Ci sono dei film che
assomigliano un po’ a quegli alcolici che sul momento sembra non ti spostino di
un millimetro. Poi ti alzi dal tavolo e ti si piegano le gambe. Anche se
continui a dire che no, non sei ubriaco.
Stoker è un film girato su commissione, prima esperienza fuori casa di Park e
rarissimo caso in cui non mette mano direttamente alla sceneggiatura. Capita
che un grande regista orientale, a contatto con un’industria controllata come
quella hollywoodiana, si snaturi e giri un prodotto magari perfetto da un punto
di vista formale, ma abbastanza vuoto di contenuti.
E molti hanno etichettato Stoker proprio in questo modo. Visivamente splendido,
ma abbastanza freddino e senza un vero e potente nucleo narrativo.
Ed è sicuramente edulcorato, da un punto di vista
grafico, rispetto alla violenza estrema e disturbante dei film coreani di Park.
Ma ci può anche stare: Stoker è un buon compromesso, un thriller elegantissimo
che si avvolge intorno allo spettatore e lo ipnotizza con le sue sequenze di
una bellezza che ha davvero pochi rivali. Perché se l’ambientazione e la
vicenda sono di stampo americano, lo stile è quello di Park.
Geometrie a cui neanche siamo più abituati ad assistere. E che rischiamo di
definire “esercizi di stile”, perché non sappiamo più avere a che fare con lo
studio complesso e scientifico nella costruzione delle inquadrature. E di
fronte a esse perdono una trama che può anche essere definita banale in alcuni
punti. Ma Stoker è il classico caso in cui le immagini parlano ed emozionano da
sole. Insieme all’interpretazione di un trio di attori straordinario, a partire
dalla Wasikowska (uno dei talenti più
limpidi della sua generazione), passando per un Matthew Goode inquietantissimo,
fino ad arrivare a una Nicole Kidman da anni senza un ruolo così forte.
Nel dirigere Stoker, Park si ispira al cinema americano
classico, citando più volte Hitchcock e il suo L’Ombra del Dubbio e ci racconta
una specie di romanzo di formazione al contrario, un viaggio alla scoperta di
sé da parte di una diciottenne, India, che ha appena perso il padre e si vede
piombare in casa un misterioso zio, di cui non conosceva neanche l’esistenza.
Nasce una situazione morbosa e ambigua nel difficile rapporto tra i tre
personaggi rinchiusi in uno spazio che sembra fluttuare in un tempo indefinito.
La vecchia casa degli Stoker è posta quasi in una dimensione alternativa
rispetto alla realtà. I costumi e le scenografie rimandano a un’epoca
cristallizzata in un passato che Park non ci tiene affatto a identificare.
Ambiente ovattato, dove il mondo esterno fatica a entrare, protetto da tutto
ciò che spaventa o destabilizza.
C’è sì un impianto da giallo, con colpo di scena allegato che però conta poco o
nulla, anche perché piuttosto prevedibile. Lo stesso Park ci mostra la soluzione
del presunto enigma quasi all’inizio del film. Non è il finale a sorpresa che
gli interessa, quanto lo svilupparsi delle relazione tra gli abitanti di casa
Stoker, la dissoluzione della famiglia, la ribellione di India alle convenzioni
e il lento ma costante emergere di una follia che si tramanda da generazioni,
come un marchio, come una maledizione.
Follia che però viene interpretata come un grido di libertà, quasi fosse
l’unica possibilità di fuggire da quella villa sospesa nel tempo ed entrare una
buona volta a contatto col mondo reale.
Stoker non è un film facile. È trattenuto, ma non freddo. È come un
vulcano che sta sempre lì lì per eruttare, ma rimane muto. Almeno fino ai
minuti finali.
E se c’è un segreto da scoprire, questo si nasconde nel volto di India. È
India la chiave del film ed è la sua trasformazione a interessarci.
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