giovedì 25 maggio 2017

Colter Wall - Colter Wall (2017)




Scorgi in lontananza la polvere alzata dagli zoccoli del cavallo, l'ombra solitaria che entra nel villaggio, gli stivali che toccano terra, il volto scavato e stanco per l'interminabile viaggio, la ricerca del primo saloon nei paraggi. Intuisci che sta per succedere qualcosa e che la vita di quel posto non sarà più la stessa. Sceneggiatura classica, tutti i cliché compresi, America immaginata, e la voce di Colter Wall a fare da colonna sonora, magari di un western crepuscolare girato da Sam Peckinpah. Anche il nome sembra avere un destino segnato: non ve lo immaginate già stampato su qualche manifesto, vivo o morto? I conti tornano fino a un cetto punto, perché Colter Wall arriva dalle grandi pianure del Saskatchewan, Canada e non bazzica la Death Valley, ha soltanto 21 anni e non ha mai conosciuto l'epopea d'oro né del cinema western, né della country music.
 


Possiede però una voce profonda che pare arrivare da un altro tempo, invecchiata nelle botti di whiskey, un baritono alla Johny Cash che incontra la desolazione di Townes Van Zandt e gli orizzonti da outlaw di Waylon Jennings. Il fascino dell'omonimo esordio - dopo un ep nel 2015 intitolato Imaginary Appalachian e una canzone in particolare, Sleeping On The Blacktop, finita direttamente nella sountrack del fortunato 'Hell or High Water' con Jeff Bridges - è tutto racchiuso in questa essenza scarna da dura frontiera, un suono asciutto ed epico al tempo stesso che dall'apertura di Thirteen Silver Dollars affronta un sentiero buio e tempestoso, dove murder ballad e spietate canzoni d'amore, romanticismo da fuorilegge e racconti da provetto folksinger si alternano mantenendo al centro la figura di Colter Wall e la sua narrazione. Il fantasma di Townes Van Zandt aleggia dappertutto, quanto meno a livello stilistico: tra una Codeine Dream che rimanda indirettamente al classico Waiting Around to Die e la cover di Snake Mountain Blues, per non dire di Fraulein, dolce walzer country che Townes incise sul capolavoro The Late Great Townes Van Zandt.

L'enigmatica poesia dei testi di Van Zandt, la loro dura eppure sensibile cronaca non è tuttavia la stessa e qui di Pancho & Lefty non ne scorgiamo ancora, ma il bianco e nero di Kate McCannon e la tenera seranata da hobo di Transcendent Ramblin' Railroad Blues sono ballate che non passano indiferrenti, lasciando stupiti per la maturità di un ragazzo di poco più di vent'anni. Dave Cobb, produttore ormai in prima linea nel nuovo tradizionalismo a Nashville, ha intuito la seduzione di Colter Wall e la potenza del suo canto, costruendo un disco di silenzi e soffi acustici: un piano (come nel dondolio agrodolce di You Look To Yours), una steel guitar (Me and Big Dave), qualche timidissimo accenno ritmico (dal vivo spesso è il solo Colter Wall ad accompagnarsi con grancassa e chitarra) è tutto ciò che occorre per costruire l'ossatura del disco.

 

E di ossa dovremmo ben parlare per descrivere questi brani, che ricordano le intuizioni di Willie Nelson quando a metà anni settanta sconvolse Nashville portando il suo 'Red Headed Stranger' all'attenzione di un nuovo pubblico. Quarant'anni dopo Colter Wall prova a inserirsi in quel solco, al momento con qualche luogo comune nel songwriting, dovuto anche all'inesperienza, ma prendendo dignitosamente posto al fianco di Chris Stapleton, Brent Cobb, Sturgill Simpson e tutti gli altri giovani cavalieri dalle lunghe ombre che stanno entrando in città. Buona fortuna.

venerdì 12 maggio 2017

The Deslondes - "Hurricane Shakedown"


Pulp - Charles Bukowski






Il protagonista di Pulp, Nick Belane, è un detective alle prese con un caso particolare. Non si capisce cosa stia cercando, anche se lo fa con una certa determinazione, quando prende la porta ed esce nelle strade di Los Angeles: “Fuori, avanzai con decisione tra la nebbia. Avevo gli occhi tristi e le scarpe vecchie e nessuno mi voleva bene. Ma avevo da fare”. Non c’è dubbio che lo sappia dove sta andando: la sua missione è complicata e oscura e gli occupa tutte le giornate, ma non deve scoprire né colpevoli né innocenti e il più delle volte si lascia trasportare dalle onde di una malinconica impotenza che gli fa dire: “Niente da fare. Tutti restavano fregati. Non c’era nessun vincitore. Solo vincitori apparenti. Stavamo tutti dando la caccia a un grandissimo nulla”.


 A dire il vero le sue ricerche sono abbastanza sgangherate e intervallate da distrazioni ingombranti.
Il più delle volte si fa cogliere fuori posto, attratto da dettagli tanto appariscenti quanto irrilevanti per i suoi scopi. Solo che non sa resistere, e lo confessa senza pudore: “In qualche modo mi persi, cominciai a guardarle su per le gambe. Mi sono sempre piaciute, le gambe. E’ stata la prima cosa che ho visto quando sono nato. Ma allora stavo cercando di uscire. Da quel momento in poi ho sempre tentato di andare nell’altra direzione, ma con fortuna piuttosto scarsa”.
Il vero problema è il bersaglio di cui si deve occupare: più ci pensa e più è vago, più lo cerca e più lo perde e, come se non bastasse, “c’è sempre qualcuno in procinto di rovinarti la giornata, se non l’esistenza”. Il suo nome è una sciarada nel cruciverba dei boulevard di Los Angeles e tra un drink e l’altro diventa chiaro che Nick Belane non raggiungerà mai l’incredibile scopo di trovare se stesso. Un caso a parte nella storia di Charles Bukowski, Pulp è un romanzo affascinante e non privo di una sua surreale ironia nell’immergere Raymond Chandler in un bagno di whiskey, se basta a rendere l’idea.