Considerato uno tra i più importanti pionieri del colore,
Stephen Shore si è avvicinato alla fotografia con sorprendente precocità:
scattava fotografia e usava la camera oscura già prima dei dieci anni, a
quattordici Edward Steichen, il curatore capo del MoMa, acquista tre sue opere,
da adolescente frequenta la Factory di Andy Warhol, a ventiquattro anni il
Metropolitan Museum of Art gli dedica una mostra personale.
Nel 1973 Shore ritorna da un viaggio per gli Stati Uniti
durato due anni. Il risultato di questa esperienza è “American Surfaces”, un
progetto realizzato con una fotocamera 35mm e pellicole a colori. “American
Surfaces”, è un ampio insieme di immagini che, emulando lo stile
dell’istantanea, ritraggono tutto ciò che il fotografo ha incontrato in viaggio:
le stanze in cui ha dormito, i pasti consumati, le persone, le strade, le
stazioni di servizio, motel, le automobili, i parcheggi.
Tra il 1973 e il 1981 Shore compie una nuova serie di viaggi
nel Paese, viaggi che daranno vita a “Uncommon Places” (a cui appartengono le
opere in collezione), un progetto da lui inteso come diario di un viaggio, non
solo fisico ma soprattutto orientato a esplorare l’esperienza della visione. In
“Uncommon Places” si assiste ad un’evoluzione formale dovuta al passaggio al
grande formato: l’approccio è più meditato e la superficie del negativo
condensa una straordinaria densità di informazioni.
Con uno stile privo di qualsiasi enfatizzazione, e una straordinaria resa della
luce, l’opera di Shore coglie le trasformazioni che la cultura del consumo ha
inflitto al paesaggio degli Stati Uniti, dove pali, cavi elettrici, neon e
cartelli pubblicitari hanno per sempre compromesso l’immagine tradizionale
della wilderness americana.
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