Per le strade di Christiania c’è un uomo che è roso dai morsi della fame. Vive in una soffitta senza sapere ancora per quanto tempo potrà permettersi di pagare la pigione, visto che oltre allo stomaco languono anche e soprattutto le tasche, ormai quasi completamente vuote. Coricato, con la pendola sotto di lui che suona le sei, egli si chiede se ci sarà oggi qualcosa in grado di arrecagli una qualche gioia o un qualche piacere.
La sua fame non è semplicemente un desiderio di arrivare o di concludere qualcosa in questa sua vita disordinata, ma è anche fame intesa come bisogno di nutrimento per un corpo che inizia a dare segni di cedimento psico-fisico. Ridotta all’osso, questa è la storia narrata dal Premio Nobel per la letteratura 1920 Knut Hamsun in Fame (uscito per la prima volta nel 1890).
Realista fino all’estremo, Hamsun ci fa vivere le miserie di quest’uomo minuto per minuto, dalle stanze disadorne in cui vive millantando un credito inesistente, fino ai pochi oggetti rimasti in suo possesso perché nessun banco dei pegni desidera tenerli, passando per una condizione fisica sempre più esasperata ed esasperante fatta di tremori, deliri e impossibilità nell’assimilare qualsiasi tipo di cibo dopo la tanta fame patita.
Un capolavoro che ha influenzato tanti autori del ‘900 e che mostra sotto una luce diversa la vita dell’artista senza né arte né parte, cancellando con tratto grave lo storytelling del “maledetto” e concentrandosi sui dolori, le delusioni e la follia che solo la povertà estrema e la disperazione sono in grado di dare.
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