lunedì 27 novembre 2017

The Pogues - Rum, Sodomy And The Lash





I Pogues nascono all'inizio degli anni '80 (come Pogue Ma Hone che in lingua gaelica suona più o meno come "baciami il culo" e che sarà accorciato quando i nostri firmeranno con la Stiff) su iniziativa di Shane MacGowan, personaggio scorbutico, ribelle, che dopo diverse esperienze in band punk nei Seventies, decide di mettere su un gruppo in grado di suonare quantomeno nei pub.

Dopo un periodo di rodaggio nei sobborghi di Londra e in veste di busker per le strade del Regno Unito, il gruppo (Jem Finer al banjo e Spider Stacey al tin whistle, cui poi si aggiungeranno il batterista Andrew Ranken e il polistrumentista James Fearnley), confortati dalla risposta del pubblico alla propria ricetta che mostra country, rockabilly, tradizione e folk, decidono di ritentare la strada del professionismo musicale, reclutando la bassista Cait O' Riordan. 

"Rum, Sodomy And The Lash" è il loro secondo disco, quello della maturità artistica. Dopo aver dimostrato con il primo "Red Roses For Me" (1984) di essere in grado di manipolare la materia folk ben al di là della rivitalizzazione dei classici infondendogli con l'attitudine punk che li guida nuova linfa vitale, con questo secondo lavoro i Pogues trovano con il proprio suono, abile mix di strumentazione acustica e ritmi forsennati e alcolici (pilotato da un Elvis Costello in stato di grazia) e con la penna di MacGowan la ricetta per la definitiva consacrazione tra i grandi della folk music dando voce a quella massa di "beautiful losers".

"Sally MacLennane", "A Pair Of Brown Eyes" riaggiornano quell'epica quotidiana di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, se non altro per esorcizzare i nostri demoni, ma meglio per celebrare la nostra sfida quotidiana con la vita (proprio come con i biglietti d'auguri natalizi delle puttane di Minneapolis del signor Waits), che la dimensione elettrica ed elettronica del sound wave allora imperante aveva di fatto oscurato. 
Se agli originali scritti da MacGowan aggiungete una serie di traditional o cover perfettamente in tema quali "Dirty Old Town" di Ewan McColl (da alcuni giudicata una delle più belle folk song della seconda metà del secolo scorso) o la "Waltzing Mathilda" di Eric Bogle riproposta in una versione meravigliosa con un'interpretazione di MacGowan superba che sa far rivivere tutta la desolazione e l'angoscia di quei ragazzi australiani mandati al massacro durante la prima guerra mondiale, aggiungete la gioia danzereccia degli strumentali che punteggiano il disco ("Wild Cats Of Kilkenny") o "A Pistol For Paddy Garcia", che dimostra come i nostri sappiano metabolizzare anche elementi "spuri" come il country o il folk americano nella loro ricetta, otterrete un disco quasi perfetto nel suo tenersi in equilibrio tra passato e presente, nel suo tener ben salde le radici della propria storia e nel saper spiegare le proprie ali al di sopra delle contingenze stilistiche per arrivare a essere un classico.



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