giovedì 7 dicembre 2017

Suburbicon (2017)





L'America a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta è sempre stata una delle ambientazioni predilette dei film diretti e/o scritti da Ethan e Joel Coen: l'America del benessere, dei manifesti pubblicitari, delle villette immacolate dei quartieri residenziali; un'America ancora refrattaria ai mutamenti sociali del periodo immediatamente successivo, e talmente ossessionata dalla propria, inviolabile idea di perfezione da essere disposta a tutto pur di preservarla da ogni potenziale fonte di 'disturbo'.

Con Suburbicon è invece George Clooney, di nuovo in veste di regista, a riprendere in mano un vecchio copione dei due fratelli del Minnesota, risalente addirittura all'epoca di Blood Simple - Sangue facile e perfettamente in linea con la poetica coeniana e con i suoi elementi distintivi.
La fittizia cittadina di Suburbicon  presentata in apertura come un microcosmo idilliaco è il teatro a tinte pastello dell'American Dream. Ma dietro la patinata superficie di questa "pastorale americana" fanno capolino fin da subito ipocrisie e storture; e a farle emergere, manco a dirlo, è l'arrivo di una nuova famiglia, i Meyers, afroamericani, nella villetta accanto a quella dei Lodge, nel cuore di un 'paradiso' fino ad allora totalmente bianco e ferocemente desideroso di restare tale.

Da qui in poi, dopo uno spiazzante incipit drammatico, prosegue fra costanti colpi di scena, repentini rovesciamenti delle sorti dei personaggi e arditi cambiamenti di registro: dal thriller alla satira di costume, dal noir al grottesco, secondo l'inconfondibile tradizione dei fratelli Coen. E uno degli aspetti più intriganti di Suburbicon, tra i suoi maggiori motivi di fascino, risiede proprio in questa natura ibrida e multiforme: Clooney e i Coen giocano infatti con alcuni archetipi del noir classico, a partire dalla doppia figura femminile incarnata dalla Moore, strizzano l'occhio a La fiamma del peccato di Billy Wilder e affidano ad Oscar Isaac il breve ma incisivo ruolo dell'astuto detective Roger, ennesima pedina in un complesso gioco fra il gatto e il topo destinato - ovviamente - a una deriva fuori controllo. 


Matt Damon, nei panni di un padre e marito che pare più volte in balia delle circostanze, presta il volto a un altro, tipico everyman del cinema dei Coen: un individuo destinato a rivelarsi un inetto fra gli inetti, ovvero la sorte implacabile iscritta nel codice genetico di innumerevoli antieroi coeniani. Perché, a dispetto di tutti i nostri sforzi, è il caos, o peggio ancora un caso beffardo e inesorabile, a disintegrare con diabolica puntualità i progetti degli esseri umani.
Il film di Clooney disegna un affresco al vetriolo sia della società americana nel complesso, sia della sua "colonna portante": quell'istituzione familiare che in Suburbicon viene sottoposta alla più atroce delle dissacrazioni. Con sequenze che evocano sinistri rimandi all'America del presente (le manifestazioni dei suprematisti bianchi e i rigurgiti neonazisti), ma con un epilogo da cui, nell'apoteosi di sangue e di violenza, sembra filtrare pure un flebile raggio di speranza. 



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