lunedì 19 febbraio 2024

Matsumoto Seichō - Un posto tranquillo

Molte volte Matsumoto Seichō è stato definito il Simenon giapponese per la sua scrittura e per la capacità di dar vita a trame in cui il giallo si tinge di noir, ma ci sono ulteriori tratti distintivo nella sua penna: una scrittura estremamente moderna nonostante le sue opere abbiano preso vita diversi decenni fa e un’altrettanto straordinaria capacità descrittiva del Giappone, della sua società e delle sue dinamiche, frutto della capacità di osservazione maturata in tanti anni di giornalismo.

“Un posto tranquillo” è un giallo appassionante in cui è protagonista la volontà di Tsuneo Asai di far luce sulla scomparsa di sua moglie, Eiko. Tsuneo Asai si trova a Kobe, lontano da Tokyo, per motivi di lavoro quando, durante una cena, è raggiunto dalla notizia della morte della giovane moglie a causa di un malore cardiaco, un fatto sconvolgente che, nonostante tutto, gestisce nei primi momenti con grande contegno, un tratteggio raffinatissimo di una delle grandi peculiarità della società giapponese in cui il dovere, le gerarchie e la moderazione vengono prima di tutto.

Tsuneo Asai non si perde d’animo e si butta a capofitto nella ricerca della verità sulla morte della giovane moglie, avvenuta all’interno di una piccola bottega di profumi nel quartiere di Yoyogi, distante da casa e lontano dai luoghi che la donna abitualmente frequentava. E’ una ricerca della verità spasmodica, che perde poi di lucidità fino ad assumere dei caratteri quasi ossessivi. Sono questi gli ingredienti di base della trama che si dipana tra sospetti e indagini che conducono sempre molto vicino a chiarire quanto e successo, disarcionando però il lettore con ripetute virate della storia e con un finale inaspettato.


La trama a tinte noir, appassiona non solo per il suo mistero che tiene incollato il lettore fino all’ultima pagina, ma anche per i tantissimi dettagli che tratteggiano in modo particolareggiato il Giappone: il lavoro, i rapporti coniugali, le gerarchie, le apparenze, la macchina burocratica, i paesaggi e le abitudini che compongono una fotografia del Paese del Sol Levante tanto fedele che pare quasi scorrerci davanti agli occhi.

 




Il cavallo di Torino - Bèla Tarr (2011)

 


"Il cavallo di Torino", ultimo lavoro del regista ungherese Bela Tarr, è il racconto di sei giorni della vita di un uomo, di sua figlia e del loro cavallo, figure esemplari di un'esistenza che scivola nell'oblio lentamente. Il film inizia con una conclusione, quella della vita pubblica del filosofo tedesco Nietzsche.

L'apocalisse di Tarr scende inesorabile sul mondo con l'esplosione della follia di Nietzsche o con la lenta agonia del cocchiere e della figlia, i cui destini sono legati con un doppio filo al malconcio cavallo anch'esso destinato a quella stessa morte, a quello stesso nulla che cala inesorabile sulla terra tutta. 

Un'apocalisse invisibile che ha il sapore della vita stessa, della vita umana che si ripete come un ossessione imitando i cicli della natura, imitando un ordine insensato perché il vivere senso alcuno non ha: mangiare, dormire, dormire, mangiare e, alle volte, sedersi per guardare fuori da una finestra.
La vita è un nulla che si ripete, un nulla che Tarr riprende magistralmente con un ricco bianco e nero senza bisogno di sensazionalismo e quasi nemmeno di una trama per un film che si posa delicato sulla vita come un velo e come un velo ne lascia intravedere le forme. 

L'abisso dell'eterna ripetizione è l'inferno terreno, gli uomini i dannati senza alcuna possibiltà di redenzione, ignari e ciechi destinati a patire il supplizio di Sisifo - l'uomo che non sa forgiare col martello della volontà il ritorno dell'identico ne subisce il gravoso fardello che diviene tutt'uno col vivere stesso.
Per quanto cercata non esiste fuga da questa cosmica tragedia degli individui, forse resta solo la speranza di sopravvivere anche quando il lume della ragione, consumandosi come la vita, si affievolisce e infine si spenge.

Un Bela Tarr impeccabile denuda di ogni velleità il vivere scolpendo sulla pellicola il nulla che ne rimane, una sofferenza umana e gratuita il cui depositario è il muto cavallo.