sabato 30 gennaio 2021

Fabrizio de Andrè - Cantico dei drogati


 

Nicholas Kalmakoff (1873–1955)

 

Nicholas Kalmakoff  nacque in Italia a Nervi nel 1873. Di nobile famiglia russa, si recò in seguito a San Pietroburgo dove rimase fino alla Rivoluzione. Fu in questo periodo che partecipò all’esposizione del gruppo Mir Isskoustva, associazione di artisti e letterati russi che proponevano un rinnovamento dell’arte del paese secondo i movimenti artistici Europei come il Simbolismo e l’Art Noveau. Kalmakoff disegnò una numerosa serie di scenografie ma  la polizia ne impedì la rappresentazione portando  l'artista ad una immediata notorietà.

Kalmakoff  iniziò ad interessarsi alla demonologia e si affiliò alla setta cristiana ortodossa  degli  Skopzi (castrati),

 i suoi adepti praticavano la mortificazione del corpo fino a giungere all'automutilazione del pene per gli uomini e del seno per le donne in modo da "divenire bianchi", ossia angeli, ed entrare così di diritto nel regno dei cieli.

 

 

 

 

 

 La setta era molto vicina a quella dei Chlysty (ne apparterrà anche Grigorij Rasputin) che differentemente praticava rituali purificatori tramite la danza e la flagellazione in una cerimonia di canti e balli frenetici terminanti in orge tra i membri. 

Sempre più visionario e ispirato, Kalmakoff si convinse di riuscire a vedere il diavolo ed iniziò a creare degli schizzi ricostruendone i particolari anatomici  che osservava nelle sue visioni.

 

Costretto ad emigrare per via della Rivoluzione, verso il 1920 si trasferì  a Helsinki sempre più preso dalla volontà di mostrare la presenza ossessiva del male nel mondo attraverso la sua arte.

 Nel 1924 si trasferì in Francia dove visse in solitudine ed in condizioni di estrema miseria. Accolto in un ospizio per i poveri, ormai folle, cessò di dipingere nel 1947.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


lunedì 25 gennaio 2021

Banco del mutuo soccorso - Non mi rompete

 


Bunny Lake Is Missing (1965)




 

Otto Preminger fu uno dei numerosi brillanti registi austriaci finiti alla corte di Hollywood negli anni ’30, e all’epoca di questo film era già affermato e conosciuto per la scabrosità dei temi affrontati; la dipendenza dalla droga in L’uomo dal braccio d’oro (1956) con un Frank Sinatra davvero sorprendente, lo stupro nel suo più celebre Anatomia di un omicidio (1959). Preminger aveva una sua casa di produzione già avviata, la Wheel Productions, e si appoggiò al colosso Columbia per mettere in scena il romanzo di Marryam Modell, facendolo però ampiamente revisionare dagli sceneggiatori John e Penelope Mortimer.

E’ la storia della inspiegabile scomparsa di una bambina, Bunny Lake, al suo primo giorno di asilo appena trasferita con la giovane madre a Londra. Il film verte su questa pesante assenza, vissuta attraverso l’angoscia crescente della madre e le indagini della polizia. Lo spettatore rimane efficacemente avvolto in questa strana cospirazione che tende a rimuovere ogni prova della esistenza stessa della bambina, chiamando in causa il disagio psichico. 

Una storia dove ogni dettaglio viene servito puntualmente, tassello dopo tassello in un crescendo di mistero.

La fotografia diretta da Denys Coop presenta un bianco e nero raffinato dagli alti contrasti, in linea con i titoli di testa minimali firmati dall’eccentrico designer Saul Bass. Gli ambienti in cui si svolge la storia sono luoghi vagamente sinistri, come l’austera “Little People’ s House”, lo stesso appartamento di miss Lake dove sono appese alle pareti arcane e minacciose maschere tribali, la stravagante abitazione del vizioso Wilson o il grottesco negozio di bambole che ricorda più una piccola bottega degli orrori. Il senso di inquietudine e mistero si intreccia con le musiche di Paul Glass: classici fraseggi percussivi accompagnano le indagini poliziesche, alternandosi a idilli orchestrali deliziosamente ‘fuori luogo’. Altro effetto dissonante sortisce la breve apparizione televisiva del gruppo rock The Zombies con Remember you, la intrusione di un selvaggio riff roaring sixties in un cinema ancora figlio delle sale da ballo. 

Un film atipico di orrore psicologico, dove a un ricco serraglio di freaks si aggiungono location come l’ospedale delle bambole e i suoi cento occhi di celluloide sbarrati. Otto Preminger non lascia nulla al caso, e dissemina il percorso di tremende briciole di pane.  Tutto si dimenano all’ombra di un ricordo: quello dei loro giochi d’infanzia, quello degli amici immaginari e di quanto è rimasto sepolto nella loro psiche. Si trattiene il fiato ogni volta che la soluzione si avvicina, si sospira per ogni buco nell’acqua.

 

 

domenica 10 gennaio 2021

The House is Black

 

Nell'autunno 1962 Forugh Farrokhzad realizzò, in soli dodici giorni, il documentario Khaneh siah ast (The House is Black) sulla vita all’interno del lebbrosario di Behkadeh Raji a Tabriz nel nord dell’Iran.

All’interno di un lebbrosario i malati più gravi, ormai privi degli arti la cui unica speranza è la preghiera, coesistono con quelli in cui la lebbra non ha ancora avviato la sua fase più feroce. La vita scorre tra giochi e piccoli gesti quotidiani, mentre la voce fuori campo di Ebrahim Golestan elenca le macabre caratteristiche della malattia e quella della regista recita versi poetici.

Il lebbrosario diventa microcosmo in cui guardare i lati oscuri di una società e il buio dell’esistenza umana. «Il mio film si apre con l’immagine di una donna che si guarda allo specchio. Questa donna simboleggia in realtà l’essere umano che osserva la sua vita allo specchio, qualsiasi sia questo specchio»

L’unica vera opera cinematografica dell’allora ventottenne Forugh Farrokhzad “è una sconvolgente discesa nell’abisso della malattia; il documentario non è un semplice atto di denuncia e di sensibilizzazione, ma anche una forma di resistenza al male e il tentativo, pienamente riuscito, di cercare la bellezza e la speranza anche dove si crederebbero impossibili” (Mereghetti)

Questo piccolo capolavoro fu possibile poiché la regista entrò in completa sintonia con il luogo e con le persone, mostrando la bellezza e l’umanità in un posto orribile. Ancora oggi commuove e sorprende l’abilissima contrapposizione di immagini attraverso il montaggio di piccole sequenze, l’uso di luce, ombra, inquadrature, ritmo e suoni.

La critica iraniana accusò la Farrokhzad di usare i malati e di creare “scene orribili”e “sgradevoli” utilizzate come metafora dell’Iran sotto lo shah Pahlavi, ma nonostante questo il film vinse nel 1963 il premio alla regia all’Internationale Kurzfilmtage Oberhausen (Festival internazionale del cortometraggio di Oberhausen). The House is Black cambiò anche la vita della poetessa. Durante le riprese, infatti, si affezionò moltissimo a Hossein Mansouri, un bimbo figlio di due lebbrosi presente nel film, lo adottò e lo porto con se a Teheran.

Il 13 febbraio del 1967 alle 16.30, Forugh Farrokhzad morì in un incidente automobilistico a Teheran, aveva solo 33 anni.

 

Saluterò di nuovo il sole

Saluterò di nuovo il sole,
e il torrente che mi scorreva in petto,
e saluterò le nuvole dei miei lunghi pensieri
e la crescita dolorosa dei pioppi in giardino
che con me hanno percorso le secche stagioni.

Saluterò gli stormi di corvi
che a sera mi portavano in offerta
l’odore dei campi notturni.

Saluterò mia madre, che viveva in uno specchio
e aveva il volto della mia vecchiaia.
E saluterò la terra, il suo desiderio ardente
di ripetermi e riempire di semi verdi
il suo ventre infiammato,
sì, la saluterò
la saluterò di nuovo.

Arrivo, arrivo, arrivo,
con i miei capelli, l’odore che è sotto la terra,
e i miei occhi, l’esperienza densa del buio.
Con gli arbusti che ho strappato ai boschi dietro il muro.

Arrivo, arrivo, arrivo,
e la soglia trabocca d’amore
ed io ad attendere quelli che amano
e la ragazza che è ancora lì,
nella soglia traboccante d’amore, io
la saluterò di nuovo.

 

Luigi Tenco - Quello che conta



 

sabato 2 gennaio 2021

Lowdown - Jeff Preiss (2014)

Le storie che il jazz racconta, sono parecchie. La musica è la miglior musica che sia stata immaginata dagli esseri umani: è capace di portarti in altre dimensioni, di curare le ferite, di farti sentire tutte le sensazioni della vita. Gli uomini del jazz, invece, si sono spesso sacrificati al suo altare, nel nome della Bellezza. L'elenco è sterminato e inutile, le leggende le conosciamo tutti, con i loro eccessi e le loro sfortune. Joe Albany era uno di loro, un eroe senz'altro minore, ma forse neanche per sua volontà, che dopo aver suonato con mostri sacri come Parker o Lester Young, si è eclissato dalla vita musicale per parecchi anni, purtroppo nel periodo più fortunato per il jazz, fra gli anni cinquanta e sessanta, distrutto dalla dipendenza con la droga e da matrimoni sfortunati. 

Torna alla notorietà negli anni settanta, incide, fa qualche tour, soprattutto in Europa, ma l'eroina non lo abbandonerà mai, portandosela via nel 1988, a 64 anni. Quasi graziato, rispetto ai musicisti che ne hanno condiviso visione musicale e demoni. Pianista sopraffino, è raccontato, qui, da Jeff Preiss, uno che ha sempre fatto il direttore della fotografia e che qui esordisce anche alla regia. Preiss conosce la materia, avendo lavorato, per esempio, nel documentario, "Let's Get Lost" su Chet Baker. 

Il regista racconta il Joe Albany degli anni settanta, come è stato visto e descritto nel libro di memorie scritto dalla figlia Amy, dopo la sua morte. Un'ottima Elle Fanning, la interpreta, e Preiss impernia tutta la pellicola attorno a lei, al suo sguardo, che, amatissima dal padre, ricambiato, ne segue le vicende umane, più che musicali. Lui, Albany, è portato sullo schermo da un bravissimo John Hawkes, un "junkie" nei bassifondi di New York . Sullo sfondo, ovviamente, musica jazz e l'impressione palpabile di un'epoca che andava a morire tristemente, portandosi dietro gli ultimi scampoli di leggenda.