C’è stata una nouvelle vague
anticonformista, politica, sperimentale anche in Giappone. Tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 una
nuova generazione di cineasti ruppe con le tradizioni estetiche, narrative e
sociali assorbendo le influenze del cinema europeo e le rivolte studentesche
delle università. Oltre ai nomi di Kōji Wakamatsu,Nagisa Ōshima eSeijun Suzuki c’è anche quello diToshio Matsumoto, che nel 1969
realizzò un’opera prima liberissima e inclassificabile destinata per decenni
alla cristallizzazione del mito e dell’invisibilità.
Funeral Parade of Roses(Il funerale delle rose) venne inevitabilmente
adottato dalla comunità queer come uno dei primi titoli a raccontare il
travestitismo e il mondo gay degli anni ’60. Il protagonista è Eddie, un
travestito che frequenta i locali notturni di Tokyo e ha una relazione con
Gonda, il proprietario del Genet, il locale dove si esibisce e prostituisce. In
realtà il film racconta di un triangolo amoroso tra questi due personaggi e
Leda, un’altro omosessuale più anziano rispetto a Eddie e più legato alle
tradizioni. Nel mezzo c’è il contesto militante delle manifestazioni
sessantesche e quello underground del cinema e delle droghe.
La narrazione non procede in
modo lineare. Si passa dalla
fiction al film-nel-film, con flashback e anticipazioni temporali che
frammentano il racconto e mettono continuamente in discussione l’istanza
narrante. La macchina da presa indulge su movimenti sinuosi lungo le bianche
forme dei corpi, che poi inframmezza a primi piani godardiani, interviste agli
attori sul set, lunghi piani sequenza su party lisergici che potrebbero durare
all’infinito.
Matsumoto guardava certamente al cinema di Jonas
Maekas e Dusan Makavejev.A una cinefilia colta e figlia del suo tempo – la
locandina del pasolinianoEdipo Reè ricorrente e
anticipa la tragica e incestuosa soluzione finale – il regista giapponese
aggiunge una concezione metamorfica del tessuto filmico, contraddistinta da un
continuo rimescolamento dei generi cinematografici e sessuali.
Se un film è un oggetto espanso indefinibile, anche
l’identità si rivela nel suo continuo mascheramento/annullamento. Il melò diventa documentario che diventa horror per
definirsi come gesto espressivo di rottura e con-fusione. Non è un caso che il film si chiuda con una citazione
di René Daumal perfettamente integrata alla complessità stilistica dell’opera:
“Lo spirito di un individuo raggiunge
la propria assolutezza attraverso la negazione incessante“.
Il primo è uno scrittore che ha attraversato il novecento
rumoreggiando parecchio; il secondo è una ragazza che ha attraversato il
novecento in silenzio. Il primo ha vissuto 83 anni; la seconda 27. Il
primo è morto per un attacco di cuore; la seconda è stata uccisa. Il
primo ha ficcato una pallottola in testa alla seconda durante una serata
con amici il 6 settembre del 1951. Il primo è William Seward Burroughs;
la seconda è Joan Vollmer.
Per più di trent’anni Burroughs è riuscito a cancellare il rumore
dello sparo che ha ucciso la moglie e le tracce di un romanzo che
scriveva in quei giorni. Lo pubblica nel 1985, lo intitola Queer, e assomiglia a una confessione:
"Sono obbligato a giungere alla terrificante conclusione che senza la
morte di Joan io non sarei mai diventato uno scrittore, e a rendermi
conto di quanto questo evento abbia motivato ed espresso la mia
scrittura. Vivo sotto la minaccia costante di essere posseduto, un
bisogno costante di sfuggire alla possessione, al controllo. Perciò la
morte di Joan mi ha messo in contatto con l’invasore, lo spirito del
male, e mi ha trascinato in una battaglia lunga un’intera vita, in cui
non ho avuto altra scelta che scrivere la mia via d’uscita".
In questi giorni ricorrono i trent’anni dall’uscita di Queer,
e al netto di invasori e spiriti del male e altre chincaglierie
bourroghsiane di poco valore, il punto è che in quelle pagine, e a Città
del Messico, Burroughs diventa assassino e scrittore. Un battesimo
singolare e feroce che ci dice qualcosa anche su cosa possono fare per
noi gli scrittori, se possono fare qualcosa: Burroughs, per dire, è
saltato a bordo di un sottomarino e si è inabissato nell’oceano, si è
spinto dove molti di noi non sono mai arrivati e mai arriveranno, ha
portato a galla incubi mostri oscenità, storie che altrimenti non
conosceremmo mai. Questa è una storia per chi rimane in superficie: ci
racconta qualcosa della vita, sopratutto dell’amore.
La capitale mondiale del crimine
Far rivivere Burroughs e Vollmer a Città del Messico è semplice; il
posto è uno di quelli che ha più confidenza al mondo con la morte e i
suoi derivati. C’è un passaggio del meraviglioso Atlante di un uomo irrequieto in cui Christoph Ransmayr racconta questa confidenza:
"Lungo la strada della stazione dei pullman Del Oriente, dove quella
mattina ero arrivato da Oaxaca, avevo visto vetrine di panettieri e di
pasticceri che esponevano scheletri, teschi e bare di cioccolata, glassa
e marzapane, vetrine di mobilieri dove famiglie di scheletri insieme
agli scheletri dei loro cani e gatti assumevano le pose di una vita
felice in cucine, soggiorni e camere da letto: scheletri—donne in
grembiule o tailleur, scheletri-uomini in pigiama, tuta o smoking,
scheletri-bambini vestiti alla marinara (…) Il paese festeggiava i días
de los muertos".
Questo scenario era vero ai tempi di Burroughs e è vero ancora oggi,
e non solo durante i giorni dei morti: nel sobborgo di Coyoacán, dove è
nata Frida Kahlo, si possono comprare tutti i giorni teschietti coi
colori dei quadri della pittrice; su certe bancarelle di mercati come
quello di San Juan, accanto a enchiladas e quesadillas e tacos, si
vendono anche i calaveras, piccoli crani di zucchero colorato; al Museo
mural Diego Rivera, nato sul lato ovest del parco Alameda central dopo
il terremoto del 1985, si va per l’unica opera conservata, e cioè Sueño de una tarde dominical en la Alameda Central, quindici metri di murales la cui figura centrale è la Calavera Catrina, ovvero la raffigurazione popolare della morte. Burroughs stesso, quando deve descrivere la città, parla di avvoltoi:
"Quando ci abitavo, alla fine degli anni quaranta, aveva un milione
di abitanti, l’aria pulita e frizzante e il cielo di quella speciale
sfumatura d’azzurro che si intona tanto bene con gli avvoltoi
volteggianti, il sangue e la sabbia: quel crudo, minaccioso, spietato
azzurro messicano".
Oggi nell’intera aerea metropolitana di Città del Messico vivono
venti milioni di persone; e per chi arriva in aereo, come è capitato a
me, l’azzurro del cielo può lasciare spazio ai colori lattiginosi e
grigiastri dell’inquinamento e delle piogge quotidiane, in cui capita di
vedere soli rossissimi e giganteschi.
L’aria non è più frizzante, non si vive più con due dollari al giorno
(“liquori compresi”, come scrisse a Jack Kerouac), non è più valida
l’etichetta di “capitale mondiale del crimine” (lettera a Ginsberg), ma
in compenso il flusso ininterrotto di persone per le strade, e quello
parallelo nella città sotto la città che un tempo era chiamata
Tenochtitlán e fu la capitale dell’impero azteco, mentre oggi è più
banalmente la rete della metropolitana, in compenso tutto questo ricorda
“quel particolare caos che c’è nei sogni” che Burroughs attribuisce
all’intero Messico.
El hombre invisible e la prima donna dei beat
Quando William e Joan mettono per la prima volta piede in questo caos è il 1949, hanno un figlio e poco altro in comune.
Lui:
È il rampollo di una famiglia che si è arricchita grazie
all’invenzione della calcolatrice: il che spesso lo solleva da qualsiasi
pensiero di trovarsi un lavoro.
A otto anni impara a usare una pistola e scrive la sua prima storia, Autobiografia di un lupo.
Si laurea in letteratura inglese a Harvard, si taglia la falangetta
del mignolo sinistro e la spedisce al suo analista, che lo fa internare.
A New York è arrestato con Kerouac per favoreggiamento nei confronti
dell’amico Lucien Carr, che aveva ucciso un altro amico comune, Dave
Kammerer: entrambi escono su cauzione e su quella vicenda scrivono E gli ippopotami si sono lessati nelle loro vasche, pubblicato 63 anni dopo.
Conosce Joan a New York, nell’appartamento su 115th Street in cui
vivono o passano le giornate Kerouac, Allen Ginsberg, Edie Parker, Hal
Chase, e buona parte del nucleo di quella che sarebbe stata definita
come beat generation.
Lei:
Nasce a Loudonville, vicino Albany, New York, e cresce in una famiglia borghese.
Studia giornalismo alla Columbia university, ma passa la maggior
parte del tempo a parlare di Kant, Platone e Proust in un bar vicino
l’università, dove conosce Edie Parker.
A vent’anni sposa uno studente di legge, Paul Adams, hanno un bambino, ma divorziano poco dopo.
Sviluppa una forte dipendenza dalle anfetamine, che la porterà anche a un ricovero in ospedale dopo gravi episodi psicotici.
Conosce William a New York, nell’appartamento su 115th Street, un incontro combinato da Kerouac e Ginsberg.
Siccome la vita, e soprattutto l’amore, possono somigliare a dei
romanzacci, l’incontro tra i due è una scena con battute da b-movie. Lo
racconta Jorge Garcia-Robles in The stray bullet: William S. Burroughs in Mexico.
"Pochi mesi dopo che la bomba atomica fu sganciata su Hiroshima,
William S. Burroughs, che viveva da solo in un piccolo appartamento nel
Greenwich Village, prese le sue poche cose, attraversò Manhattan come un
ladro, arrivò all’appartamento su 115th Street e, lasciando la borsa
per terra, bussò. La porta si aprì lasciando intravedere il sottile
profilo di Joan, che con voce morbida gli disse: Benvenuto nel tuo
destino. E Burroughs rispose: Benvenuta nel tuo".
La notte della pallottola vagante
Questo destino si compie la sera del 6 settembre del 1951 a Roma, il
quartiere bohémien di Città del Messico. Per chi ci arriva oggi,
immaginare come doveva essere allora non richiede uno sforzo eccessivo.
Le strade, le case, le architetture europee volute dal presidente
Porfirio Díaz e dall’aristocrazia messicana conservano l’aria di
decadenza che era già ben visibile ai tempi in cui Burroughs, Vollmer e
il loro figlio si trasferivano da un appartamento all’altro: prima al
numero 37 di Cerrada de Medellín e poi al 210 di calle Orizaba.
A nessuno dei due indirizzi corrisponde una qualche targa che
ricordi la loro presenza, ma in compenso, davanti la casetta di calle
Orizaba c’è un ragazzo giapponese con una copia in inglese di Pasto nudo
e una cartina della città. Gli chiedo come mai è lì e mi dice che negli
anni ha provato a visitare i vari luoghi in cui il suo scrittore
preferito ha vissuto, da Tangeri a Londra fino a Città del Messico. Gli
chiedo qual è il suo libro preferito, mi risponde inaspettatamente La scimmia sulla schiena. Gli chiedo allora perché si porti in giro per il mondo Pasto nudo. La scimmia sulla schiena è il suo più grande romanzo, Pasto nudo è un’opera d’arte, dice.
Ho sentito e letto molte volte un giudizio del genere a proposito di
questi due libri. Il primo, con una trama e una struttura precise, un
linguaggio secco e affilato, è facilmente riconducibile a un romanzo
tradizionale. Il secondo è la negazione della tradizione, essendo un
collage di storie e scene che si susseguono e implodono le une nelle
altre: e insieme esplodono in una lingua allucinata e corrosiva e
ossessiva.
Il primo con i piedi ancora ben piantati nella realtà, grazie a immagini feroci ma vivide:
"Il mio corpo ero come scorticato, guizzante, tumefatto, le carni
raggelate dalla droga in preda ad un disgelo straziante (…) Mi esplosero
scintille dietro gli occhi, mi si contorsero le gambe: l’orgasmo di un
impiccato quando il collo si spezza".
Il secondo più astratto, con immagini rarefatte, fin dal titolo:
"Non ho un ricordo preciso degli appunti presi e ora pubblicati con
il titolo Pasto nudo. Il titolo mi è stato suggerito da Jack Kerouac (…)
Significa esattamente ciò che le parole esprimono: Pasto NUDO –
l’istante, raggelato, in cui si vede quello che c’è sulla punta della
forchetta".
Nella casa di calle Orizaba Burroughs finisce La scimmia sulla schiena.
Ma non si può dire che gliene importi molto, né del romanzo, né della
scrittura, né più in generale di quello che succede fuori dalla
finestra, né figurarsi di quello che succede nel paese.
Non c’è una riga sui libri pubblicati in quegli anni dal futuro
premio Nobel Octavio Paz, né sulla morte dell’artista José Clemente
Orozco. Non c’è spazio nelle sue pagine per i cieli bassi e sconfinati
sulle strade che portano nella Sierra Madre del sud, non ci sono
sciocchezze dolci come i mole che si possono ordinare a tutte le ore
della notte in una vecchia cucina di Oaxaca, non si sente il suono mite
che può avere l’oceano a Mazunte, o quello di un’esercitazione militare
che fanno le onde a Zipolite. Non c’è l’ossessione di D. H. Lawrence per
i miti aztechi, né quella per il peyote di Antonin Artaud. Non gli
interessano le rivoluzioni politiche che portano nel paese Tina Modotti,
Sergej Ejzenstejn e molti altri.
Dentro casa è troppo preso dalla droga, dallo sperimentare la
telepatia con Joan e dall’ospitare i vari beat di passaggio, da Neal
Cassady a Gregory Corso, da Ginsberg a Kerouac (che qui, tra erba e
alcol, scrisse parti di Trisessa e Mexico city blues). Fuori
casa le giornate scivolano via come una slavina che si porta dietro
sbronze e marchette; fascinazioni per personaggi come Lola la Chata, una
signora di mezza età che deteneva il controllo dello spaccio; sbronze
in locali come il Ku ku (dove arriva a minacciare un poliziotto con una
pistola) e il Bounty.
Il Ku ku non esiste più. Il Bounty c’è ancora e quando ci si arriva,
all’incrocio tra calle Monterrey e Chihuahua, fa una certa tenerezza:
del posto in cui Burroughs e sua moglie si ubriacavano, tenendo d’occhio
il figlio che giocava per strada, dell’epica di cui negli anni è stato
tappezzato il locale non resta che una scritta all’esterno che dice “El
lugar de la leyenda”. Di leggendario oggi non c’è niente, c’è un posto
con una decina di tavoli di plastica e un piccolo bancone di truciolato
dove si può mangiare e bere per pochi pesos.
Qui Burroughs incontra per la prima volta Lewis Marker, un ventunenne della Florida su cui sarà modellato uno dei personaggi di Queer: il ragazzo che il protagonista desidera e da cui viene continuamente umiliato.
"Moor (…) metteva Lee nella posizione di un omosessuale
insopportabilmente insistente, troppo stupido e troppo insensibile per
rendersi conto che le sue attenzioni non erano gradite, e costringeva
Moor alla spiacevole necessità di farglielo capire a chiare lettere".
Nella realtà, Burroughs riesce a trascinare Marker in un viaggio
nella foresta amazzonica in cerca dello yage, una sostanza allucinatoria
che era diventata la sua nuova ossessione. Il patto è che Burroughs
paga tutto e in cambio Marker fa sesso con lui una volta a settimana. Ma
l’accordo si rompe poco dopo la partenza perché Burroughs insidia in
continuazione Marker, lo costringe a camminate sfiancanti nella foresta e
a stargli accanto mentre vomita per cinque giorni dopo aver trovato e
preso lo yage. Il viaggio ottiene il doppio catastrofico risultato di
disgustare Lewis e frustrare Joan. Il primo cercherà da questo momento
in poi di stargli alla larga, la seconda comincerà a provocarlo e
umiliarlo tutte le volte che può.
È quello che fa anche la sera del 6 settembre 1951, nell’appartamento
di John Healy dove hanno raggiunto alcuni amici per bere insieme. E di
nuovo il romanzaccio della vita, e soprattutto dell’amore, interviene:
l’appartamento è pochi piani sopra il Bounty, e quella sera c’è anche
Marker, che dopo il viaggio in Sudamerica aveva fatto perdere le sue
tracce.
L’edificio oggi si confonde in mezzo ai palazzoni di calle Monterrey.
Per entrare basta spingere pulsanti a caso del citofono, dire “correo”
(posta) e aspettare che qualcuno apra: qualcuno apre. Dentro è buio,
anche se è pieno giorno, le scale sono cadenti, la luce è al neon e non
sempre funziona, su molti ingressi ci sono dei cancelli in ferro:
qualche cane abbaia, un bambino piange, sul campanello dell’appartamento
in cui Burroughs uccide la moglie qualcuno ha spento una sigaretta.
Dietro quella porta, sessantaquattro anni prima, Bill e Joan si
versano gin Oso negro e insieme a Healy, Eddie Woods, Marker e la sua
amante, Betty Jones, ne finiscono qualche bottiglia. Burroughs ha con sé
una pistola che nel pomeriggio ha provato a vendere, senza riuscirci.
La tira fuori, la mette sul tavolo e dice agli altri che vorrebbe
trasferirsi con la famiglia da qualche altra parte in Sudamerica, un
posto che gli permetta di vivere con poco, magari coltivando un orto e
cacciando qualche animale. Joan sorride: probabilmente moriremmo di
fame, dice.
"Joanie, lascia che mostri ai ragazzi che gran tiratore è il vecchio
Bill, Burroughs rispose, è il momento giusto per il nostro Guglielmo
Tell. E, alzandosi dalla sedia, allungò la mano e prese la pistola dal
tavolo. Joan si alzò, prese un piccolo bicchiere mezzo pieno e se lo
mise sulla testa. Chiuse gli occhi e con una risata soffocata disse: non
posso guardare, sai che non sopporto la vista del sangue".
Questa è la versione di Jorge Garcia-Robles in The stray bullet.
Di sicuro c’è che Burroughs spara, manca il bersaglio, Joan viene
colpita in testa e muore. Dopodiché è arrestato e portato in carcere in
attesa del processo. E siccome è il diavolo, è difeso dall’avvocato del
diavolo, e cioè Bernabé Jurado, un personaggio monumentale, amante
sfrenato delle donne e delle pistole, re dei cinici e dei corrotti.
Jurado prima di tutto tranquillizza il suo cliente, poi costruisce una
nuova scena del crimine (conviviale, in cui il colpo è partito per
sbaglio), infine convince i testimoni a mentire e corrompe la corte.
Burroughs esce dalla cella tredici giorni dopo esserci entrato.
Lascia il Messico per tornarci una sola volta, e di sfuggita, poco tempo
dopo, poi mai più. Il figlio è affidato ai genitori di Joan Vollmer,
Joan Vollmer è affidata ai becchini del Panteón americano, un cimitero
alla periferia di Città del Messico.
Sessant’anni dopo chiedo a uno di loro dove si trovi la sua tomba. Il
cimitero è grande, cadente e fradicio di pioggia. Il custode mi
accompagna dalla parte opposta dell’ingresso, tra pozzanghere e fango e
parole smozzicate in un walkie talkie. Quando dice ecco, siamo arrivati,
gli chiedo dove, visto che siamo fermi di fronte al muro di cinta del
cimitero. Me ne indica un punto con la testa, un francobollo triste in
mezzo al cemento e alle crepe, dove c’è scritto: Joan Vollmer,
1924-1951.
Gli chiedo se sa chi fosse: una escritora, dice. Gli chiedo se per
caso riceve delle visite: qualcuno, soprattutto cubani. Gli chiedo se sa
com’è morta: l’ha uccisa il marito, un hombre un poquito loco, dice,
una historia singular.
Ha più di cinquant'anni ma non li dimostra. Questo libro
è un pugno in pieno viso. Ci rompe il setto nasale e ci stordisce
parola dopo parola. Burroughs non ha bisogno di presentazioni, ogni
virgola che aggiungiamo alla sua storia è solo un esercizio di stile che
metterebbe in mostra il nostro eruditismo. Burroughs è uno scrittore che bisogna prendere così com’è. O si ama o
si odia. Il suo stile è crudo, sporco, scurrile. Tocca i sensi, in
alcuni casi lo stomaco, ma quando leggi le sue opere senti che il suo
malessere è celato dietro un’ironia che sbeffeggia l’uomo e la natura. Cattivo ragazzo, perché scacciato dalla sua famiglia; uomo perverso,
perché omosessuale e drogato, ma che ebbe il merito di consegnare alla
letteratura pagine lisergiche. I ragazzi selvaggi non è da meno. Non è Pasto nudo
ma la matrice è quella. Tra queste righe parla la ribellione. Ancora una
volta Burroughs inventa un mondo parallelo nel quale libera i suoi
fantasmi e il suo humour nero. Una rivolta si muove in tempi diversi. Coinvolge gli Stati Uniti e
l’America Centrale. L’obiettivo è quello di distruggere ogni legge e
ogni controllo poliziesco. A fomentarla sono ragazzi emarginati,
drogati, pervertiti. A seguire tutto c’è lui, il narratore che filma con
la sua cinepresa finché anche lui non viene ammaliato da questa
rivoluzione che non ha niente di educativo. È un atto irrazionale e
porta il sorriso. Lui, il regista, è il potere che si corrompe
facilmente. Burroughs usa in quest’opera il sesso come liberazione dalla carne.
Lo esaspera. Non gli interessa scioccare ma creare un’assuefazione che
si trasformi in disgusto. Ogni atto di perversione è un rito. Celebra la
distruzione del corpo affinché lo spirito si riappropri del suo
primato. Ma I ragazzi selvaggi è prima di tutto un’opera ironica. La ribellione degli emarginati è un sorriso che ti incula e ti ammazza. Questo libro è stato scritto nel 1969. In diverse parti del mondo le
“Primavere” svilupparono falsi miti. Lo stesso Burroughs lo riconosce,
ma la sua opera rimane prima di tutto un affresco di quegli anni. Un
invito all’anarchia in cui anche le sue frustrazioni si trasformano in
ironici esperimenti.
Oltre il mito del filosofo naturale ribelle, l'autore di Walden è stato anche un pensatore controverso e contraddittorio.
H
o sentito nominare per la prima volta Henry David Thoreau nel film di Peter Weir L’attimo fuggente (Dead Poets Society,
1989), quello in cui l’anticonformista professore di letteratura John
Keating (interpretato da Robin Williams) arriva in un collegio d’élite
in Vermont e sollecita gli studenti a emanciparsi dalla mentalità
conservatrice strappando pagine del manuale e leggendo passi di
scrittori come Thoreau. Ispirati dal professore, alcuni studenti fondano
la “Setta dei poeti estinti”, le cui riunioni in una grotta si aprono
con la lettura di un passo di Thoreau:
Andai nei boschi perché
desideravo vivere con saggezza e profondità, e succhiare il midollo
della vita, sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in
punto di morte, che non ero vissuto.
Le parole di Thoreau ritornano nel film di Sean Penn Into the wild
(2007), tratto dal libro omonimo di Jon Krakauer e ispirato alla vita
dello statunitense Christopher McCandless, che dopo la laurea intraprese
un viaggio in autostop e poi a piedi fino all’Alaska, dove morì solo e
denutrito nel 1992. Nel film, McCandless motiva la sua rottura con la
vita normale con parole prese da Thoreau: “invece che amore, denaro e
fama, dammi la verità”. Si tratta di citazioni leggermente rimaneggiate,
messe in bocca a giovani che rifiutano di adattarsi alle norme sociali e
finiscono tragicamente (il protagonista del film di Weir pagherà con la
vita la sua passione per il teatro), ma che colgono tratti effettivi
del pensiero di Thoreau, quei tratti che ne hanno fatto un’icona della
controcultura giovanile. Nel suo capolavoro Walden o vita nei boschi
(1854), Thoreau puntava l’indice sulla vita dei suoi lettori: “È chiaro
che molti di voi vivono delle esistenze mediocri e volgari […] La
maggior parte degli uomini vive un’esistenza di calma disperazione”. In
alternativa a una vita già determinata dai modelli sociali e economici
dominanti, come ricorda Michel Onfray nel suo Thoreau. Una vita filosofica (Ponte alle grazie, 2019), Thoreau offriva una doppia via di uscita:“Rifiutare
i falsi valori della civiltà (la moda, i soldi, gli onori, le
ricchezze, il potere, la reputazione, le città, l’arte,
l’intellettualismo, il successo, la mondanità) e volere i veri valori
della natura (la semplicità, la verità, la giustizia, la sobrietà, il
genio, il sublime, la volontà, l’immaginazione e la vita)”. Ma l’enorme fortuna di Thoreau non si esaurisce in questo. Il suo Disobbedienza civile
(1849), in cui invitava a evadere le tasse per non sostenere gli Stati
Uniti in guerra contro il Messico, e diversi interventi contro la
schiavitù furono salutati come un modello esemplare da Gandhi e Martin
Luther King; oggi se ne parla spesso come di un precursore della teoria
economica della “decrescita felice” e come figura chiave
dell’ecologismo. Ma raccogliere questa eterogenea eredità comporta il
compito di fare chiarezza e mettere a fuoco la figura di Thoreau al di
là di affascinanti frasi isolate e appropriazioni successive.
Raccogliere l’eterogenea eredità di
Thoreau comporta il compito di fare chiarezza e metterne a fuoco la
figura al di là di affascinanti frasi isolate e appropriazioni
successive.
Bisogna allora misurarsi con tensioni
e aspetti controversi di un pensatore più spesso citato che letto:
Thoreau andò sì a vivere in una capanna nei boschi per un certo periodo,
professando la necessità di rompere col sistema economico e culturale,
ma non fino a rompere i legami con la vita della sua comunità (vedeva
regolarmente i genitori che abitavano a breve distanza); sostenne il
primato dell’azione sulla teoria libresca degli accademici, ma fu un
lettore colto e uno scrittore sempre attento alla comunicazione del suo
pensiero; amò la natura da infaticabile camminatore e osservatore, ma
non contribuì ai primi passi della teoria ecologica e del movimento
conservazionista che avrebbe portato alla fondazione del primo Parco
nazionale a Yellowstone nel 1872; fu un attento lettore di opere
naturalistiche, ma anche un critico della scienza e un romantico che
trovava conforto in una natura idealizzata; si oppose al governo e passò
un notte in prigione per il suo rifiuto di pagare la tassa di un
governo ingiusto, ma non s’impegnò in un movimento politico organizzato,
spregiava la stupidità della massa e predicava piuttosto la salvezza
del saggio in una vita ritirata. A fare chiarezza aiutano oggi diverse
novità editoriali: oltre al già citato profilo di Onfray – che presenta
“il selvaggio Thoreau” come “modello di vita filosofica” – si può
consultare la nuova biografia di Michael Sims, Il sentiero di Walden (Luiss, 2019) e leggere i suoi diari in una nuova selezione ottimamente curata da Mauro Maraschi, Io cammino da solo
(Piano B, 2020). I diari furono il laboratorio di pensiero da cui
Thoreau estrasse le sue opere pubblicate. Si compongono di trentanove
taccuini compilati nell’arco di ventiquattro anni, dal 22 ottobre 1837
al 13 maggio del 1861, per un totale di quasi 7000 pagine. Ma il primo
passo per comprendere queste pagine e cercarvi i tratti originali del
pensiero di Thoreau è riportarle al loro contesto storico. Thoreau nel suo tempo “Un mistico, un trascendentalista e
oltretutto un filosofo della natura”: così Thoreau si definiva nei
diari. Il suo debito verso il trascedentalismo americano di Emerson, che
fu suo protettore, amico e modello, è il primo elemento per inquadrarne
il pensiero. Quello di Emerson era un pensiero di stampo romantico che
professava – nell’America puritana dell’Ottocento – una religione della
natura e una riforma della società fondata su una più marcata libertà
individuale rispetto alla mentalità conservatrice. Emerson avrebbe
influenzato anche Nietzsche, altro pensatore che – come Thoreau – si
sarebbe rivoltato ai valori dominanti in nome di una più autentica
vitalità dell’individuo. Ma dietro a Emerson c’era Goethe, con
l’aspirazione del Faust a catturare lo spirito della natura in nome di
una visione panteistica della natura, il suo ideale pratico (“in
principio era l’azione”) e la riscoperta di un canone di letture
asiatiche – dalla Persia all’India – che anche Thoreau contrapporrà a
quello europeo e cristiano. Un altro tratto di Thoreau fu la
ricerca di una verità pratica piuttosto che metafisica: una regola di
vita ricavata dalla contemplazione della natura. In ciò, di nuovo,
Thoreau partecipava di una caratteristica tipica del pensiero americano.
Come ha mostrato Scott Pratt in Native Pragmatism. Rethinking the Roots of American Philosophy
(2002), pensatori di scuole diverse, dal pragmatismo all’idealismo,
condividevano la tesi che la cultura erudita andasse superata in nome di
un’esperienza diretta del selvaggio territorio americano. Questo
orientamento, oltre che in Emerson e Thoreau, si trova in Walt Whitman,
ma anche in un hegeliano conservatore come Henry
Clay Brockmeyer, che poteva annotare: “Ho letto Spinoza per due ore
stamattina finché non ho sentito il rombo di una mandria di bufali fuori
dalla porta, perciò ho afferrato il fucile e li ho inseguiti”. Pur agli
antipodi di questo rapporto predatorio con la natura, Thoreau
condivideva l’idea che le letture non sono che un accompagnamento alle
esplorazioni della natura selvaggia e alla ricerca in essa dei mezzi di
sussistenza.
Un’altra fonte delle sue idee era la cultura classica greco-romana,
parte integrante di un’educazione borghese e tutt’altro che “selvaggia”.
Nella versione integrale del passo sopra citato sull’andare nei boschi,
Thoreau auspicava di vivere “da gagliardo spartano”. La sua etica della
semplicità come via per la felicità attingeva al pensiero cinico e a
quello epicureo; il suo trovare conforto dai mali della società
nell’ordine divino della natura, allo stoicismo. E nei versi di Orazio
poteva trovare già l’auspicio di quel ritorno nei boschi che avrebbe
messo in pratica: “Non c’è al mondo poeta che non ami il silenzio dei
boschi / e non fugga la città”. Quanto al pensiero politico, nel
contrastare lo schiavismo e teorizzare uno stato per quanto possibile
leggero nella vita dell’individuo (“il migliore dei governi è quello che
governa meno”), Thoreau seguiva il suo maestro Emerson. Poco prima
della morte, nel 1860, intervenne in difesa di John Brown, condannato a
morte per aver assalito degli schiavisti, e si avvicinò a teorizzare la
lotta armata: “Non voglio né uccidere né essere ucciso, ma posso
prevedere circostanze nelle quali entrambe le cose sarebbero
inevitabili”. Poteva essere un momento di svolta, ma Thoreau morì nel
1862, a quarantaquattro anni, lasciando soprattutto un oceano di testi
per formarsi un’idea del suo pensiero. Da una ricognizione di questo oceano,
in fin dei conti, spicca un interrogativo sulla coerenza del suo
pensiero: come si tenevano insieme il ritorno alla natura, l’isolamento
dell’individuo dalla società e la prospettiva di una modifica di
quest’ultima? Forse Thoreau avrebbe detto di sé quello che scriveva
Whitman, altro protagonista del cosiddetto Rinascimento americano: “Mi
contraddico? Certo che mi contraddico. Sono vasto e contengo
moltitudini”. Ma proviamo almeno a chiarire alcuni temi del suo
pensiero. Scienza e poesia Thoreau vedeva nella Natura un
ordine di fini superiori alle ambizioni umane, che in definitiva
condannava l’ambizione borghese e raccomandava di tornare alle attività
più semplici: “Tutti i processi
della Natura, presi separatamente, richiamano lo stesso obiettivo al
quale mirano tutte le cose. E allora, perché mai l’uomo dovrebbe
affrettarsi come se non potesse dedicare l’eternità anche alle attività
più ordinarie?”. Riconoscere in questa Natura “una
costante evoluzione” la rendeva meravigliosa e ne faceva un rimedio per
l’individuo afflitto dall’inquietudine e dalla delusione: “La Natura
cura delicatamente ogni ferita […] fa costantemente del suo meglio per
farci stare bene”. Queste intuizioni confortanti sulla Natura non
poggiavano sull’analisi scientifica, che Thoreau riteneva incerta e
superflua, preferendole il pensiero di antichi filosofi e scrittori:
“Cos’è più autentico, le sublimi concezioni dei poeti e dei veggenti ebraici, o le prudenti dichiarazioni dei moderni geologi, che bisogna rivedere e disimparare in continuazione?”
Leggendo
Thoreau ci si scontra spesso in quell’indebita sovrapposizione di amore
per la natura e misantropia che si ritrova ancora oggi in alcuni
critici della società.
Il primato di un approccio estetico alla natura rispetto a quello
oggettivo della scienza ritorna spesso nei diari: “La cosa più
importante di un oggetto è l’effetto che produce su di me”. Un fiocco di
neve non si spiega meccanicamente, è un “prodotto dell’entusiasmo”. Il
punto di vista scientifico in certi passi è rifiutato con disprezzo: “La
scienza è disumana”. Ad essa va sostituito uno sguardo che legge nella
natura una sorta di rivelazione: “Se vuoi acquisire familiarità con le
felci devi dimenticare la botanica”; in questo modo la contemplazione di
queste piante potrebbe essere come “un’altra sacra scrittura
rivelatrice e aiutarti a migliorare la tua vita”. Questo tipo di idealizzazione della
natura lasciò un’ombra nella posterità di Thoreau: per l’ignoranza del
territorio e delle fonti di approvvigionamento, Chris McCandless si
smarrì nel suo viaggio di scoperta e morì in Alaska. Viene in mente
anche Timothy Threadwell, altro giovane eremita dell’America selvaggia,
raccontato nel documentario di Werner Herzog Grizzly man
(2005), che va a vivere con gli orsi, li idealizza come animali
sostanzialmente buoni e ne finisce divorato. La natura, per questi
imitatori di Thoreau, perdeva i suoi lati non-umani e diveniva il teatro di un dramma del soggetto inquieto. Etica dell’individuo e rottura con la società Il tema dominante della riflessione
di Thoreau è la ricerca di un’etica individuale: “Per la tua salute sia
fisica che mentale, concentrati sul presente”. La serenità si può
ottenere soltanto prendendo le distanze dalle leggi della società, che
impongono di cercarsi un impiego per pagarsi un’abitazione e altri beni:
Al
di là delle leggi degli uomini ha inizio una prateria. La Natura è la
prateria dei fuorilegge. Esistono due mondi, quello degli uffici e
quello della Natura: io li conosco entrambi, e man mano che sollevo i
miei argini mi lascio alle spalle l’umanità e le sue istituzioni.
In Camminare, con toni quasi evangelici, il distacco dai legami sociali è presentato come una premessa della libertà individuale:
Se
sei pronto a lasciare il padre e la madre, e il fratello e la sorella, e
la moglie e il figlio e gli amici, e a non rivederli più; se hai pagato
i tuoi debiti, e fatto testamento, se hai sistemato i tuoi affari, e se
sei un uomo libero, allora sei pronto a metterti in cammino.
Il rifiuto radicale della
società moderna riguarda ogni tipo di dipendenza economica: “Farsi
aiutare dai prestiti degli amici o del governo è come farsi ricoverare
in un ospizio”. “In paradiso mi aspetto di poter cuocere il mio pane e
lavare le mie lenzuola. L’oltretomba è l’unica pensione in cui centinaia
di persone possono coesistere”. La resistenza di Thoreau a stabilirsi
e arricchirsi si rifletteva anche in una liquidazione della proprietà
privata, cioè di un vero e proprio pilastro della società americana:
Mi
diverte osservare dalla finestra quanto l’uomo si sia dato da fare a
dividere e segmentare il suo dominio. Probabilmente Dio ride delle sue
minuscole recinzioni che corrono in lungo e in largo, ovunque, sulla
superficie della terra.
Per demistificare l’accumulo di
ricchezza, Thoreau riportava ogni valore monetario a una dimenticata
origine naturale, come piante, selvaggina, pelli: “tutti i soldi
derivano dalla banca selvatica originale”. Questo rifiuto dell’intero
meccanismo dell’economia moderna comportava l’invito a cercare
l’autosussitenza e non pagare tasse ritenute inique, ma non si
prolungava in una vera e propria teoria economica: in ciò esagera Onfray
a fare di Thoreau un teorico della decrescita felice. Eppure, in Disobbedienza civile
Thoreau presentava la violazione delle leggi del mercato come un gesto
potenzialmente distruttivo sul piano dell’intero sistema. “Che la vostra
vita faccia da contro-attrito per fermare la macchina”. Misantropia o rivoluzione? Per Onfray, Walden
contiene “un’utopia politica”, che molti epigoni avrebbero provato a
mettere in pratica. A tratti l’individualismo di Thoreau diventa
anarchico (“Il migliore dei governi è quello che non governa affatto”) e
propone “una rivoluzione pacifica” da realizzarsi mediante il rifiuto
di adeguarsi alle norme. Ma anche il lato politico di Thoreau resta poco
sviluppato: non aderì ad alcuna organizzazione politica e non formò un
movimento per promuovere il bene comune. In ciò il suo individualismo
appare un esito radicale di una tendenza ben presente nella cultura
americana, ma non può coesistere con quello dei cittadini americani,
integrati al sistema economico, e questo porta Thoreau in conflitto con i
suoi simili:
Che
senso avrebbe tentare di vivere in modo semplice, coltivando quello che
mangi, cucendo quello che indossi, costruendo la tua casa e bruciando
il legno che hai tagliato e raccolto con le tue mani, se poi coloro cui
sei associato desiderano follemente che si producano migliaia di cose
che né tu né loro potete procurarvi autonomamente, e che forse nessuno è
in grado di pagare? L’uomo al quale ti associ è uno sterzo che tende
sempre a dirottarti dalla parte opposta.
In alcuni passi Thoreau parla come un
moralista puritano che rimprovera ai cristiani di non avere abbastanza
virtù per dirsi tali. Ma leggendo i diari ci si domanda se dietro queste
posizioni, prima che una meditata riflessione politica, vi fosse
un’istintiva avversione per i suoi simili: “Cerco la solitudine con
desiderio e brama infiniti, sempre più forti e risoluti, mentre cerco la
compagnia con sempre minor convinzione”. Walt Whitman, dopo averlo
conosciuto, sentenziò: “Non credo che fosse tanto l’amore per i boschi, i
fiumi e le colline a portarlo a vivere in campagna, quanto un morboso
disprezzo per l’umanità”. Thoreau risultava ostico con il suo
atteggiamento sempre ipercritico e la sua difesa di un’autonomia senza
compromessi, in cui a tratti traspare la frustrazione per la scarsa
considerazione dei suoi contemporanei. Nessuno, dai vicini americani
all’umanità in genere, si salva dal suo giudizio negativo:
L’opinione pubblica è
un debole tiranno se paragonata all’opinione che abbiamo di noi stessi. A
determinare il mio destino è ciò che penso di me stesso.
I miei connazionali sono per me degli stranieri, e con loro io non ho
più affinità che con le masse dell’India o della Cina. Tutte le nazioni
svolgono male i propri compiti
Siamo una specie egocentrica […] Dal punto di vista filosofico l’uomo è un fenomeno superato.
In conclusione, ci si domanda se in
Thoreau non si trovi un modello di quell’indebita sovrapposizione di
amore per la natura e misantropia che si ritrova ancora oggi in alcuni
critici della società: “Bisogna combattere ogni giorno con la stupidità
delle persone […] Gli stupidi sono ovunque”. Ritorno alla natura Il ritorno alla natura predicato da
Thoreau è un’altra faccia della fuga dagli uomini: “Sembra quasi una
legge il fatto che non si possa instaurare un rapporto profondo sia con
l’uomo che con la natura” – scrive nei diari. E ancora: “Amo la Natura
anche perché non
è gli uomini, bensì un rifugio da essi”. Nei luoghi selvaggi “io
ritrovo me stesso, ancora una volta mi sento parte di un grande
progetto, e il freddo e la solitudine si rivelano amici”. Si capisce che
Thoreau non è propriamente un mistico, che vuole sciogliere il suo io
nella natura, né uno scienziato che vuole conoscerla, ma un individuo
che nella compagnia di piante e animali trova un sostituto della società
degli uomini, da cui si sente “puntualmente frainteso”:
È
questa la società in cui vivo, la società che difendo […] Le persone
pensano che io sia strambo e deviato perché alla loro compagnia
preferisco quella di ninfe e fauni. Ma io parlo per esperienza. Mi sono
seduto con una decina di loro in un’osteria, e fin dal primo istante non
mi hanno ispirato nulla di buono.
Questa tranquillità, questa
solitudine, questo lato selvaggio della natura è per il mio intelletto
una sorta di appagamento, o di completamento. È questo ciò che cerco. È
come se in questi luoghi incontrassi sempre un amico saggio, sereno,
immortale e infinitamente stimolante, per quanto invisibile, sempre
disposto a camminare al mio fianco. È in questi luoghi che i miei nervi
finalmente si placano e i miei sensi e la mia mente funzionano a dovere.
Bisogna confrontare queste posizioni con quelle di Rousseau, altro fustigatore dei lussi e della corruzione moderna, che nel Discorso sull’origine della disuguaglianza
(1755) celebrava la virtù ingenua dell’uomo nello stato di natura e
criticava la proprietà privata. Voltaire si prese gioco di lui
affermando: “A leggere il vostro libro, viene voglia di andare a quattro
zampe”. Era una battuta ingenerosa, perché lo stato di natura di
Rousseau era una condizione ideale a cui il ginevrino non invitava a
tornare: l’educazione e la politica dovevano incaricarsi di ripristinare
per quanto possibile un equilibrio che non si poteva e non si doveva
cercare fuori dalla società civile. Su questo sfondo, Thoreau appare
come animatore di una reazione più radicale: per rimediare agli errori
intrinseci della civiltà moderna non basta seguire un modello della
natura, ci vuole una rottura reale e senza compromessi, si deve
ricominciare una vita diversa.
In questa radicalità si può cogliere
un pregio o un limite del pensiero di Thoreau. Onfray, tratteggiando la
personalità del Thoreau giovane, vi coglie un tratto ingenuo: “Il
suo ideale è la libertà del bambino: costruire capanne, pescare negli
stagni, risalire i fiumi in barca, camminare nei boschi, guardare il
mondo tra le proprie gambe, arrampicarsi sugli alberi, fare il bagno
nelle acque del lago Walden in qualsiasi stagione”. C’è in effetti un
problema persistente nel suo pensiero: l’indipendenza implica la
rinuncia a ogni compromesso con la vita associata. “Vivete
quanto più indipendentemente potete, senza impegno alcuno”. Come poteva
una simile posizione sostenere la riforma sociale professata altrove da
Thoreau? Tra indipendenza a politica, la sua scelta finale sembra
cadere sempre sulla prima, con un invito che è una sfida alla realtà:
“Vivere la vita che s’è immaginato”. Indiani Il limite a cui ho accennato non è
l’ultima parola nell’incessante flusso di pensiero dei diari. Tra i temi
più importanti c’è la considerazione dei nativi americani, gli
“indiani”, in quanto portatori di una saggezza perduta. Si tratta, di
nuovo, di un tema che in teoria era stato già modulato, ma che Thoreau
trasforma in senso pratico. Onfray sbaglia quando scrive che il
romanticismo di Thoreau era, anche per questo tratto anti-progressivo e
la rivalutazione della sensibilità dei selvaggi, una “reazione
all’illuminismo”. Oltre al già citato Rousseau, Diderot aveva celebrato i
selvaggi tahitiani come modelli di innocente sensualità. Questo tema di
una felicità incorrotta era stato ripreso da Melville nel suo romanzo Taipi,
forse fonte di Thoreau. Ma ciò che interessa particolarmente Thoreau è,
tra le altre cose, il diverso rapporto degli indiani con il territorio
colonizzato dagli europei:
Se degli uomini
selvaggi, con i quali condividiamo più somiglianze che differenze, hanno
abitato queste lande prima di noi, allora dobbiamo conoscere nel minimo
dettaglio che tipo di uomini erano, come vivevano in questi luoghi e
che rapporto avevano con la natura, nonché scoprire la loro arte, i loro
costumi, le loro leggende e le loro superstizioni.
Decenni prima che Franz Boas
iniziasse una etnografia sistematica sul suolo Nordamericano, Thoreau
accumula reperti e informazioni sulle culture indiane ormai quasi
scomparse, per cercarvi i segni di un modo diverso di organizzare la
società, con un gesto che verrà più volte ripreso, fino ad oggi, dai
critici della traiettoria distruttiva della civiltà europea. Ecologia Il termine “ecologia” fu coniato pochi anni dopo la morte di Thoreau, ma il pensiero ecologico si stava già sviluppando.
La consapevolezza del suo contemporaneo Alexander von Humboldt che la
natura è un tutto interconnesso e soggetto a continui mutamenti, di cui
l’uomo può rompere l’equilibrio, si arricchiva con la rappresentazione
darwiniana di una lotta per la sopravvivenza che coinvolge tutti i
viventi (L’origine delle specie è
del 1859). Su questo sfondo, s’iniziava a porre la questione della
tutela dell’ambiente rispetto alla corsa alle risorse della civiltà
borghese e capitalistica. Ma l’intera questione di una limitatezza delle
risorse e del suo impatto ambientale sfuggiva del tutto a Thoreau:
“Checché ne dicano Malthus e altri, su questa terra ci sarà sempre
spazio in abbondanza per tutti, almeno fintanto che ciascuno penserà
agli affari suoi”. Questo non significa che Thoreau non abbia importanza per il pensiero ecologico. Se Humboldt
– insieme a altri – aveva gettato le basi teoriche di una scienza
dell’equilibrio ambientale, Thoreau rilevò un altro fattore della
pratica ecologica: la dimensione etica delle scelte di vita individuali,
i conflitti anche aspri che queste implicano, e la difficoltà
drammatica di concretizzare quell’inversione di rotta di cui gli
scienziati avevano già anticipato la necessità sul piano della teoria.
Così l’uno fornì uno sguardo globale sulla natura contemplata e
conquistata dall’uomo, l’altro chiamò in causa la responsabilità
dell’individuo che con essa vorrebbe riconciliarsi: l’ecologia ha
bisogno di entrambi.