venerdì 24 gennaio 2025

Dischi nella tomba: Virgin Prunes - If i die, i die (1982)


 Virgin Prunes, il volto pagano dell'Irlanda. Addio Isola verde, terra di fate e di folletti, di un cielo che si muove con te e di un Dio severo e oppressivo. Quella, semmai, è la superficie. Le liturgie di Friday e compagni sono il sottosuolo: un inferno brulicante di reietti, pronti a emergere dalle viscere della terra e a scatenare la loro ancestrale carica di bestialità. Eppure, proprio in quanto "prunes" (slang dublinese per "derelitti"), sono anche "virgin", puri, perché incontaminati. Virgin Prunes, la limpida fiamma della follia.

Ma ripartiamo dall'inizio: 1977. Non un anno qualsiasi per il rock d'oltremanica. La febbre punk infiamma le cantine d'Albione. Ma se Londra brucia, Dublino non ride. Almeno quella dei Virgin Prunes... Non propriamente un gruppo rock, bensì una comune artistica multimediale, attiva in uno dei più creativi circoli sociali della città, il Lypton Village. Tra i membri dell'accolita, anche due ragazzi di nome Paul Hewson e David Evans, meglio conosciuti in seguito come Bono Vox e The Edge degli U2. Ma da allora le carriere dei Virgin Prunes e degli U2 scorreranno parallele e quasi complementari tra loro: una sottotraccia, l'altra sotto le luci della ribalta. 


Sulle orme del Teatro del Dolore di Artaud, i Prunes inscenano un raggelante cabaret dadaista, all'insegna di urla e sangue, messe nere e danze sfrenate. Gavin Friday (vero nome: Fionan Harvey), cantante, performer, e compositore, è l'anima del gruppo, che comprende gli altri due vocalist Guggi (Derek Rowan, fratello di Peter, il bambino raffigurato sulle copertine di "Boy" e "War" degli U2) e Dave-id "Busaras" Scott (personaggio infantile, rimasto segnato da una meningite contratta da bambino), il bassista Strongman (Trevor Rowan, altro fratello di Derek), il batterista Pod e il chitarrista Dik (Richard Evans, fratello di The Edge). I primi singoli ed Ep del biennio 1980-'81 contengono già in nuce la filosofia del loro progetto: armonizzare un folklore atavico con sonorità d'avanguardia, mutuate dal ramo più colto del progressive (King Crimson, Genesis, Van Der Graaf Generator), dalle pantomime glam di David Bowie e dalla tradizione gotica. Una congerie di idee e suoni disarticolati, che sarà sublimata nel loro debutto sulla lunga distanza, targato 1982.

Prodotto da Colin Newman dei Wire, capace di incanalare la foga sperimentale del gruppo verso rotte più "musicali", "...If I Die, I Die" è una raccolta di mini-piece immerse in un clima di gelo surreale. Lo chiameranno glam-dark , e non a torto, visto che di entrambi i generi riesce a catturare l'essenza. La band, che presenta ora Mary D'Nellon dietro ai tamburi, suona con un fervore esagitato, degno dei migliori Banshees. Strumenti tradizionali, come il whistle e il bhodran, si saldano a chitarre elettriche dissonanti, a effetti rumoristici e a suoni catturati dal vivo e registrati su basi elettroniche. La resa teatrale dell'operazione è garantita soprattutto da Friday, crooner d'oltretomba, con le sue litanie sinistre e allucinate. 

"...If I Die, I Die" è un incubo. Termine fin troppo abusato, si dirà, ma non in questo caso. La poetica dei Virgin Prunes, infatti, si rifà espressamente al tentativo dadaista di "togliere il sonno alla borghesia". L'arte è lo strumento per oltraggiare il perbenismo ufficiale, provocando, sbigottendo, disgustando. Ma è anche la chiave per svelare la verità e la bellezza ("A New Form Of Beauty" si intitolerà un altro loro progetto), sepolte da secoli di convenzioni sociali e messe a repentaglio da un progresso disumanizzante (quella paura del futuro che, dai Pere Ubu agli Ultravox, ha sempre ossessionato la new wave). Ecco, allora, il senso di un rinnovato paganesimo, di un primitivismo animalesco, che si ridestano, in una sorta di rito salvifico, per liberare l'umanità. "...If I Die, I Die" è quasi un concept album su questo tema, sviluppato su più registri: grottesco, solenne, demenziale, apocalittico.

Lo strumentale "Ulakanakulot" schiude le porte di questo tempio eretico sulle note di una minacciosa nenia medievale. Recuperando l'espediente del "cerimoniale", già caro agli avi Stooges, Doors e Amon Duul, e giocando sugli improvvisi cambi di ritmo, i Prunes intrappolano l'ascoltatore in una spirale d'ansia infinita. Si susseguono così sketch glaciali, al limite del cabaret brechtiano ("Decline And Fall", con la declamazione straniante di Friday e il coro funereo sullo sfondo, o la cantilena sguaiata di "Sweethome Under White Clouds", sfregiata dai gemiti di un clarinetto) e sarabande indiavolate come la stupenda "Caucasian Walk": un beffardo giro di danza slava tirato all'impazzata con un dialogo ritmico in controtempo, tra le urla nevrasteniche del cantante e l'infuriare delle percussioni. E' l'apice della violenza "tribale" del disco e il più esplicito rimando agli etno-psicodrammi dei Pil.


Altre volte, invece, Friday si cala nei panni di un dandy gigione, a metà tra il Peter Murphy più loffio e un Brian Ferry in acido (il synth-pop di "Baby Turns Blue", con un cantato alla Bowie puntellato dai fraseggi ficcanti di tastiere e chitarre, o la ballata quasi convenzionale di "Ballad Of The Man", resa però sinistra dall'arrangiamento ridondante e dai coretti surreali). Ma è solo fumo negli occhi. L'illusione di una quiete che non potrà mai compiersi. Anche perché ci sono le chitarre affilate di "Walls Of Jericho" in agguato, e Friday è pronto a mettere in scena l'ennesima metamorfosi: da dannato a predicatore (il testo svela che quantomeno i Prunes credono nell'esperienza umana di Cristo - Friday e Guggi frequentarono anche per un periodo il gruppo "Shalom"). Nei quasi sei minuti di "Bau-Dachong", invece, sembra di ascoltare una versione ancor più spettrale dei Bauhaus, tra fremiti metallici delle chitarre, echi, riverberi e una sezione ritmica sempre più ossessiva, come si confà ai dogmi del dark-punk.
"Theme For Thought" propone invece un inserto di "The Ballad Of Reading Gaol" di Oscar Wilde, del quale i Prunes condividono l'estetica decadente e il feroce anticonformismo. È l'atto finale, affidato ancora una volta al baritono melodrammatico di Friday, cui si sovrappongono le lagne dementi dei compari, quasi a voler rimarcare quella vena d'infantilismo isterico che è un altro leitmotiv del disco.


Il cabaret dei Virgin Prunes ha tenuto i battenti fino al 1986, sempre più surreale, sempre meno redditizio. Poi, la band si disperderà e Friday seguirà altre e più lucrose rotte. Ma lo shock sonoro di "...If I Die, I Die" continuerà a riverberarsi negli anni successivi. E chissà che anche i protagonisti della rinascita new wave del Duemila non debbano qualcosa a questi vecchi fauni irlandesi.

Claudio Fabretti


mercoledì 8 gennaio 2025

Dischi nella tomba: Theatre of hate - Westworld (1982)

 Il giovane Kirk Brandon era un ragazzo molto turbolento e decisamente appassionato alle vicende politiche di cui era testimone. Fortemente ideologizzato a sinistra, aveva fondato il gruppo punk dei The Pack, per poi suonare il basso, più o meno contemporaneamente, con gli appena formati Culture Club di Boy George. Il giovane Brandon presto capì che la sua sfera ideale era quella punk, innanzitutto per l’immediatezza che permetteva all’espressione artistica, ma anche per la sottomissione dei requisiti tecnici al messaggio politico da veicolare.
Ebbe in seguito la fortuna di incontrare una delle sezioni ritmiche più formidabili dell’intera scena post-punk: il bassista Stan Stammers, amico di vecchia data, ed il forsennato batterista Luke Rendle, di tutti quello più rodato, avendo suonato i tamburi né più né meno che dei Crisis. Reclutato poi un sassofonista classico come il canadese John Lennard, il quartetto, chiamatosi Theatre of Hate, si mise subito a seguire, portandole alle estreme conseguenze, le orme degli UK Decay, ovvero quelle più infuocate nella performance e più impegnate politicamente.


Ciò che rese i Theatre of Hate un vero e proprio mito per la Londra underground furono le loro performance live, infuocate come poche, fatte di inni contro la decadente società borghese e per la coscienza di classe del proletariato.
Il botto lo fece il disco che ne uscì, per la Burning Rome, nella tarda primavera del 1982: Westworld, precedentemente definito la pietra angolare del positive punk (ovvero la convinzione che il mondo fosse migliorabile tramite la protesta e la lotta sociale). Il gruppo era quindi destinato a rimanere sostanzialmente estraneo al fenomeno dark, sennonché i quattro si ritrovavano a dover incidere un intero album in studio, lontano dal loro ambiente naturale, il palco. Necessariamente la situazione impediva di puntare sulle loro doti di immediatezza ed energia performativa e quindi il produttore Steve Jones decise che fosse il caso di enfatizzare il loro lato più torbido. Ecco quindi il segreto di Westworld. Il risultato fu un gran disco tanto figlio del punk che della dark wave.

Sorprendendo un po’ tutti, il disco si piazzò al 20° posto delle classifiche ufficiali inglesi. A questo punto il successo fece il resto: concerti sempre più esagitati, Kirk Brandon sempre più nervoso. Il primo a lasciarlo fu il chitarrista Billy Duffy che praticamente ricostruì il gruppo chiamandolo Southern Death Cult. Poi, sempre più incapace di gestire i dissapori all’interno del gruppo, soprattutto dopo il fallimento delle successive prove discografiche, Brandon mandò tutti a casa, salvo poi risorgere accompagnato dal solo bassista Stammers come Spear of Destiny.