domenica 23 ottobre 2016

Non essere cattivo




Scrivere, parlare di "Non essere cattivo" implica una certa dose di dolore. Non c'è da stupirsi, dato che dietro la macchina da presa c'è Claudio Caligari, un maestro vero, abbandonato dall'industria cinematografica italiana, nonostante con un pugno di documentari e due lungometraggi avesse già fatto capire che il suo nome meritava ampiamente di essere consegnato alla storia del nostro cinema. Il dolore provocato dalla visione del suo terzo, magnifico film è stratificato e agisce sotto molteplici aspetti.


C'è il rimpianto che provoca la consapevolezza che Caligari è morto troppo presto, nel pieno di una sua pienezza artistica che avrebbe potuto regalarci perle di rara bellezza ancora per anni; c'è il dolore dato dalla storia narrata in sé, stupefacente nel suo procedere in perfetto equilibrio tra il crudo realismo pasoliniano con cui sono immortalati i protagonisti e un poetico e straziante sapore da melodramma di periferia, capace di strappare il cuore anche allo spettatore più duro di sentimenti.


C'è un'annotazione malinconica su un cinema fuori dal tempo e fuori dalle mode, così introvabile in Italia, un cinema che Caligari ha potuto incidere su pellicola, soltanto tre volte nell'arco di un trentennio, un vero delitto se pensiamo che tutto ciò ha prodotto "Amore tossico" (stupendo dramma sulla dipendenza da droghe negli anni 80) e "L'odore della notte" (vero noir, ambientato nella periferia più oscura di Roma), prima, appunto, di "Non essere cattivo".


Ma andiamo per ordine. È una Ostia di metà anni 90, quella disegnata con precisione fin dalla prima panoramica sul lungomare autunnale: il lido della Capitale ripreso allo spegnersi delle luci estive. Lì, tra il nulla e il vuoto, c'è la storia di Cesare e Vittorio, amici per la pelle da quando erano ragazzini, che tentano di dare un senso alle loro giornate sballandosi in continuazione e inframmezzando il rito del farsi con piccole attività illecite, utili giusto per comprare la prossima dose da spararsi. Questa è la loro vita, costellata di presenze simili: giovani e meno giovani emarginati da un progresso che li ha relegati ai margini della società che provano a sopravvivere.


L'ironia con cui Caligari pennella i caratteri dei due protagonisti, interpretati divinamente da Luca Marinelli (attore ormai di classe superiore) e la sorpresa Alessandro Borghi, non tradisce un realismo di borgata che penetra nel cervello e nelle ossa dello spettatore.  
Il senso di noia e inutilità sempre opprimente: lo si sente quando si guarda il mare, quando ci si siede al bar dell'angolo dove ci si ubriaca prima della sniffata del giorno, quando si torna a casa all'alba con gli occhi sfatti per troppe allucinazioni che sembrano sempre più lontane quando il sole si alza all'orizzonte. la sua 


L'ambizione del regista è quella di creare un vero romanzo di vita vissuta, un affresco corale di una gioventù bruciata non per amore della trasgressione ma perché giocoforza costretta a recitare nella
comunità il ruolo di coloro che sono emarginati.
Il passaggio dalla cocaina alle pasticche è come un passaggio del testimone a un'altra epoca: novità del nuovo millennio si affacciano alle porte di questa tristissima eppure bellissima Ostia, un finale aperto lascia il dubbio sul futuro di questa generazione sbandata. Riusciranno a vivere la vita senza venirne annientati? Caligari questo non lo dice. Ma quello che ci dona fino ai titoli di coda è già tantissimo e abbiamo il dovere di custodirlo nel modo più amorevole possibile.









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