"Freaks", il film che costò al suo regista il
bando da Hollywood, si è guadagnato l'appellativo di film maledetto per la
mezz'ora intera che sarebbe stata tagliata per volere dei produttori della
Metro-Goldwyn-Mayers. L'impatto che ebbe sul pubblico alle prime proiezioni fu
devastante: malori, proteste, accuse di sfruttamento delle menomazioni umane
per fare del becero sensazionalismo. In verità quello che Browning voleva era
palesare la normalità dell'universo degli anormali. Non c'è nessuna stranezza
nel vedere i legami di amore e amicizia che si intrecciano tra i protagonisti
del circo di "Freaks". E tantomeno non vi è alcuna morbosità nel
riprendere dei veri uomini e donne con le caratteristiche fisiche più diverse e
varie.
Questo, chiaro, il pubblico, ma anche la critica del 1932 certo non
poteva capirlo pienamente; e la genialità dell'opera di Browning, che già nella
prima parte della sua folgorante carriera aveva dimostrato di avere a cuore di
mettere in scena proprio il pregiudizio generalizzato del pubblico, sta proprio
in questo: fotografare ciò che è la realtà, la paura del diverso, dell'inusualità
e provocarne reazioni speculari proprio dopo averle filmate.
E se da un punto
di vista narrativo il film è molto lineare e poggiato su un canovaccio molto
semplice (l'avidità umana che spinge all'umiliare il diverso, a sfruttarlo, pur
di raggiungere l'agognato obiettivo), l'inversione dei ruoli nel finale ha
qualcosa di sorprendente: il sadismo con cui i freak
perpetrano la loro vendetta una volta scoperto l'inganno è il vero momento
horror dell'opera di Tod Browning.
Convinto assertore dell'idea che la realtà non abbia bisogno di troppi filtri o traduzioni per essere messa in scena così com'è, Browning decide di non barare: nessun attore professionista a scimmiottare un qualsivoglia handicap. Bensì attori dilettanti che fanno se stessi: quelle che vediamo sono le loro vere menomazioni, quello che fanno nella vita del film è ciò che caratterizza le loro vere giornate. Ed è così che un film che si permette di mostrare forse troppo per gli usi dell'America anni 30 diventa una pellicola da catalogare nel genere horror.
Convinto assertore dell'idea che la realtà non abbia bisogno di troppi filtri o traduzioni per essere messa in scena così com'è, Browning decide di non barare: nessun attore professionista a scimmiottare un qualsivoglia handicap. Bensì attori dilettanti che fanno se stessi: quelle che vediamo sono le loro vere menomazioni, quello che fanno nella vita del film è ciò che caratterizza le loro vere giornate. Ed è così che un film che si permette di mostrare forse troppo per gli usi dell'America anni 30 diventa una pellicola da catalogare nel genere horror.
Al geniale regista questo grande equivoco non dispiacque
affatto; fu al cast che creò dei problemi. La ragazza che interpretava la donna
barbuta, ad esempio, rinnegò pubblicamente "Freaks" dopo le
primissime proiezioni, atterrita più che spaventata dalle incredibili reazioni
di orrore misto a disgusto che gli spettatori manifestavano.
Per un
quarantennio il film è stato distribuito nella sua versione ufficiale senza
alcune inquadrature che indugiavano troppo sulle caratteristiche fisiche dei freak e soprattutto senza il finale
tragico e violento della vendetta sui due traditori, con il montaggio che
passava direttamente a mostrare la povera Cleopatra oggetto dello sguardo
curioso del pubblico, dopo le menomazioni subite nella notte del diluvio.
L'urlo «È una di noi!» fa venire fuori tutto il senso dell'opera
e risuona ancora oggi fino a giungere alle nostre orecchie.
Nessun commento:
Posta un commento