Angelo Manglehorn (Al
Pacino) possiede una ferramenta dove lavora come fabbro. L'esistenza di
Manglehorn procede monotona: vive con la sua adorata gatta in un appartamento
spoglio, abbandonato a sé stesso.
L'anziano protagonista
si trascina un dolore che lo rode da tempo, inducendolo a sbarrare ogni porta,
lasciando fuori sostanzialmente la vita, con tutto ciò che vi si trova al
proprio interno. Alla base della sofferenza di Angelo vi è il rimpiato per
qualcosa di cui molto probabilmente si sente responsabile. Un vecchio amore
forse, basti pensare alle continue lettere che scrive a Clara. La sua Clara.
Il film di Green diventa dunque la cronaca di una risalita, a tratti disincatata, cinica e pure un po' monotona, tanto che in alcuni frangenti si cerca di compensare alla bassa intensità con il ricorso a racconti, frammenti di ricordi del passato. Espediente che risulta molto funzionale in particolar modo per approfondire la personalità del protagonista, il cui retaggio rimane per lo più avvolto da fitte nubi.
Quel che è certo è che il vecchio è stato un mago, di quelli che però hanno smarrito la propria arte; non il suo tocco, che a conti fatti lascia aperto lo spiraglio ad ogni possibile cambiamento.
Sempre attento a non perdere di vista la storia, così come coloro che ne fanno parte, David Gordon Green tiene fede alla sua capacità, condivisa con altri cineasti indipendenti americani, di tirare fuori il più possibile da una qualunque vicenda, andando al cuore della stessa.
Senza false ipocrisie o aggiustamenti di sorta.
Magico, com'è giusto che fosse.
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