Virgin Prunes,
il volto pagano dell'Irlanda. Addio Isola verde, terra di fate e di
folletti, di un cielo che si muove con te e di un Dio severo e
oppressivo. Quella, semmai, è la superficie. Le liturgie di Friday e
compagni sono il sottosuolo: un inferno brulicante di reietti, pronti a
emergere dalle viscere della terra e a scatenare la loro ancestrale
carica di bestialità. Eppure, proprio in quanto "prunes" (slang
dublinese per "derelitti"), sono anche "virgin", puri, perché
incontaminati. Virgin Prunes, la limpida fiamma della follia.
Ma
ripartiamo dall'inizio: 1977. Non un anno qualsiasi per il rock
d'oltremanica. La febbre punk infiamma le cantine d'Albione. Ma se
Londra brucia, Dublino non ride. Almeno quella dei Virgin Prunes... Non
propriamente un gruppo rock, bensì una comune artistica multimediale,
attiva in uno dei più creativi circoli sociali della città, il Lypton
Village. Tra i membri dell'accolita, anche due ragazzi di nome Paul
Hewson e David Evans, meglio conosciuti in seguito come Bono Vox e The
Edge degli U2.
Ma da allora le carriere dei Virgin Prunes e degli U2 scorreranno
parallele e quasi complementari tra loro: una sottotraccia, l'altra
sotto le luci della ribalta.
Sulle orme del Teatro del Dolore
di Artaud, i Prunes inscenano un raggelante cabaret dadaista,
all'insegna di urla e sangue, messe nere e danze sfrenate. Gavin Friday
(vero nome: Fionan Harvey), cantante, performer, e compositore, è
l'anima del gruppo, che comprende gli altri due vocalist Guggi (Derek
Rowan, fratello di Peter, il bambino raffigurato sulle copertine di
"Boy" e "War" degli U2) e Dave-id "Busaras" Scott (personaggio
infantile, rimasto segnato da una meningite contratta da bambino), il
bassista Strongman (Trevor Rowan, altro fratello di Derek), il
batterista Pod e il chitarrista Dik (Richard Evans, fratello di The
Edge). I primi singoli ed Ep del biennio 1980-'81 contengono già in nuce
la filosofia del loro progetto: armonizzare un folklore atavico con
sonorità d'avanguardia, mutuate dal ramo più colto del progressive (King Crimson, Genesis, Van Der Graaf Generator), dalle pantomime glam di David Bowie
e dalla tradizione gotica. Una congerie di idee e suoni disarticolati,
che sarà sublimata nel loro debutto sulla lunga distanza, targato 1982.
Prodotto da Colin Newman dei Wire,
capace di incanalare la foga sperimentale del gruppo verso rotte più
"musicali", "...If I Die, I Die" è una raccolta di mini-piece immerse in
un clima di gelo surreale. Lo chiameranno glam-dark , e non a
torto, visto che di entrambi i generi riesce a catturare l'essenza. La
band, che presenta ora Mary D'Nellon dietro ai tamburi, suona con un
fervore esagitato, degno dei migliori Banshees. Strumenti tradizionali, come il whistle e il bhodran,
si saldano a chitarre elettriche dissonanti, a effetti rumoristici e a
suoni catturati dal vivo e registrati su basi elettroniche. La resa
teatrale dell'operazione è garantita soprattutto da Friday, crooner
d'oltretomba, con le sue litanie sinistre e allucinate.
"...If I
Die, I Die" è un incubo. Termine fin troppo abusato, si dirà, ma non in
questo caso. La poetica dei Virgin Prunes, infatti, si rifà
espressamente al tentativo dadaista di "togliere il sonno alla
borghesia". L'arte è lo strumento per oltraggiare il perbenismo
ufficiale, provocando, sbigottendo, disgustando. Ma è anche la chiave
per svelare la verità e la bellezza ("A New Form Of Beauty" si
intitolerà un altro loro progetto), sepolte da secoli di convenzioni
sociali e messe a repentaglio da un progresso disumanizzante (quella
paura del futuro che, dai Pere Ubu agli Ultravox, ha sempre ossessionato la new wave).
Ecco, allora, il senso di un rinnovato paganesimo, di un primitivismo
animalesco, che si ridestano, in una sorta di rito salvifico, per
liberare l'umanità. "...If I Die, I Die" è quasi un concept album su questo tema, sviluppato su più registri: grottesco, solenne, demenziale, apocalittico.
Lo
strumentale "Ulakanakulot" schiude le porte di questo tempio eretico
sulle note di una minacciosa nenia medievale. Recuperando l'espediente
del "cerimoniale", già caro agli avi Stooges, Doors e Amon Duul,
e giocando sugli improvvisi cambi di ritmo, i Prunes intrappolano
l'ascoltatore in una spirale d'ansia infinita. Si susseguono così sketch
glaciali, al limite del cabaret brechtiano ("Decline And Fall", con la
declamazione straniante di Friday e il coro funereo sullo sfondo, o la
cantilena sguaiata di "Sweethome Under White Clouds", sfregiata dai
gemiti di un clarinetto) e sarabande indiavolate come la stupenda
"Caucasian Walk": un beffardo giro di danza slava tirato all'impazzata
con un dialogo ritmico in controtempo, tra le urla nevrasteniche del
cantante e l'infuriare delle percussioni. E' l'apice della violenza
"tribale" del disco e il più esplicito rimando agli etno-psicodrammi dei
Pil.
Altre volte, invece, Friday si cala nei panni di un dandy gigione, a metà tra il Peter Murphy più loffio e un Brian Ferry
in acido (il synth-pop di "Baby Turns Blue", con un cantato alla Bowie
puntellato dai fraseggi ficcanti di tastiere e chitarre, o la ballata
quasi convenzionale di "Ballad Of The Man", resa però sinistra
dall'arrangiamento ridondante e dai coretti surreali). Ma è solo fumo
negli occhi. L'illusione di una quiete che non potrà mai compiersi.
Anche perché ci sono le chitarre affilate di "Walls Of Jericho" in
agguato, e Friday è pronto a mettere in scena l'ennesima metamorfosi: da
dannato a predicatore (il testo svela che quantomeno i Prunes credono
nell'esperienza umana di Cristo - Friday e Guggi frequentarono anche per
un periodo il gruppo "Shalom"). Nei quasi sei minuti di "Bau-Dachong",
invece, sembra di ascoltare una versione ancor più spettrale dei Bauhaus,
tra fremiti metallici delle chitarre, echi, riverberi e una sezione
ritmica sempre più ossessiva, come si confà ai dogmi del dark-punk.
"Theme
For Thought" propone invece un inserto di "The Ballad Of Reading Gaol"
di Oscar Wilde, del quale i Prunes condividono l'estetica decadente e il
feroce anticonformismo. È l'atto finale, affidato ancora una volta al
baritono melodrammatico di Friday, cui si sovrappongono le lagne dementi
dei compari, quasi a voler rimarcare quella vena d'infantilismo
isterico che è un altro leitmotiv del disco.
Il cabaret dei Virgin Prunes ha tenuto i battenti fino al 1986, sempre più surreale, sempre meno redditizio. Poi, la band si disperderà e Friday seguirà altre e più lucrose rotte. Ma lo shock sonoro di "...If I Die, I Die" continuerà a riverberarsi negli anni successivi. E chissà che anche i protagonisti della rinascita new wave del Duemila non debbano qualcosa a questi vecchi fauni irlandesi.
Claudio Fabretti