mercoledì 27 aprile 2016

Erik Kriek - In The Pines






Se l’essenza del selvaggio West è stata rappresentata al meglio dai film di un registi italiani, allora non deve stupire che un olandese riesca a riprodurre le murder ballads americane con ottimi risultati. È un filone tragico e sanguinolento, cantato da nomi come Johnny Cash, Nick Cave e Bob Dylan, che oggi trova nuova vita nella raccolta In The Pines di Erik Kriek, uno straziante quintetto di storie in cui la vendetta, la cieca violenza e il senso di colpa guidano le vicende tragiche di cinque personaggi. 


Sono tutte persone diverse, tasselli di un mondo distante – quello degli Stati Uniti di fine Ottocento – raffigurato come una versione extreme della nostra società. Certo, oggi il proibizionismo non c’è più, ma il racconto Where the Wild Roses Grow parla di mistero, criminalità e brama, tutte cose universali e ancora piuttosto in voga. C’è un “tesoro” da rubare e un criminale in fuga; tutto finirà con del sangue su un campo di rose. 

L’omaggio di Kriek (che si era occupato di un altro classico della cultura americana in H.P. Lovecraft: Da altrove e altri racconti, sempre Eris) alla tradizione anglosassone non disdegna di dare voce alle loro vittime degli assassini, rendendole protagoniste. Quando è il killer a guidare l’azione, invece, la trama si concentra sul suo senso di colpa, la vera malattia mortale, il vero omicida. 


Su tutto, il rapporto tra sessi: perlopiù amore – un amore impossibile e vietato, come in ogni tragedia – anche se non manca la violenza carnale, dipinta sullo sfondo di un’America ancora di frontiera, vasta, triste e vuota, unica scenografia della raccolta. Un continente sublime e sterminato che si presta allo stile dell’olandese, anche nell’unico episodio marino, Pretty Polly and the Ship’s Carpenter, in cui i fantasmi del passato inseguono l’assassino fino in mare aperto. Non c’è scampo per nessuno. In The Pines è intrappolato in un universo spietato, dominato da una versione morbosa della Provvidenza, dove quelli di vittima, colpa e assassino sono concetti fumosi. Qui tutti hanno un motivo per morire.





sabato 23 aprile 2016

Charlie Parr - Stumpjumper






Certe storie possono arrivare solo dall'America, terra di grandi contraddizioni e di speranze, ove può accadere tutto e il contrario di tutto.
Succede, allora, che un grande musicista, come Charlie Parr, abbia vissuto ai margini del music business per anni, producendosi i dischi da solo (o con la collaborazione di microscopiche etichette) e suonando in piccoli locali praticamente a prezzo di costo. Poi, quando le cose sembravano immodificabili e i sogni di gloria evaporati sotto l'amara benedizione degli dei della realtà, qualcosa succede. Niente di eclatante, per carità, ma Charlie Parr viene notato, apprezzato e messo sotto contratto dall'etichetta indipendente Red House, non un colosso, ma grande a sufficienza per consentire una peculiare distribuzione anche fuori dai confini locali. E si che il cantante e chitarrista originario di Austin, ma cresciuto a Duluth, nel Minnesota, si era parecchio dato da fare fin dall'inizio del nuovo millennio, pubblicando tredici cd (studio e live) in una decina d'anni.


Charlie Parr è detentore di uno stile roots asciutto e fedelissimo alle radici più ancestrali della tradizione. Il suo impegno sullo strumento riconduce sui sentieri del folk blues, dell'hillbilly più scuro, insomma di quella musica misteriosa che è stata preservata dalla famosa Anthology di Harry Smith, quando personaggi come Dock Boggs, Mississippi John Hurt, Charlie Patton o Clarence Ashley sono stati prelevati dall'oblio del tempo. Si tratta anche dei naturali punti di riferimento di Charlie Parr, con un approccio che richiama il cosiddetto Piedmont style alla chitarra resofonica e si avventura in territori di confine tra canzone folk, blues, gospel e country.  

Stumpjumper non concede nulla al pubblico e prosegue imperterrito tra i meandri misteriosi del profondo Sud, tra personaggi curiosi e storie drammatiche, aggiungendo talvolta qualche percussione a rafforzare il suo efficace pickin’ chitarristico. 

Registrato in tre giorni in una fattoria di Hillsborough, nel North carolina, Stumpjumper attraversa i toni blues accesi di Falcon,l'hillbilly di On Marrying a Woman With an Uncontrollable Temper, il canto country gospel da portico di Remember Me If, la desolata Resurrection, canto spiritual ispirato alla parabola cristiana di Lazzaro, per banjo, chitarra e fiddle (Ryan Gustafson).
Con Delia e Temperance River Blues Parr si cala nelle vesti di credibile storyteller e i due brani rappresentano la spina dorsale di un disco il cui fascino senza tempo ci ammalia e ci intrattiene con classe indiscussa. 


domenica 3 aprile 2016

Gianmaria Testa - Altre Latitudini






Gianmaria Testa non è un autore di grido, le sue canzoni non fanno clamore e i suoi dischi escono sotto voce. Anche se sono più attesi in Francia che in Italia, anche se sono pubblicati persino negli Stati Uniti. Ora che gode di una stima internazionale e che può permettersi un’introduzione scritta appositamente da Erri De Luca, lui continua a percorrere le vie più sottili della canzone.
Questo disco avrebbe potuto essere promosso sbandierando la collaborazione con il meglio della scena jazz italiana, e invece tutto si è mosso discretamente, con quell’eleganza minima, sobria, che è tipica delle canzoni di Testa.
Quindici brani, brevi, che passano al setaccio la tradizione italiana, il jazz, la chanson, lo swing, dando il giusto spazio ad ognuno. Quella di Testa è un’arte appena accennata: poche parole, semplici, per un’immagine, una storia. E arrangiamenti dosati, per la punteggiatura necessaria all’espressione.
Tra gli altri, Enrico Rava, Rita Marcotulli, Enzo Pietropaoli intervengono in punta di piedi. Come è nello stile loro e di questo autore, a cui bisogna riconoscere anche la bravura nella scelta dell’ambiente e delle comparse. Non inganni la vicinanza con il mondo del jazz, perché la musica di Testa non è da signorotti d’elitè, non fa distinzioni di classe: è cantautorale. Lui è un uomo col soprabito, che custodisce le canzoni, le coltiva, le protegge.
 

In fondo “Altre latitudini”svolge e riavvolge la stessa pellicola, che il cantautorato italiano sta proiettando da sempre, ma Testa ha una finezza e una purezza solo sue. Percorre una strada su cui sono passati in tanti, da Conte, a Fossati, a De Andrè. Eppure il suo è il cammino di chi esce per una passeggiata dopo che ha spiovuto: il sapore che sale dall’asfalto, dalla terra, ha una grazia fresca, nuova.
Questa sensibilità giustifica il titolo: “Altre latitudini”. Piccole storie, sussurrate con cautela, da un punto di vista di cui ci si accorge raramente nell’arco dei giorni.
Fondamentali sono il contrabbasso e la grancassa nel costruire un’atmosfera che chiede attenzione e su cui ogni strumento è libero di ricamare: una tromba, un clarinetto, un pianoforte, ma anche gli archi, una fisarmonica, addirittura un pad synth, tutto molto mediterraneo.
“Altre latitudini” ha il dono delle piccole cose, che una volta notate, non possono più essere trascurate.
Alla fine ha ragione De Luca: le canzoni di Testa sono come fiori da portare all’amata. Se si guarda al tempo, appassiscono in fretta. Ma nella memoria e nel cuore rimangono a lungo.