“Taiji Ga Mitsuryô Suru Toki” che nel titolo internazionale
diventa “The Embryo Hunts In Secret” è una delle opere più annichilenti del
grande e compianto Kôji Wakamatsu.
Con una messa in scena più che essenziale, il regista ci fa immergere nelle
turbe esistenziali di un uomo che tiene segregata una dipendente del suo
negozio nel proprio appartamento, legandola e torturandola. Durante l’arco di
questo sequestro, il protagonista rievoca il suo passato tormentato, un legame
controverso e morboso con la madre e una storia naufragata con la sua ex
moglie, con la quale egli si era rifiutato di avere figli.
Una concezione
pessimistica della vita che trova il suo apice nel monologo drammatico “per me,
la più grande assurdità è il fatto di essere nato. Madre, perché sono nato?
Perché sono uscito fuori dal tuo grembo? Perché ho sofferto così tanto?”, uno
dei deliri nichilisti più potenti e assoluti nella storia intera del cinema.
Se escludiamo le prime scene girate in esterno sotto una pioggia battente,il
film si svolge esclusivamente in stanze desolate, vuote, spogliate da qualsiasi
oggetto, solo un letto circondato da bianche pareti che risaltano ancora di più
nei contrasti in bianco e nero. Una povertà scenografica che rappresenta il
nulla esistenziale del carnefice, un mostro che incarna derive aberranti di misoginia,
di odio e di egoismo.
In questa pellicola c’è un dolore inestirpabile che trapassa di continuo lo
schermo, un teatro della crudeltà che sfocia addirittura nel surrealismo (il
regista dichiarò di aver avuto delle allucinazioni durante le riprese), una
forma di alienazione dalla realtà che sconfina nel tragico a livelli disumani.
Sono poco più di settanta minuti nei quali Wakamatsu gestisce il tutto con
classe e maestria, supportato dallo script del fidato Masao Adachi, per quella
che può essere considerata la sua prima pellicola di successo oltre i confini
nipponici.
Correva l’anno 1966, sette anni dopo in Europa il filosofo e saggista rumeno
Emil Cioran scrive ne “L’Inconveniente Di Essere Nati”: “noi non corriamo verso
la morte, fuggiamo la catastrofe della nascita, ci affanniamo, superstiti che
cercano di dimenticarla. La paura della morte è solo la proiezione nel futuro
di una paura che risale al nostro primo istante.” Punti di contatto molto forti
che fanno di “Embrione” uno snodo di passaggio fondamentale per quel nichilismo
concettuale che tanto aveva già dato nella filosofia e nella letteratura
passata e contemporanea. Perché quello di Wakamatsu non è solo un film, è uno
stato mentale.
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