martedì 5 luglio 2022

Dischi nella tomba: Nico - Desertshore (1970)

 

 

 



Capolavoro estremo del "gotico", nonché uno dei più straordinari viaggi che la musica del ‘900 abbia intrapreso tra le pieghe dell'anima umana, "Desertshore" vive di una austerità assoluta, di una insopportabile angoscia esistenziale. Il suo incedere è quello di una umanità incapace di porre rimedio al suo destino; la sua solennità è quella di un urlo che giunge dal fondo dei secoli. 

Come in un quadro di Munch, lo sfondo è prossimo a liquefarsi, per lasciare spazio a un indecifrabile ammasso di colori, a una mutevolezza diafana. Seguire le evoluzioni vocali di Nico, adagiate sulle traiettorie musicali di John Cale (che qui lambisce una forma essenziale di "folklore totale e universale"), seguire quel suo perenne lamento è un'esperienza traumatica, eccessiva, ma, ad ogni modo, inevitabile, autentica.

Fin dall'iniziale "Janitor Of Lunacy", l'impressione è quella di un vortice malsano, che rapisce e non perdona: l'harmonium di Nico e l'organo di Cale si rincorrono e si perdono, in una mirabile sintesi nera. La voce si situa in uno spazio angusto, nel punto più buio della mente: e da quel punto, giunge un linguaggio primordiale, profetico.


Venuto meno ogni impulso "ritmico", a scandire il tempo, è l'insinuarsi della musica nello spazio, uno spazio che acquisisce una inedita componente "visiva" grazie a questi terribili "lied" dell'Eterno. "The Falconer" sviluppa questa "tragicità immanente" in mezzo a rimbombi minacciosi di organo e contrappunti dissonanti di piano. Ma c'è spazio anche per una dolcissima sonata al piano di Cale, un attimo appena di luce, un attimo prima che Nico riprenda, più che il suo canto, la sua "visione essenziale della voce", un elemento fondamentale soprattutto in "My Only Child", cantata a cappella, in perfetta solitudine. Solo qualche brandello di coro e accenni di fiati, in controluce, dietro quel crepitare timido e abissale del silenzio.

La tensione nevrotica è ulteriormente sfiancata da "Le Petit Chevalier" (clavicembalo e canto francese di bambino) e da "Abschied" (violino dissonante, organo lugubre e voce di marmo). E' impossibile, poi, non sentire il cuore franare durante la dolcissima "Afraid", il momento in cui Nico è lì davanti a te, nuda, nella sua bellezza tragica e sovraumana, come una ninfa sola e triste in mezzo a un lago di madreperla. Godetevi questo momento, perché in "Mutterlein" torna a spirare un vento minaccioso. 

Questa apocalisse dello spirito teso verso la Rivelazione si compie con "All That Is My Own", tra tastiere minimaliste, trombe scalfite da rumorismi indistinti e la viola di Cale che lascia venire in superficie scintille orientali. Sullo sfondo, quella linea incerta e inesplicabile del deserto.

Nico, purtroppo, ci ha lasciato da tempo. Ciò che non ci abbandonerà mai, però, è questa malinconia gelida che accompagna ogni nostro attimo. Ed è per questo che "Desertshore" fa parte di noi. Ora e sempre.

 

The Innocents - Jack Clayton (1961)

 

 

Nell’Inghilterra vittoriana, Miss Giddens (Deborah Kerr) viene assunta da un ricco signore (Michael Redgrave) per occuparsi della nipotina Flora (Pamela Franklin) nella sua immensa villa con un grande giardino in una zona isolata fuori Londra, dove la piccola vive con la governante. Miss Giddens accetta con entusiasmo, ma le cose iniziano a cambiare appena nella grande casa fa ritorno dal collegio il fratellino di Flora, l’irrequieto Miles (Martin Stephens, uno dei bimbi de Il villaggio dei dannati).

La donna inizia a vedere nei due bambini strani cambiamenti, e pensa che questi siano influenzati  dalle presenze della precedente governante Miss Jessel e del suo amante stalliere Peter Quint. Tratto dal cupo e ambiguo “Giro di vite” di Henry James, sceneggiato tra gli altri da Truman Capote, Clayton firma uno dei capolavori del genere gotico di rara bellezza e inquietante persuasione, servendosi della ghost story per narrare il lato oscuro e morboso dell’infanzia, spesso manipolata o plasmata dal comportamento degli adulti. Il regista evita tutti i cliché del genere, scegliendo di non abbondare con porte che sbattono, rumori improvvisi e spettri che compaiono nel buio, ma lascia che siano gli spazi solitari della casa e le inquadrature architettoniche a provocare angoscia e tensione.

L’oscurità, non solo quella dell’enorme villa dove Clayton si sofferma più volte, ma quella dell’anima, è la chiave stessa di lettura del film. Non a caso, il regista si affida allo schermo completamente nero e una nenia angosciante, prima ancora che sullo schermo compaiano il logo della 20th Century Fox e i titoli di testa. We lay my love and I / beneath the weeping willow / but now alone I lie / And weep beside the tree, canta una voce di bambina, poche parole, che introducono il dualismo principale della pellicola, il binomio amore/morte. 

Fotografato in modo impeccabile da Freddie Francis, (Il terrore viene dalla pioggia) che avrebbe avuto poi una lunga collaborazione con David Lynch, Clayton racconta magistralmente il disagio dell’adolescenza e degli adulti, una sessualità repressa e opprimente, dove s’intravedono – o pensiamo di intravedere – storie d’abuso e violenza. Grazie alla monumentale interpretazione di Deborah Kerr e dei due attori bambini, Franklin e Stephens, Suspense gioca con l’ambiguità tipica dei racconti dell’orrore, per raccontare un orrore ben più grande e doloroso, quello della perdita della purezza con l’età adulta.