle performance live. Giunta infatti al debutto sui palchi un paio di anni dopo, la band si fa principalmente notare per i suoi concerti devastanti, durante i quali il cantante da sfoggio di un esibizionismo sfrenato, che sfocia spesso nell’autolesionismo. E proprio la violenza delle esibizioni procura alla band un contratto con l’etichetta Elektra Records che, dopo aver suggerito alla formazione di lasciar perdere l’aggettivo psychedelic, produce il primo album dei The Stooges, pubblicato nel 1969.
1969 è anche il nome del primo brano di The Stooges, un robusto
boogie retto da una potente sezione ritmica, dove la fradicia chitarra
di Ron Asheton vomita watt impazziti e incandescenti. Il testo ci
introduce subito nel mondo depravato di Iggy dove la noia regna
sovrana: It’s another year for me and you, another year with nothing to
do. Desolazione e nichilismo che caratterizzano anche No Fun, uno degli
inni (proto-)punk dell’album. Tre accordi ripetitivi su cui un
acido Iggy vomita tutta la sua noia: No fun to hang around,
feelin’ the same old way, no fun to hang around, freaked out for another day. Ancora più devastante è I Wanna Be Your
Dog, canzone simbolo dell’intero lavoro. Un riff malvagio quanto semplice, punk
prima del tempo, si ripete implacabile e ripetitivo
mentre Iggy declama un testo oltraggioso, dall’animalesca carica
sessuale. Il rapporto malato con l’altro sesso si rivela essere un altro tema
centrale del lavoro, come dimostrato in Little Doll e Ann.
La prima, un abrasivo e oscuro rock’n’roll che si conclude con l’immancabile assolo caustico di chitarra, è l’elogio di una prostituta. La seconda racconta invece di un malato rapporto di dominazione, mentre musicalmente cambia drasticamente registro, rivelandosi un lugubre e psichedelico lento, retto da una batteria minimale e da una chitarra riverberata, rotta poi da un lancinante assolo. Dello stesso stile, ma ancora più nera, è l’angosciante We Will Fall. Una lisergica litania di dieci minuti, composta da un funereo coro e dall’ossessiva viola di John Cale, violista dei Velvet Underground e produttore dell’album.
Una messa nera sui cui Iggy recita un testo criptico e ripetitivo. La presenza di Cale non è casuale, questo è infatti l’episodio dove maggiormente emergono le intense influenze di Velvet Underground e The Doors. I restanti due brani, Real Cool Time e Not Right, riprendono, anche se in maniera più classica, gli ingredienti degli episodi più spinti del lavoro, conditi da due testi semplici quanto potentemente allusivi.
Che dire d’altro? Grezzo, violento, oltraggioso, ma soprattutto molto, molto in anticipo sui tempi. Il debutto dei The Stooges è un album rivoluzionario, precursore. In pieno periodo hippie, la band pone infatti le inconsapevoli radici di ciò che una decina di anni dopo si sarebbe chiamato punk, a livello musicale quanto lirico, alzando considerevolmente l’asticella della violenza sonora. I The Stooges faranno forse ancor meglio con i due seguenti lavori, prima di chiudere un’esperienza fulminante quanto fondamentale. Il resto è storia.