Correva il glorioso anno
1975 quando la fervida immaginazione del visionario scrittore J. G. Ballard – vate della fantascienza
sociale grazie a opere seminali quali La mostra delle atrocità e Crash –
partorì High Rise (Il condominio), spietata e grottesca satira sulle pericolose
e inquietanti derive di un microcosmo abitativo i cui componenti si trovano a
vivere una terribile involuzione specchio di una società già allora vicina al
collasso totale.
Il grande successo di pubblico e il profondo impatto culturale
esercitato dal romanzo fin dalla sua pubblicazione spinsero il produttore Jeremy
Thomas a progettarne un ambizioso adattamento cinematografico, segretamente e
disperatamente covato per oltre quarant’anni e sul quale si sono avvicendate
personalità di grande spessore, tra cui Stanley
Kubrick, Nicolas Roeg e Vincenzo Natali. Tuttavia è toccato a Ben Wheatley raccogliere la sfida alle
soglie del 2013, affidandosi alla collaborazione della compagna sceneggiatrice Amy Jump per poter finalmente vedere
rappresentate sul grande schermo le vicissitudini del dottor Robert Laing (Tom Hiddleston), fascinoso fisiologo
inglese da poco trasferitosi in un imponente grattacielo facente parte di un
avveniristico complesso residenziale progettato dall’architetto Anthony Royal (Jeremy Irons), con l’intento di
replicare strutturalmente le stratificazioni della piramide sociale.
Ben presto, però, una
serie di misteriosi incidenti e blackout iniziano a compromettere il già
precario equilibrio dello stabile, dando vita a una guerra intestina fra le
varie fazioni d’inquilini che vede i piani bassi, capitanati dal tecnico
televisivo Richard Wilder (Luke Evans),
ribellarsi allo strapotere delle élite asserragliate nei lussuosi attici, il
tutto mentre gli istinti più feroci e primordiali iniziano a prendere il
sopravvento su ciascuno dei residenti.
High Rise – La rivolta, appare come una delle trasposizioni
filmiche più oneste e riuscite di un’opera letteraria che siano mai state
realizzate, in particolare grazie alla felice intuizione di non concedersi
alcuna eccessiva libertà interpretativa per seguire diligentemente la scansione
narrativa dell’originale racconto ballardiano, rifiutando qualunque pretesa di
adattamento in chiave postmoderna e mantenendo dunque l’originale e suggestiva
ambientazione anni ’70, un passato/futuro dai fortissimi connotati techno–vintage
riscontrabili tanto negli arredi quanto nella patinata fotografia pastello.
High Rise ci proietta in un doppio allucinante percorso: quello
ascendente compiuto da Miller verso le sommità del grattacielo per ingaggiare
la catartica lotta finale con l’architetto-demiurgo (rimando al Fredersen di Metropolis)
e quella pericolosamente discendente di una civiltà in declino destinata a
regredire allo stadio più ancestrale e animalesco sotto al peso dei propri vizi
e delle proprie colpe.