Cavalli selvaggi – Cormac McCarthy (1992)
Texas, 1949.
Lacerato ogni legame che lo
stringeva alla terra e alla famiglia, John Grady Cole sella il cavallo e
insieme all'amico Rawlins si mette sull'antica pista che conduce alla frontiera
e più in là al Messico, inseguendo un passato nobile e, forse, mai esistito.
Attraverso la vastità di un
territorio maestoso e senza tempo, i due cowboy, cui si aggiunge il tragico e
selvaggio Blevins, intraprendono un viaggio mitico che li porterà fin nel cuore
aspro e desolato dei monti messicani.
Una terra dominata da albe e da tramonti senza fine,
dall'odore della pioggia sulla sabbia del deserto e dal vento freddo che scende
dalle mesas.
Una terra sulla quale la tragedia aleggia preponderante e
ossessiva ad ogni pagina, condotta, in modo ipnotico e ossessivo, da un autore
che sembra possedere la grazia degli dei.
Qui la vita sembra palpitare allo stesso ritmo dei cavalli bradi.
Qui la vita sembra palpitare allo stesso ritmo dei cavalli bradi.
Con una narrazione che all'asciuttezza
stilistica di Hemingway unisce la ritmicità incantatoria di Faulkner, McCarthy
strappa al cinema il sogno western e lo restituisce, con sorprendente potere
evocativo, alla letteratura.
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